22 luglio 2021 16:42

Indipendentemente dal fatto che sia rappresentata su libri, palcoscenici o schermi, la storia della salute e della felicità dell’essere umano spesso viene rappresentata come un ineluttabile arco che va dalla nascita alla morte. William Shakespeare ha saputo rendere questo concetto meglio di chiunque altro con il suo discorso sulle “sette età dell’uomo”. Giungiamo in questo mondo come neonati che “gemono e rigurgitano”, attraversiamo le stranezze tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza, passiamo attraverso l’età dell’oro della nostra mente e del nostro fisico, prima di un lento declino.

Fino a non molto tempo fa, anche la scienza sembrava confermare questa visione della vita. Rispetto a molte capacità si pensava che noi esseri umani raggiungessimo il nostro massimo ben prima della mezza età; eppure è sempre più chiaro che questa era un’immagine fin troppo semplicistica. L’infanzia e l’adolescenza possono rappresentare i periodi di più rapido sviluppo, ma il nostro cervello può cambiare in maniera molto positiva nell’arco di tutta la vita e alcune importanti capacità cognitive continuano a migliorare anche quando abbiamo cinquanta, sessanta e settanta anni. “L’intera teoria secondo cui il cervello raggiunge la piena maturità ai venticinque anni è una baggianata”, dichiara Daniel Romer, psicologo presso l’Università della Pennsylvania.

Anche la nostra forma fisica non segue una semplice curva con una fase di aumento, un picco e un crollo. Se da un lato un ventenne può essere in grado di vincere una gara di velocità, in molti altri sport la performance migliore potrebbe avvenire in un’età più matura. Per non parlare di fattori come il benessere emotivo e l’equilibrio mentale, che seguono schemi di crescita e calo imprevedibili. E anche se spesso rimpiangiamo la felicità della nostra gioventù, per molti di noi i giorni più felici della vita sono quelli che devono ancora arrivare.

Imparando a riconoscere questi schemi, possiamo trovare modi migliori di nutrire la nostra crescita e abbracciare le possibilità che ci si presentano a ogni stadio della nostra vita. Quindi, da un punto di vista scientifico, cosa sono le sette età della vita? Come possiamo ricavarne il massimo?

Infanzia: l’età del pensiero originale e dell’immaginazione

È un enorme peccato che non possiamo ricordare i nostri primi anni di vita. Se guardiamo la cosa dal punto di vista dell’effettivo numero di cambiamenti nel corpo e nel cervello, la prima infanzia è il periodo di maggior trasformazione nella nostra vita. Non solo sviluppiamo le abilità essenziali per la sopravvivenza, come camminare e nutrirci, ma impariamo anche il linguaggio e come riconoscere i pensieri e le emozioni delle persone.

Da un punto di vista neurologico, gran parte di questa trasformazione coinvolge il continuo rafforzamento delle connessioni tra alcune cellule del nostro cervello e la chiusura di quelle connessioni non necessarie. Per quanto riguarda alcune aree, come per esempio l’apparato visivo o quello auditivo, la trasformazione avviene in maniera estremamente rapida durante i primi anni di vita. Questo potrebbe spiegare perché l’infanzia è un periodo fondamentale per l’apprendimento, soprattutto per quanto riguarda abilità sensoriali come lo sviluppo del linguaggio e di un suo accento o l’intonazione musicale. Per altre aree del cervello, come la corteccia frontale coinvolta nel pensiero complesso e nel processo decisionale, questo processo di rafforzamento di alcuni legami e la recisione di altri continua ben oltre l’adolescenza.

Gran parte di questo sviluppo del cervello che avviene durante l’infanzia può scaturire da una sorta di apprendimento di tipo statistico che ricorda molto il metodo scientifico: fare previsioni e poi aggiornarle in base ai dati raccolti attraverso l’esperienza. Per raccogliere queste informazioni, l’attenzione di un bambino si sposterà su ciò che risulterà inaspettato o sorprendente: ecco perché i bambini sono così curiosi anche delle cose più banali. Con il passare del tempo il processo aiuta i bambini a riconoscere oggetti e suoni e a comprendere il significato delle diverse parole.

Il gioco basato sull’immaginazione può favorire questo processo, soprattutto quando il bambino comincia a esplorare le regioni del pensiero complesso e sofisticato che definisce la nostra specie. Per esempio gli esseri umani usano spesso il ragionamento per assurdo, che implica il porsi domande su scenari ipotetici e immaginarne le conseguenze. Giocare a fingere di essere qualcun altro o in un altro posto o epoca sembrerebbe essere in grado di sviluppare questa capacità. Come evidenziato dalla psicologa dello sviluppo Alison Gopnik nel suo libro The philosophical baby, i bambini trascorrono moltissimo tempo in mondi immaginari coltivando queste abilità molto di più rispetto agli adulti.

Questo potrebbe spiegare perché l’infanzia è un periodo di massima creatività e immaginazione e perché i giovani ottengono punteggi più elevati rispetto alle persone più grandi nei test sul pensiero originale – ragionare su usi inconsueti di un oggetto, come per esempio un mattone (in questo gli adolescenti generalmente ottengono punteggi maggiori).

A mano a mano che i bambini apprendono parole nuove aumenta la loro capacità di raccontare storie, la quale influirà sull’abilità di ricordare la loro stessa vita; la nostra memoria autobiografica sembra cioè aumentare e svilupparsi in parallelo alle nostre capacità linguistiche, il che potrebbe spiegare perché abbiamo così tante difficoltà a ricordare i nostri primi anni di vita.

Adolescenza: l’apice della curiosità e dei rischi

Potremmo essere portati a immaginare che l’adolescente ribelle sia un’invenzione moderna, ma si possono ritrovare tracce di questo stereotipo addirittura ai tempi dell’antica Grecia. Secondo Aristotele i giovani hanno la tendenza a “esagerare in qualsiasi cosa”. Anche Shakespeare espresse un pensiero ugualmente negativo: “Sarebbe bene che l’età degli uomini dai dieci ai ventitré non esistesse, o che la gioventù se la dormisse, perché non fanno altro, in quest’età, che pensare ad ingravidar ragazze, fare ogni sorta di soprusi ai vecchi, rubare ed azzuffarsi tutto il tempo…”.

La pubertà – con tutti quegli ormoni sessuali in circolo – potrebbe sembrare il motivo più ovvio per questo comportamento impulsivo e sprezzante delle regole. Fino a non molto tempo fa, si riteneva che gli adolescenti subissero alcuni particolari cambiamenti del cervello tali da impedire loro di agire lucidamente e razionalmente. Il sistema limbico, che governa la motivazione e il senso di ricompensa, si sviluppa e matura assai più velocemente della corteccia prefrontale, che è essenziale per l’inibizione di alcuni comportamenti e per il pensiero logico. Come risultato, si riteneva che i cervelli degli adolescenti fossero “squilibrati”, portati a provare emozioni incontrollabili e incapaci di governarle fino al raggiungimento dei circa venticinque anni di età, ossia quando la corteccia prefrontale raggiunge uno sviluppo pari a quello del sistema limbico. Si riteneva quindi che fino a quel momento, gli adolescenti fossero incapaci di prendere buone decisioni, idea questa che riscuote ancora oggi parecchio successo.

Secondo Romer, è tempo di lasciarsi alle spalle questi stereotipi. “Sono generalizzazioni grossolane” sostiene, argomentando anche che ci sono ben poche prove del fatto che la maggior parte degli adolescenti abbia seri problemi di autocontrollo. È vero che la tendenza a cercare sensazioni forti – quel desiderio di esperienze sempre diverse, nuove e intense – raggiunge il picco tra i sedici e i diciannove anni, il che può spiegare la tendenza degli adolescenti a correre rischi. Ma Romer ritiene che gli scienziati dovrebbero altresì concentrarsi maggiormente sui molti benefici della spontaneità e della curiosità dei teenager per provare a spiegare il perché di questo comportamento spericolato. “Gli adolescenti esplorano e sperimentano”, sostiene. “Questo per forza di cose richiederà una certa dose di rischio. Ma bisogna provare per capire se un qualcosa è efficace e adatto alle nostre esigenze”.

Che si tratti di esplorare la propria sessualità o del desiderio di viaggiare, l’impulso a cercare nuove sensazioni aiuta gli adolescenti ad accumulare una gran quantità di esperienze che saranno loro utili nei successivi anni di vita. E questo è favorito da un tratto spesso sottovalutato che è la tolleranza per l’ambiguità: gli adolescenti sono particolarmente capaci di affrontare risultati incerti ed è per questo che sono in grado di adattarsi alle nuove situazioni in maniera così efficace. Bisogna anche apprezzare il bisogno degli adolescenti di ricavare per se stessi un posto nella società. Una rete sociale stabile è essenziale per vivere bene da adulti. Secondo quanto sostenuto da alcuni ricercatori, questa potrebbe essere la spiegazione del perché gli adolescenti cercano sempre di evitare il rifiuto e siano anzi portati a subire la pressione dei compagni, anche se ciò significa comportarsi in maniera avventata. Magari secondo i loro calcoli vale la pena correre il rischio, considerando la possibilità che ciò rafforzi le loro relazioni interpersonali. E questa non è una decisione del tutto irrazionale se si ha come obiettivo quello di garantirsi una rete di amicizie salda e sicura.

Vent’anni: gli anni veloci. Ma sono davvero i più felici?

Per molte persone il terzo decennio di vita corrisponde al periodo più divertente è bello, quello in cui si lanciano alla scoperta del mondo, spesso dando inizio alla loro carriera e incontrando quello che sarà il compagno della loro vita. Non c’è da stupirsi se, guardandosi indietro, la maggior parte delle persone conserva molti più ricordi dei vent’anni piuttosto che di altri decenni – fenomeno, questo, conosciuto come picco di reminiscenza.

Curiosamente, i ricordi che fanno parte del picco di reminiscenza sono quasi sempre positivi. Forse perché rende più soddisfacente la ricostruzione narrativa di questo decennio fondamentale, solitamente preferiamo ricordare i momenti più felici piuttosto che quelli stressanti, che invece tendono a essere dimenticati. In realtà, intorno ai vent’anni si è meno felici che durante l’adolescenza o la terza età. Spesso la nostalgia è un sentimento innocuo, ma può essere positivo togliersi dagli occhi il “filtro rosa” e andare a indagare su certe cose date per scontate di questi anni inebrianti.

È piuttosto comune prendere per buono il concetto che i vent’anni siano il momento di maggior forma fisica e mentale, andando poi a concludere che il resto della vita sia un inevitabile declino. Ma la verità è molto più complessa. Consideriamo la forma fisica. È vero che solitamente i culturisti professionisti raggiungono la loro massima performance a vent’anni e che i velocisti tendono a raggiungere lo stesso traguardo tra i ventiquattro e i ventisei, dopodiché di solito si assiste a un calo costante delle performance in questi sport. Questo deriva dai cambiamenti che avvengono nel nostro corpo, come la perdita di alcune fibre muscolari a contrazione rapida capaci di creare l’esplosione di energia necessaria per prestazioni di alta velocità o di forza esplosiva.

Per i velocisti di professione questo spesso crea una barriera insormontabile. “A quel livello, anche il semplice calo di uno 0,5 per cento nelle prestazioni può essere un grande ostacolo”, dichiara Gennaro Boccia dell’università Di Torino, che ha recentemente pubblicato degli studi sui cambiamenti legati all’età nelle performance di atleti italiani di alto livello. Ma per il resto delle persone solitamente questo tipo di impatto risulta irrilevante rispetto ai nostri sforzi per rimanere attivi e in forma. “Nella popolazione media, di solito si comincia a vedere un peggioramento delle prestazioni dopo i quarant’anni”, considera Boccia.

La parabola seguita dal nostro cervello dopo i vent’anni è altrettanto complessa e non si può semplicemente riassumere in un declino. In una serie di esperimenti Laura Germine, della facoltà di medicina dell’università di Harvard, ha testato decine di migliaia di persone per verificare le differenze esistenti a livello di capacità cognitive tra diverse fasce d’età. I risultati della sua ricerca confermano che i ventenni sembrano avere il primo posto a livello di tempi di reazione e capacità di risolvere velocemente i problemi che vengono loro sottoposti. Ciononostante molte importanti capacità, tra cui la capacità elaborativa della memoria, il riconoscimento di tratti somatici, la percezione delle emozioni e l’abilità di mantenere la concentrazione, raggiungono il loro picco massimo in età più avanzata.

Trent’anni: l’età della resistenza

Se i vent’anni possono essere definiti dalla velocità – sia fisica sia psicologica – i trenta potrebbero allora essere considerati gli anni della resistenza.

Ciò è reso evidente dal fatto che gli atleti specializzati sulle lunghe distanze realizzano le loro migliori prestazioni in questa fascia di età. Per i maratoneti l’età ideale risulta essere quella di trentun anni. Per le maratonete il picco è a un’età lievemente inferiore, intorno ai ventisette anni, nonostante campionesse come Paula Radcliffe abbiano continuato a vincere fino ai trentacinque anni. L’età che rappresenta la massima forma fisica per gli ultramaratoneti, quelli che corrono più di 160 chilometri, invece è trentasette anni per gli uomini e trentotto per le donne.

Perché mai? La perdita della muscolatura a contrazione rapida influisce ben poco quando si va a vedere la prestazione in sport che si basano sulla capacità di resistenza. Ma dai trent’anni si assiste a una diminuzione della capacità aerobica – il livello di efficienza dell’organismo di far arrivare l’ossigeno ai muscoli – il che potrebbe far diminuire il livello delle prestazioni. D’altro canto, gli anni di esperienza accumulati possono tradursi in un vantaggio: una miglior capacità di gestione delle emozioni e di pianificazione, qualità che possono aiutare gli atleti a tenere il ritmo durante gare di resistenza e a sostenere al meglio l’inevitabile carico di stress e stanchezza. Questo può controbilanciare i primi stadi del declino fisiologico trasformando i trent’anni in un momento d’oro per gli atleti.

Il cervello sta inoltre guadagnando sicurezza e familiarità nella gestione di una vasta gamma di abilità cognitive. Germine ha dimostrato che le prestazioni per quanto riguarda compiti inerenti la memoria di lavoro, come per esempio la capacità di tenere a mente diverse informazioni allo stesso tempo, raggiunge il suo apice intorno ai trent’anni. Non è perciò difficile comprendere quanti benefici possa comportare questo aspetto, dato che il carico di lavoro, tra casa e ufficio, tende ad aumentare nel corso del decennio.

Certamente, giunti a questa età, la velocità di elaborazione mentale è lievemente più bassa, ma questo è un piccolo prezzo da pagare considerando le molte altre abilità che acquisiamo con l’età. “Potrai non essere veloce come quando avevi vent’anni, ma non ne hai più tanto bisogno quando ti occupi di cose in cui ormai sei specializzato”, dichiara Germine.

Quarant’anni: gestione delle emozioni e concentrazione

“Ciò che fa davvero paura della mezza età e che sai che dovrai per forza oltrepassarla”: questa battuta si dice sia stata pronunciata dall’attrice e cantante Doris Day. Si potrebbe anche affermare con galanteria che la vita cominci in realtà a quarant’anni, ma per molte persone quest’età può sembrare più l’inizio della fine.

La mezza età non è sempre stata vista in questo modo. Nei dipinti del rinascimento che ritraggono le età della vita spesso si vede questo decennio rappresentato come un leone, simbolo di forza e di coraggio. Non è ben chiaro perché oggi abbiamo un’idea ben più negativa, ma Margie Lachman, responsabile del Lifespan Development Lab alla Brandeis University del Massachusetts, suggerisce che ciò può essere ricollegato alla pressione che comincia ad aumentare dai trenta in poi. “Al giorno d’oggi la mezz’età è un periodo di forte stress, molto più che in passato”, sostiene Lachman. “Le persone si trovano nel bel mezzo della loro vita lavorativa e familiare. E questo può andare a pesare sulla capacità di concentrazione e sul proprio benessere”.

Ci sono, a ogni modo, molte ragioni per essere ottimisti rispetto a questo periodo cruciale. Gli studi di Germine si sono focalizzati anche sul famoso “mind in the eyes test” – o test degli occhi – che chiede alle persone di dedurre gli stati emotivi di alcuni soggetti da piccole differenze nelle espressioni facciali. Ha così scoperto che le persone ultraquarantenni totalizzano punteggi più elevati. Questo, suggerisce la ricercatrice, può essere dovuto all’esperienza. “Pensiamo che ciò sia dovuto alla mole di sfumature sociali che una persona impara a conoscere durante tutta la vita”.

Germine ha rilevato schemi simili in un test basato sulla forte richiesta di attenzione: ai partecipanti veniva chiesto di osservare diverse scene che sfumavano l’una nell’altra e di adattare la loro risposta in base a ciò che vedevano – premere la barra spaziatrice quando vedevano una città, lasciare il tasto quando vedevano una montagna. A dispetto della difficoltà – e noia – nello svolgere questo compito, i quarantenni hanno trovato molto più facile portarlo a termine rispetto ai ventenni.

È interessante notare che nelle società tradizionali di cacciatori-raccoglitori sono gli individui di mezz’età a reperire le maggiori quantità di risorse. Secondo vari studi antropologici, i cacciatori-raccoglitori spesso impiegano anni e decenni ad apprendere e gestire certe abilità, le quali continuano a evolvere tra i quaranta e i cinquant’anni.

Ci sono degli aspetti negativi nel raggiungimento di questa età, d’altro canto. La pelle tende a perdere parte della sua elasticità e il grasso corporeo comincia ad accumularsi intorno alla vita. Ma dopo un calo iniziale, la felicità tenderà ad aumentare di nuovo alla fine del decennio e all’inizio di quello successivo.

Contrariamente all’opinione popolare, sembra che gli esseri umani si siano evoluti per fiorire dalla mezza età in poi.

Cinquanta e sessant’anni: i frutti dell’intelligenza cristallizzata

A meno che non si sia estremamente fortunati, giunto ai cinquanta e ai sessanta il nostro corpo avrà cominciato a rallentare, ma non c’è motivo di smettere di prendersi cura della propria salute. Un numero sempre maggiore di studi dimostra che il quadro psicologico e lo stile di vita continuano a far sentire i loro effetti nelle età più avanzate. “Nella maggior parte dei casi, il modo in cui invecchiamo è nelle nostre mani”, dichiara Lachman.

In passato gli scienziati non erano soliti sostenere i benefici dell’attività fisica per le persone mature. Partendo dal preconcetto che questa fosse una parte della vita in cui inevitabilmente il fisico degrada, l’approccio generale era di incoraggiare le persone a non farsene una malattia e ad accettarlo serenamente. “Si tendeva a pensare che un esercizio fisico intenso fosse pericoloso per le persone di una certa età, che avrebbero potuto soffrire di attacchi di cuore oppure cadere e magari rompersi qualche osso”, dice Lachman.

Una ricerca portata avanti da Lachman ha contribuito a cambiare quest’ottica. A metà degli anni novanta del secolo scorso, il team della scienziata ha iniziato a seguire più di tremila persone di età compresa tra i 32 e gli 84 anni. Nel corso di un decennio, lo stato generale di salute dei soggetti partecipanti alla ricerca è stato tenuto sotto controllo analizzando principalmente tre fattori: l’attività fisica svolta, la loro rete di supporto sociale e il loro senso di controllo sulla propria vita.

In termini di salute generale, Lachman ha rilevato che i soggetti di età compresa tra i cinquanta e i settanta che ottenevano buoni punteggi rispetto a questi fattori somigliavano molto di più ai soggetti di età compresa tra i trenta e i cinquanta presi in esame in quello studio rispetto ai loro coetanei.

Da qui si deduce la molteplicità di interventi possibili. “Promuovere l’esercizio di gruppo o condividere i propri successi, ottenuti grazie all’esercizio fisico, con i propri amici e familiari può essere un modo per aumentare la propria attività e anche il supporto sociale, fattori questi entrambi molto benefici per la salute, dichiara Lachman. Allo stesso tempo, la psicoterapia può aiutare le persone a cambiare la sensazione di controllo, incoraggiandole a vedere il potenziale che hanno per cambiare le proprie vite in maniera positiva.

Si può essere proattivi in maniera similare rispetto alla nostra attività cognitiva. Secondo gli studi di Germine, l’intelligenza cristallizzata – la mole di conoscenze, fatti e capacità che accumuliamo durante la nostra vita, come per esempio l’ampiezza del nostro vocabolario personale, raggiunge il suo apice tra i cinquanta e i settant’anni. Grazie a questo, si dovrebbe avere una capacità di espressione di gran lunga maggiore rispetto ai ventenni o trentenni. Questo accumulo di sapere potrebbe essere anche responsabile, per alcuni soggetti, della ridotta capacità di elaborazione rapida misurata grazie alcuni test nelle persone più anziane. In fondo, reperire un’informazione è più difficile se la mole di conoscenze tra cui andare a cercarla è maggiore.

Certamente, potrà capitarvi di vivere degli episodi di smemoratezza; eppure una ricerca condotta da Dayna Touron dell’Università di Greensboro, nel North Carolina, ha dimostrato che gli anziani sono fortemente pessimisti rispetto allo stato della loro memoria, il che può scoraggiarli senza evidente motivo a esercitare la propria mente. Per esempio quando sono alla guida potrebbero usare il Gps per paura di dimenticare la strada, eppure spesso, se messi sotto pressione, sono in grado di ricordare il giusto tragitto.

Quest’abitudine di evitare di esercitare la memoria può velocizzare la perdita di capacità, quindi è molto importante non permettere ai giudizi pessimisti di divenire profezie. Fortunatamente, al giorno d’oggi vi sono moltissime prove del fatto che le persone che continuano a imparare nuove cose e a mettere alla prova le proprie capacità tendono a mantenere il proprio cervello più in salute nella terza età. Può trattarsi di imparare a parlare una nuova lingua oppure a suonare uno strumento o anche un’abilità manuale, come ad esempio fare le trapunte, qualsiasi cosa che sia abbastanza complessa da tenere la mente in allenamento.

Sia che si tratti dei nostri cervelli, sia che si tratti dei nostri corpi, la questione è usarli o perderli.

Settanta e oltre: massima saggezza e capacità decisionale

Se si desidera rimanere in salute, un’attività regolare e impegnativa è essenziale quando si attraversano e superano i settanta anni. “Non è mai troppo tardi per fare dei cambiamenti”, sostiene Lachman. Per esempio, uno studio ha dimostrato che un programma di allenamento della forza muscolare è stato in grado di migliorare le capacità motorie di soggetti novantenni. Allo stesso tempo, potremmo cominciare ad apprezzare la saggezza acquisita durante la vita e provare a metterla a frutto.

Questo potrebbe anche suonare come un cliché, ma Igor Grossmann dell’Università di Waterloo in Canada, ha ideato dei test capaci di misurare i vari elementi del “wise reasoning” – la tendenza a ragionare in modo complesso e i cambiamenti relativi all’età si sono rivelati fondamentali. In un tipico test, ai partecipanti viene somministrato un testo che descrive un conflitto personale o politico e viene chiesto loro di discutere quali potrebbero essere i possibili sviluppi. Alle loro risposte viene poi attribuito un punteggio basato su qualità come l’umiltà intellettuale (ossia la capacità di ammettere ciò che non si sa), l’abilità di adottare diverse prospettive e la capacità di trovare un compromesso. Prese nel loro insieme, queste caratteristiche sono ritenute la struttura base del concetto generale di saggezza che è stato promosso dai filosofi attraverso le varie epoche.

Grossmann ha rilevato che i punteggi ottenuti dalle persone prese in esame rispetto al wise reasoning sono spesso strettamente collegati con vari indicatori della soddisfazione rispetto al proprio stile di vita e alla qualità delle relazioni sociali, piuttosto che agli indicatori tradizionali delle abilità cognitive come il quoziente intellettivo. Le persone più anziane hanno rivelato di eccellere in questi test in confronto ai partecipanti di mezz’età o più giovani. La qualità generale dei nostri processi decisionali sembra effettivamente aumentare costantemente durante la vita.

Le nostre impressionanti abilità in tutte e sette le fasi della vita rendono chiaro ed evidente che non c’è un solo periodo di splendore: ogni decennio può essere considerato un momento d’oro in una forma o in un’altra. Dal momento in cui mettiamo piede in questo mondo fino a quando ne usciamo, noi esseri umani abbiamo un grande potenziale.

(Traduzione di Maria Chiara Benini)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale New Scientist.

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