10 maggio 2022 12:13

Nel 2014-2015, quando l’aumento del numero di richiedenti asilo in fuga dalle guerre in Siria e Iraq ha messo sotto gli occhi di tutti la necessità di riformare il sistema di accoglienza europeo, gli stati membri dell’Ue hanno deciso di agire. Non attraverso l’attivazione della direttiva sulla protezione temporanea (approvata nel 2001, è stata attivata solo nel marzo 2022 in risposta alla guerra in Ucraina), ma deviando l’attenzione su un continente che era allora al centro delle loro preoccupazioni, l’Africa. Divisi su molte altre problematiche, i governi europei hanno concordato invece sulla necessità di ridurre la cosiddetta immigrazione “irregolare”, soprattutto quella proveniente dall’Africa, e di aumentare il numero di rimpatri delle persone in soggiorno irregolare nell’Ue.

I naufragi del 12 e del 19 aprile 2015 al largo delle coste libiche, in cui sono morte più di 1.200 persone, hanno fornito il pretesto per accelerare queste politiche. Per “salvare vite in mare”, è stato scritto, occorre esternalizzare il controllo delle frontiere, combattere il traffico di migranti e incoraggiare la cooperazione sulle riammissioni mettendo in campo “tutti gli strumenti necessari, anche in materia di cooperazione allo sviluppo”, si legge nella dichiarazione del Consiglio europeo del 23 aprile 2015.

Il Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa
Ribadite dalla Commissione e dal Consiglio durante la primavera e l’estate del 2015, queste priorità hanno fatto da sfondo al vertice di La Valletta dell’11-12 novembre 2015, che ha riunito i leader europei e africani per discutere della “gestione delle migrazioni”. In quell’occasione viene lanciato un nuovo strumento finanziario, il Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa (Eutf Africa), con l’obiettivo di affrontare “le cause profonde della migrazione irregolare e degli sfollamenti in Africa”.

Questo fondo è stato criticato fin dall’inizio, in primo luogo per la sua natura: istituiti nel 2013, i fondi fiduciari europei di emergenza sono meccanismi finanziari multidonatori che consentono una risposta flessibile e rapida alle situazioni di emergenza nel campo della politica estera. Inseriti al di fuori del bilancio dell’Ue, sono svincolati dal controllo del parlamento europeo. Un’esclusione che non sorprende l’eurodeputata spagnola Sira Rego, vicepresidente di Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl): “L’Eutf è un esempio della mancanza di trasparenza che caratterizza l’Ue, proprio come lo Strumento per i rifugiati in Turchia o come Frontex”.

Secondo Thomas Spijkerboer, professore di diritto delle migrazioni alla Vrije Universiteit Amsterdam, il Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa è particolarmente problematico perché la sua realizzazione si basa sulla dichiarazione – ingiustificabile a suo avviso, ma necessaria per aggirare il diritto comunitario degli appalti pubblici – di una situazione di emergenza nei 26 paesi africani coperti dal meccanismo. Una dichiarazione, ha spiegato in una recente intervista alla rivista Parallax, “che fa parte di un modello di applicazione delle regole di base (del diritto della concorrenza, in questo caso) in Europa, ma non in Africa”. Così, secondo le cifre fornite dalla Commissione, questa flessibilità avrebbe permesso di assegnare circa il 70 per cento dei finanziamenti dell’Eutf attraverso procedure di attribuzione diretta e il 30 per cento attraverso procedure di appalto pubblico.

Nell’ambito degli aiuti allo sviluppo, è soprattutto l’obiettivo dichiarato dell’Eutf – ridurre l’immigrazione irregolare dall’Africa – a destare preoccupazione. In effetti, “l’aiuto allo sviluppo è sempre stato e sempre sarà uno strumento per gli stati – lo abbiamo visto recentemente con l’Afghanistan”, osserva Tessa Coggio, che prima di lavorare per l’ong Relief international ha dedicato la sua tesi di laurea all’Eutf (una versione breve è stata pubblicata da Migration Information Source). Ma con questo fondo, la visione precedentemente piuttosto positiva della migrazione come risorsa per lo sviluppo è stata minata dal sopraggiungere di un approccio alla mobilità umana restrittivo e orientato alla sicurezza.

Anche se presenti nel nome completo dell’Eutf, queste cause profonde della migrazione “non interessano più a nessuno in Europa”, dice Mehari Taddele Maru

Come rivela un’inchiesta di Deutsche Welle, la principale categoria di assegnazione dei fondi è la gestione delle migrazioni, con il 24 per cento delle risorse stanziate. I progetti vanno dal sostegno alla guardia costiera libica (nonostante il loro coinvolgimento in gravi violazioni dei diritti delle persone intercettate in mare e detenute in Libia), alla moltiplicazione dei ritorni “volontari” dal Niger delle persone evacuate dalla Libia o espulse dall’Algeria.

A tal proposito, “il carattere volontario di questi rimpatri può essere considerato discutibile”, denuncia l’associazione francese La Cimade, “tanto più che è la condizione imprescindibile per avere accesso al centro dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni di Agadez e ai suoi servizi”. Allo stesso modo, il rafforzamento dei controlli alle frontiere in Marocco e Tunisia ha portato alla strumentalizzazione della questione migratoria da parte dei governi di questi paesi, consapevoli del potere che possono trarne nei confronti dei loro corrispettivi europei.

Una diplomazia aggressiva
I verbali delle riunioni del consiglio di amministrazione dell’Eutf, presieduto dalla Commissione e composto da rappresentanti dei paesi donatori e, come osservatori, da rappresentanti dei paesi africani interessati, sono in questo senso illuminanti. Nel 2018 – cioè a metà percorso dell’Eutf – i rappresentanti dell’Ue si congratulano per la diminuzione dei “flussi migratori” dalla Libia e pensano ad “attuare risposte rapide per evitare la creazione di rotte alternative” in Nordafrica. Dal canto loro, alcuni paesi partner – Etiopia, Guinea e Gambia – “preferirebbero vedere una maggiore attenzione alle cause profonde della migrazione irregolare”.

Anche se presenti nel nome completo dell’Eutf, queste cause profonde “non interessano più a nessuno in Europa”, dice Mehari Taddele Maru, docente presso il Centro per le politiche migratorie dell’Istituto universitario europeo. Al vertice di La Valletta, “molti rappresentanti dei paesi africani hanno insistito affinché si tenesse conto delle cause profonde, ma quanti soldi sono stati destinati a questo tema rispetto al controllo delle frontiere?”.

Il problema non risiede solo nella distribuzione dei finanziamenti, ma anche nella tempistica prevista dall’Eutf. Programmato inizialmente per cinque anni (poi esteso fino al 31 dicembre 2021), questo meccanismo di finanziamento era più adatto a interventi di tipo umanitario che non alla stabilizzazione e al rafforzamento delle istituzioni locali. “Sappiamo che la migrazione non è solo il risultato della mancanza di lavoro”, fa notare Camille Le Coz, ricercatrice del Migration policy institute. “Ci sono molte ragioni che spingono le persone a lasciare le loro case, tra cui la corruzione e la mancanza di servizi pubblici. E penso che a questi problemi non sia stata dedicata abbastanza attenzione”.

Tessa Coggio è d’accordo. Secondo lei, i programmi di formazione e reintegrazione sono “molto importanti a livello individuale”, ma “se si rafforzano le istituzioni, se si rafforza la fornitura di servizi – azioni che sostengono i diritti delle persone e migliorano la loro qualità di vita, ma che non per forza garantiscono più denaro nei loro portafogli – con il tempo si riuscirà a influenzare significativamente la scelta di una persona di cercare o meno un’opportunità in un altro continente”.

Mehari Maru ricorda che in vista del vertice di La Valletta, l’Unione africana (Ua) avrebbe voluto presentare una posizione comune, ma alcuni paesi membri dell’Ua, tra cui Etiopia, Niger, Nigeria e Senegal, “hanno preferito firmare accordi bilaterali con l’Ue”, attirati dai finanziamenti offerti attraverso l’Eutf. “È stato il risultato di una diplomazia migratoria aggressiva”.

Divisi di fronte alle pressioni dell’Ue, ai paesi africani è stato anche chiesto di accettare un ruolo minore nel nuovo programma di finanziamento. Come spiega Raffaella Greco Tonegutti, esperta di migrazione e sviluppo all’Enabel, l’agenzia belga per lo sviluppo, “i programmi precedenti prevedevano un significativo coinvolgimento delle parti interessate nei paesi partner, sia nella fase di progettazione e formulazione sia nella fase contrattuale. Come agenzia di sviluppo, eravamo abituati a programmi cofirmati con i nostri partner locali”.

Innovazioni positive
Nel frattempo, Enabel, che è coinvolta in dodici progetti finanziati dall’Eutf, ha deciso di dedicare “almeno un anno all’inizio degli interventi a garantire il dialogo con gli attori locali, al fine di consultarli sulla stesura dei progetti”. Il risultato è che “abbiamo quasi sistematicamente ritardato la realizzazione, pur di non perdere il contatto con gli attori locali. Questo ripagherà a lungo termine, ne sono sicura. Nel frattempo, la Commissione ha potuto realizzare studi e analisi che hanno evidenziato l’importanza di coinvolgere i partner fin dalla progettazione degli interventi e i rischi legati alle soluzioni lampo in relazione alla sostenibilità dei risultati”.

Tonegutti ci tiene anche a sottolineare le innovazioni positive portate dall’Eutf, in particolare il fatto che abbia incoraggiato la collaborazione tra i partner esecutivi – “accadeva già prima, ma non in questa misura” – e un approccio territoriale e multisettoriale ai progetti, “che ha spinto gli attori dello sviluppo a non pensare in termini di settori (istruzione, salute, infrastrutture…), ma piuttosto a costruire alleanze intorno a temi multidimensionali come la resilienza”.

Un altro aspetto dell’Eutf apprezzato da molti esperti e operatori dello sviluppo è lo sforzo fatto dalla Commissione in termini di trasparenza e monitoraggio dei progetti. ” Non è stato introdotto fin dall’inizio, ed è un peccato”, sottolinea Camille Le Coz, “ma dopo le prime critiche la Commissione ha sviluppato un sistema di controllo e di valutazione e ha pubblicato regolarmente dei rendiconti sull’andamento dei progetti. Questo ha reso più facile monitorare l’attuazione complessiva dell’Eutf”.

Dopo l’Eutf, tocca all’Ndici
Al di là della trasparenza dei dati e della disponibilità di alcuni risultati quantitativi, e in attesa della valutazione finale dell’Eutf da parte della Commissione (prevista nel 2024 o nel 2025), questo esperimento ha già dato i suoi frutti politici. Non importa se le “cause profonde” non sono state risolte e se la diminuzione dei “flussi migratori irregolari” è stata solo temporanea (e causata da un controllo sempre più violento della mobilità umana in Africa).

La “gestione delle migrazioni” rimane centrale nell’Ndci (Strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale), il nuovo strumento finanziario nei settori della politica estera approvato per il periodo 2021-2027: il 10 per cento del bilancio totale di 79,5 miliardi di euro è riservato a progetti di gestione delle migrazioni, con la possibilità di attingere a una riserva di fondi non assegnati di 9,53 miliardi di euro in caso di “circostanze impreviste”, “nuove esigenze” o “sfide nascenti”.

Un documento interno della Commissione, datato novembre 2021 e pubblicato dalla rete Migration Control nel marzo 2022, conferma che l’Ndici è un proseguimento dell’Eutf. La Commissione ne sottolinea la flessibilità, cara agli stati membri, e precisa che diversi progetti avviati nell’ambito del fondo continueranno a essere finanziati, in particolare in Nordafrica. L’Ndici è anche considerato come uno “strumento essenziale” per sostenere l’attuazione del Patto su migrazione e asilo, un insieme di proposte presentate dalla Commissione nel settembre 2020 che, dopo un inizio difficile, è stato rilanciato sotto la presidenza francese del Consiglio dell’Ue, decisa a rendere più operativa la dimensione esterna delle politiche europee di migrazione e asilo.

Da parte sua, il Parlamento europeo si è assicurato un maggiore ruolo di controllo per l’Ndici, spiega l’eurodeputato tedesco Udo Bullmann (coordinatore del gruppo dell’Alleanza progressista dei Socialisti e democratici nella commissione per lo sviluppo), che presiede il gruppo di monitoraggio sull’Africa, uno dei tre gruppi introdotti per monitorare l’attuazione dell’Ndici (gli altri due riguardano Asia e America Latina).

Il caso dell’Etiopia
I governi africani, anche se sotto pressione, hanno ancora un margine di manovra, come dimostra il caso dell’Etiopia. Come spiega Oxfam nel suo rapporto del 2020 sul Fondo fiduciario per l’Africa, l’Ue ha usato questi finanziamenti per spingere il governo etiope a firmare un accordo informale di riammissione alla fine del 2017 (gli unici altri accordi informali di riammissione conclusi dalla Commissione in Africa riguardano paesi beneficiari dell’Eutf, ovvero Costa d’Avorio, Gambia e Guinea). Ma nel gennaio 2022, in una lettera resa pubblica da Statewatch, la Commissione ha riconosciuto che le autorità etiopi non si sono mostrate molto collaborative nelle procedure di riammissione (tanto più che, rispetto ai centomila cittadini da rimpatriare ogni anno dall’Arabia Saudita, le poche centinaia che l’Unione europea vuole espellere a tutti i costi “sono niente in confronto”, nota Mehari Taddele Maru).

Detto questo, la capacità dei governi africani di agire è limitata da ciò che Maru, in un’analisi pubblicata nel 2021, chiama “asimmetria di potere”, un effetto della natura postcoloniale dei rapporti tra l’Ue e molti paesi. Esportando in Africa – anche attraverso gli aiuti allo sviluppo – la sua visione orientata alla sicurezza della migrazione e dei confini, l’Ue ha sabotato “diversi progetti promettenti che l’Unione africana, i paesi africani e l’Europa stavano sviluppando in materia di migrazione”, sostiene Maru. “Prima di La Valletta, c’erano stati passi avanti sull’Istituto africano per le rimesse, sull’iniziativa della Commissione dell’Unione africana contro il traffico di esseri umani, sulla diaspora, sui mezzi di sussistenza alternativi per i giovani o anche sulla governance delle frontiere. Si poteva migliorare la capacità locale, invece di inserire Frontex in Africa. È quello che chiamo sostituzione di capacità: non si costruisce la capacità delle istituzioni nei paesi africani, la si sostituisce”.

Eppure, le aree di azione su cui concentrarsi a beneficio di tutti – in Europa come in Africa – sono ben note (e hanno ricevuto poco sostegno dall’Eutf): migrazione legale, libera circolazione intra-africana, rimesse dei migranti, ruolo delle diaspore, rafforzamento delle istituzioni locali in Africa. Invece di essere accecata “dalla paura di una minaccia socioculturale”, l’Europa dovrebbe, secondo Maru, affrontare la questione della migrazione in modo razionale. E dovrebbe anche superare ciò che Thomas Spijkerboer chiama “la negazione dei legami umani ed economici ancora attuali tra l’Europa e le sue ex colonie”.

Anche la visione dell’aiuto allo sviluppo dovrebbe cambiare. “Abbiamo bisogno di un modello di sviluppo basato sulla solidarietà”, dice Sira Rego. “Stiamo vivendo una crisi ecosociale globale in cui o ci salviamo tutti o non si salva nessuno”. L’errore, secondo Udo Bullmann, sarebbe quello di subordinare le politiche di sviluppo alle priorità della politica estera e ai “nuovi paradigmi della politica di difesa”: “Solo un approccio olistico allo sviluppo, un approccio basato sullo sviluppo umano, può davvero portare sicurezza a lungo termine. Gli europei devono capire che siamo in un nuovo contesto politico globale, e che le politiche di sviluppo – come mezzo trasversale per costruire nuovi partenariati sostenibili – sono il veicolo principale per costruire un futuro giusto per tutti”.

(Traduzione di Silvia Arseni)

Questo articolo è uscito su Voxeurop.

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