17 febbraio 2023 11:33

“Ogni fortezza e retto confine di pietra/fu costruito da un fervido imperatore/per tener fuori i barbari”. Questi versi del poeta britannico Daljit Nagra (usciti nel numero 1256 di Internazionale) potrebbero servire da epigrafe ai tanti articoli che in questi giorni hanno commentato il ritorno dei muri in Europa. È un tema ricorrente. Nel 2015 diversi stati dell’Unione europea, invece di rafforzare i loro sistemi di accoglienza per far fronte all’aumento di richiedenti asilo, pensarono di risolvere la questione innalzando recinzioni, seguendo l’esempio della Spagna nelle sue enclave di Ceuta e Melilla in Marocco (fin dal 1993), della Grecia al confine con la Turchia (nel 2012) e della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia (nel 2014).

Dopo otto anni e millecinquecento chilometri di nuove recinzioni, eccoci di nuovo a parlare di muri e se sia opportuno costruirli usando fondi europei. Il primo a chiederlo, nel 2017, era stato il primo ministro ungherese Viktor Orbán. Nel 2021 l’Ungheria era tornata alla carica in una lettera indirizzata alla Commissione e firmata da altri undici governi europei. Per giustificare la loro richiesta, i dodici agitavano lo spauracchio di un “attacco ibrido caratterizzato da un afflusso di migranti irregolari su larga scala creato artificialmente” da stati terzi.

Il 9 febbraio 2023 la richiesta è ricomparsa sul tavolo del Consiglio europeo, appoggiata da un numero in crescita di stati membri, compresa l’Italia. Nelle conclusioni del Consiglio non è fatto esplicito riferimento ai muri, ma come scriveva il Transnational institute nel suo rapporto del 2019 The business of building walls, “le vere barriere contro la migrazione contemporanea non sono tanto le recinzioni, quanto l’ampio spettro di tecnologie associate, dai sistemi radar ai droni, dalle telecamere di sorveglianza ai sistemi biometrici di rilevamento delle impronte digitali”, tecnologie già sviluppate con soldi europei. La Commissione europea può tentare di rimandare il momento in cui uno stato membro apporrà il logo dell’Ue su un “muro antimigranti” nuovo di zecca, ma si tratterà di un cambiamento minimo. La fortezza Europa poggia su fondi europei già da tempo.

Il terzo modello
I veri protagonisti delle conclusioni del Consiglio europeo in materia di “migrazione” non sono i muri, sono i rimpatri: con quindici occorrenze, si conferma la grande priorità dei 27 (il documento non contiene nemmeno un riferimento ai richiedenti asilo e cita una sola volta i diritti fondamentali).

La Commissione aveva dato il via il 24 gennaio presentando un documento intitolato “Towards an operational strategy for more effective returns” (Verso una strategia operativa per rimpatri più efficaci). Due giorni dopo, in occasione del primo Consiglio dei ministri dell’interno dell’Ue sotto la presidenza svedese, l’italiano Matteo Piantedosi aveva proposto di “sviluppare un terzo modello di rimpatrio che potremmo chiamare ‘rimpatrio forzato accompagnato’”, a metà tra il “rimpatrio forzato” e quello “volontario assistito”.

Mentre aspettiamo delucidazioni su questo fumoso concetto, la macchina europea dei rimpatri continua a girare. In un rapporto che presenteranno il 20 febbraio, l’ong Statewatch e la fondazione Heinrich Böll denunciano, tra i più recenti piani di esternalizzazione delle politiche migratorie, un “ambizioso programma di rimpatri dai Balcani” promosso dall’Unione europea nella più totale segretezza.

Di certo nessuna delle 31.825 persone rimpatriate nel terzo trimestre del 2022 ha scelto di lasciare l’Unione europea

Quando si legge di rimpatri, di solito si è sommersi dai numeri. Per esempio questi: secondo Eurostat, nel terzo trimestre del 2022 sono stati notificati 109.895 decreti di espulsione dall’Unione europea e sono stati effettuati 31.825 rimpatri. Il 39 per cento dei rimpatri al livello europeo è stato volontario e il 61 per cento forzato. Gli stati membri sono obbligati a precisare il tipo di rimpatrio effettuato solo dal 2021, ma evidentemente hanno concezioni diverse di ciò che è volontario e forzato: non si spiega altrimenti come mai, nello stesso periodo, il 100 per cento dei rimpatri dalla Germania e dall’Ungheria risulti forzato mentre il 100 per cento di quelli dalla Spagna risulti volontario (l’Italia si colloca subito dopo la Germania e l’Ungheria, con 7.460 rimpatri forzati contro 20 volontari).

Eurostat fornisce anche dati sul sesso, l’età, la nazionalità e la destinazione delle persone rimpatriate (il termine rimpatrio, per quanto ufficiale, è in realtà scorretto dato che non sempre la persona è espulsa verso il proprio paese di origine). Ma chi conosce la realtà dei centri di rimpatrio sa che dietro questi numeri ci sono vite interrotte, coppie e famiglie separate, persone in detenzione terrorizzate al pensiero di ritrovare l’incubo da cui sono scappate. I numeri non ci dicono da quanto tempo quelle persone vivessero nell’Ue, quale fosse la loro situazione familiare o lavorativa, perché avessero scelto di vivere qui, come fossero arrivate (o com’erano arrivati i loro genitori), cos’avessero costruito o sperassero di costruire in Europa.

Come osserva Marta Gionco della rete Picum, “le politiche di rimpatrio europee non considerano fattori anagrafici o socioeconomici né l’impatto, spesso violento, del rimpatrio stesso sulla vita delle persone. Ugualmente, i dati raccolti dalle autorità si limitano a registrare i semplici numeri dei rimpatri. Infine, spesso non si considera il fatto che molte delle persone che ricevono un decreto di espulsione in realtà non possono essere espulse, sia per motivi pratici sia di diritto (per esempio per ragioni familiari, motivi di salute, perché sono minorenni o rischiano torture o altre violenze in caso di rimpatrio)”.

Arbitrio e crudeltà
Di certo nessuna delle 31.825 persone rimpatriate nel terzo trimestre del 2022 ha scelto di lasciare l’Unione europea: i rimpatri sono tutti forzati, perché a nessuno è data la possibilità di rimanere. Chi dichiara di partire volontariamente lo fa per rassegnazione o per paura di un’espulsione violenta. Sappiamo anche che la maggior parte delle persone in soggiorno irregolare sul territorio dell’Unione europea è arrivata qui in modo regolare grazie a un visto. Si tratta di visa overstayer, persone con un visto scaduto che si ritrovano davanti a un muro burocratico-legale altrettanto vergognoso delle recinzioni fisiche, con scarse possibilità di regolarizzare la propria presenza anche dopo anni o decenni.

Affermare che “non hanno il diritto di restare”, nonostante l’apparente imparzialità della formula, è una posizione arbitraria e crudele. Voler incarcerare e poi cacciare parte della popolazione europea per un illecito amministrativo – perché non riesce a ottenere un pezzo di carta – è un tentativo irrazionale e brutale di negare che l’Unione europea è anche il frutto di percorsi migratori spontanei, e continuerà a esserlo.

In questi giorni in molti hanno evocato il crollo del muro di Berlino come simbolo felice di un’Europa senza muri. Ma i governi e i cittadini dell’allora Comunità europea nutrivano la nostra stessa ostilità verso i “barbari”, che all’epoca arrivavano dai paesi dell’Europa centrorientale (alcuni dei quali oggi inneggiano ai muri). Basta leggere il resoconto – tanto spiritoso quanto sconfortante – della conferenza di Berlino del 30-31 ottobre 1991 firmato dal corrispondente dell’Unità Paolo Soldini: lo scopo era già quello di contrastare l’immigrazione “illegale” e gli “abusi” del sistema di asilo, e le misure proposte ruotavano già intorno a rimpatri e accordi di riammissione, lotta contro i trafficanti e ricatti ai paesi di origine e transito.

Chi avrebbe potuto e dovuto provare a indirizzare i governi europei verso idee meno pericolosamente ottuse era la Commissione, che nel 1994, in una comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio sulle politiche d’immigrazione e di asilo, dedicava solo sette proposte su trentadue all’immigrazione irregolare. Un’intera sezione, con quindici proposte, riguardava invece il “rafforzamento delle iniziative per l’integrazione degli immigrati legali”, comprese le misure per “lottare contro la discriminazione razziale e affrontare il problema del razzismo e della xenofobia”. Ma la Commissione si è adeguata alle priorità dei governi, e oggi una comunicazione come questa sarebbe impensabile.

Accentramento dei poteri
Se l’ossessione dei rimpatri rafforza la xenofobia, presentando come indesiderate centinaia di migliaia di persone già presenti sul territorio dell’Ue, un altro effetto di questa priorità politica è l’ulteriore accentramento di poteri e mezzi nelle mani di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. In un articolo del 2022, la ricercatrice Mariana Gkliati ha ricostruito l’espansione delle competenze e dell’autonomia dell’agenzia nell’ambito dei rimpatri, un’attività che ormai copre circa il 10 per cento del suo bilancio. L’agenzia può avviare di sua iniziativa delle operazioni di rimpatrio ricorrendo al suo stesso personale armato. Inoltre, basandosi sui dati a sua disposizione, può proporre di rimpatriare una persona, proposta che deve essere validata dalle autorità nazionali. “Il rischio”, denuncia la rete EuroMed Rights, è che queste ultime “si limitino ad approvare la decisione di rimpatrio preparata in modo non ufficiale da Frontex”.

L’espansione geografica di Frontex – da tempo operativa nei Balcani, ora sta mettendo piede in Africa – è collegata a un altro effetto deleterio dei rimpatri: la distorsione nei rapporti con i paesi terzi. Sono più di trent’anni che i governi europei impongono accordi di riammissione ai paesi di origine e di transito, con le buone o con le cattive. Nel dicembre 2022, il Consiglio dell’Ue ha per esempio aumentato il costo dei visti per i cittadini del Gambia per punire la scarsa cooperazione del paese “in materia di rimpatrio e riammissione”. Il Gambia sarebbe colpevole di non ottemperare ai suoi doveri, dato che ogni stato ha l’obbligo di riammettere i propri cittadini.

Ma è davvero così? Secondo il giurista Kay Hailbronner, “il diritto di espellere, che risulta dalla sovranità territoriale, è correlato all’obbligo di riammissione da parte del paese di origine”. Governi e istituzioni europee ripetono che nessuno stato può sottrarsi a quest’obbligo, fondato sul diritto internazionale consuetudinario. Tuttavia lo stesso Hailbronner ricorda che alla conferenza dell’Aja del 1930 sulla codificazione del diritto internazionale, “i rappresentanti di alcuni stati espressero delle riserve su un obbligo assoluto di riammissione”. La Svezia, per esempio, sostenne che “lo stato di origine poteva essere esonerato dall’obbligo di riammissione nel caso di un soggiorno di lunga durata all’estero”. Più di recente, osserva la giurista Mariagiulia Giuffré, il servizio legale del Consiglio dei ministri dell’Ue, in un parere del 2000, “ha contestato l’esistenza di un obbligo legale internazionale di riammettere una persona oggetto di un rimpatrio involontario”.

Considerazioni legali a parte, una politica di rimpatri fine a sé stessa appare come una degenerazione del diritto di uno stato di controllare il proprio territorio. Cacciare a forza decine di migliaia di persone ogni anno invece di considerarle parte di una comunità non è nell’interesse di nessuno. È solo un abuso di potere da parte di governi incapaci di accettare la realtà in cui viviamo.

Guarda anche:

  • Un mondo di muri Una serie di video reportage realizzata dal giornale brasiliano Folha de S.Paulo sulle barriere costruite per chiudere i confini, fermare i migranti o nascondere la povertà.

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