03 luglio 2020 17:54

Quando ho chiesto ai componenti di un gruppo di sostegno online sul covid-19 se qualcuno avesse sintomi prolungati o insoliti, nel giro di 24 ore sono stata contattata da 140 persone. La lista di disturbi era sconvolgente. “Mi sento come se vivessi un incubo a occhi aperti”, raccontava Zoe Wall. Zoe era una donna sana e in perfetta forma, ma due mesi fa ha manifestato i sintomi del covid-19. Oggi soffre ancora di dolori al petto e si sente “spossata oltre ogni limite”.

I sintomi di Harry sono cominciati due mesi fa con un terribile mal di testa e un prurito su tutto il corpo, seguiti dal fiato corto. Oggi ha ancora difficoltà respiratorie, dolore al petto, gonfiore e un braccio intorpidito. Jenn è risultata positiva al covid il 31 marzo e da allora ha perso il senso dell’olfatto e del gusto. Abbi ha difficoltà respiratorie minime, ma soffre ancora di seri disturbi gastrici e ha perso 19 chili in due mesi. Altri riferiscono spossatezza, mal di testa, formicolio alle dita e senso di annebbiamento.

Sono passati mesi dall’esplosione della pandemia. Nel frattempo abbiamo imparato molto sul covid-19, ed è ormai chiaro che anche nei casi più lievi ci possono essere effetti prolungati. “Evidentemente qualcosa c’è: non si tratta di ipocondria o malattie immaginarie. E per quanto ho potuto verificare, questi sintomi sembrano slegati dalla gravità della malattia”, dice Danny Altmann, immunologo dell’Imperial college di Londra. Tutto questo significa che bisogna ripensare il modo in cui diagnostichiamo e curiamo il covid-19. Tra l’altro la lunga lista di sintomi lascia pensare che esistano diversi sottotipi della malattia, e saperlo potrebbe aiutarci a prevedere quali casi possono evolvere in forme gravi.

Disturbi della pelle
All’inizio di marzo, quando è stata dichiarata la pandemia, l’opinione diffusa era che si trattasse di un’infezione respiratoria con sintomi simili all’influenza. Si pensava che una minoranza degli infetti sviluppasse una polmonite e avesse bisogno di un supporto respiratorio, mentre la maggioranza non andava oltre una combinazione di tosse, febbre e fiato corto che scompariva nel giro di un paio di settimane. I primi indizi del fatto che il virus Sars-cov-2 provochi una patologia molto più estesa sono emersi a febbraio, quando il focolaio nella metropoli cinese di Wuhan era all’apice e i medici della regione italiana della Lombardia registravano un aumento sensibile dei casi. Mentre i colleghi del pronto soccorso si ammalavano uno dopo l’altro, i medici come Sebastiano Recalcati, dermatologo dell’ospedale Manzoni di Lecco, hanno cominciato a occuparsi dei pazienti ricoverati con il covid-19. Recalcati ha riscontrato disturbi dermatologici in circa il 10 per cento dei pazienti che ha esaminato.

Alcuni sintomi, come gli arrossamenti sul petto, potevano avere cause diverse dal virus, ma altri erano più specifici. Diversi pazienti presentavano piccole bolle sul petto o attorno alla bocca, simili a quelle della varicella, fatta eccezione per l’assenza di prurito. Da allora Recalcati e altri colleghi hanno documentato una serie di disturbi dermatologici, tra cui un’irritazione rosso-violacea provocata da piccoli coaguli nei vasi sanguigni e lesioni sulle dita dei piedi simili ai geloni. Diversamente dagli arrossamenti e dalle bolle riscontrati in precedenza dal dermatologo, che sembravano presentarsi contemporaneamente all’infezione, questi sintomi accessori emergevano diverse settimane dopo il contagio. “Riteniamo che possano nascere da una risposta immunitaria ritardata, mentre gli altri tipi di irritazione potrebbero essere una risposta virologica diretta”, spiega Recalcati.

Al momento la perdita del gusto e dell’olfatto è considerata il sintomo chiave da molte istituzioni sanitarie

Quello è stato soltanto l’inizio. A metà marzo il virus si era ormai diffuso in tutta Europa, e molti governi avevano annunciato il blocco di gran parte delle attività. Mentre si preparava a chiudere il suo laboratorio al King’s college di Londra, l’epidemiologo Tim Spector si chiedeva se ci fosse un modo per portare avanti da casa le sue ricerche sulle differenze nella salute dei gemelli. Insieme all’azienda tecnologica Zoe, Spector ha creato un’applicazione che permetteva ai gemelli presi in esame nel suo studio – e anche al resto della popolazione – di riferire e tracciare tutti i sintomi potenziali da covid-19, in modo da monitorarli nel tempo.

L’applicazione Covid symptom tracker è stata lanciata il 23 marzo, in concomitanza con l’imposizione del blocco nel Regno Unito. Nell’arco di 36 ore è stata scaricata da un milione di utenti. Il 29 marzo erano già 1,5 milioni, di cui 1.702 avevano riferito di essersi sottoposti al test. “È in quel momento che abbiamo cominciato a notare la mancanza di olfatto come sintomo prevalente, riscontrato nel 60 per cento dei positivi”, racconta Spector. In termini di analisi predittiva si tratta di una percentuale più elevata rispetto alla febbre o alla tosse, che si presentano anche in persone risultate negative.

Alcuni studi condotti in Cina e Italia hanno riscontrato una perdita del gusto e dell’olfatto piuttosto frequente tra i pazienti affetti da covid-19. Al momento la perdita del gusto e dell’olfatto è considerata un sintomo chiave da molte istituzioni sanitarie, incluso l’Nhs.

Altri fattori predittivi attualmente analizzati sono i dolori muscolari acuti apparentemente diversi da quelli tipicamente riconducibili all’influenza – “possono essere estremamente forti”, spiega Spector – e la perdita di appetito, collegabile alla mancanza di olfatto e gusto. Lo stesso Spector ha perso tre chili in una settimana dopo aver contratto una forma relativamente lieve di covid-19.

La lista di sintomi imprevisti continua. Altri problemi gastrointestinali associati al covid, come la diarrea, la nausea e il vomito, sono stati riscontrati dai ricercatori in California e a Hong Kong. Molti medici rilevano anche sintomi neurologici, tra cui mal di testa, vertigini, convulsioni e allucinazioni. James O’Donnell, direttore dell’Irish centre for vascular biology di Dublino, riferisce che alcuni pazienti, dimessi ormai da settimane, sono stati di nuovo ricoverati in ospedale con una trombosi venosa profonda o un’embolia polmonare.

Alcune persone relativamente giovani e in salute affette da forme lievi di covid-19 vengono colpite da infarto e ictus con una frequenza insolita. “Gli ictus sembrano coinvolgere diverse parti del cervello. Alcuni si verificano e si sviluppano nonostante i pazienti assumano regolarmente gli anticoagulanti standard”, spiega O’Donnell. “Siamo partiti da una malattia respiratoria, ma nel giro di un paio di mesi abbiamo capito che si tratta di un fenotipo multisistema di cui ancora non conosciamo bene il funzionamento”.

Spossatezza estrema
Un altro sintomo ricorrente è l’affaticamento estremo. A metà marzo Paul Garner è stato costretto a smettere di lavorare dopo aver contratto il covid-19, e da allora ha la sensazione di essere stato colpito in testa con una mazza da cricket. “Parlare di spossatezza postvirale non aiuta, perché nel mio caso l’affaticamento si è presentato fin dal primo giorno ed è stato accompagnato da disturbi gravissimi”, racconta. “Inoltre in questo modo si sottintende che sappiamo cosa sta succedendo e che il virus è sparito, ma la verità è che non sappiamo niente”. A tre mesi dalla prima manifestazione dei sintomi, Garner può lavorare al massimo per venti minuti prima di avere bisogno di stendersi. Presto tornerà al lavoro per un’ora al giorno. Garner paragona i sintomi a quelli della sindrome da affaticamento cronico (Cfs), con una differenza cruciale: la Cfs non sembra avere una causa, mentre “qui la causa c’è di sicuro”, spiega. Garner parla per esperienza personale. Professore di malattie infettive presso la Scuola di medicina tropicale di Liverpool, ha contratto molte delle malattie che studia. L’unica che ritiene vagamente comparabile al covid-19 è la febbre dengue, una malattia trasmessa dalle zanzare e causa di forte affaticamento anche molto tempo dopo l’eliminazione del virus. “La cosa strana del covid-19 è che a un certo punto i sintomi si allentano. Ti senti un po’ accaldato e spossato, ma cominci a stare meglio. Poi, all’improvviso, il virus ti travolge di nuovo da un’altra direzione”.

La natura persistente di alcune forme di covid-19 ha creato seri problemi alle persone che mi hanno contattata attraverso il gruppo di sostegno online. Molti sono convinti che i loro sintomi non vengano presi sul serio perché non richiedono cure ospedaliere, e sentono di essere abbandonati a se stessi. “Continuano a dire che siamo persone ansiose e che dobbiamo concedere al nostro corpo il tempo di guarire”, racconta Wall, irritata dalla mancanza di assistenza medica. “Mi sento abbandonata”.

Dopo la guarigione dalla Sars il 10-20 per cento dei pazienti soffriva di depressione, ansia, insonnia e spossatezza

Non tutti sono sorpresi dal fatto che il Sars-cov-2 provochi sintomi così vari e persistenti. Il virologo dell’università di Liverpool Julian Hiscox lavora con i coronavirus dall’inizio degli anni novanta, compreso quello che causa la Mers. “Tutto ciò che stiamo registrando è già stato notato negli altri coronavirus”, spiega. “Grazie agli studi sugli animali sappiamo che un coronavirus può provocare manifestazioni cliniche diverse. Dall’esperienza con la Sars e la Mers, invece, sappiamo che alcune persone si riprendono, mentre altre continuano a star male”.

Circa il 28 per cento delle persone che hanno contratto la Sars continua a presentare un’insufficienza polmonare 18 mesi dopo la scomparsa dei sintomi della malattia, con un peggioramento della qualità della vita e della capacità di svolgere esercizio fisico. Una meta-analisi recente suggerisce che nei mesi successivi alla guarigione dalla Sars il 10-20 per cento dei pazienti soffriva di depressione, ansia, insonnia e spossatezza. “Se il covid-19 avrà effetti simili alla Sars e alla Mars avremo molti casi di disturbi mentali e affaticamento a lungo termine”, conferma Ed Bullmore, neurobiologo dell’università di Cambridge e autore del libro The Inflamed Mind.

In questo caso non si tratta del trauma psicologico derivato da una malattia grave. Secondo Bullmore i disturbi sono il prodotto della nostra risposta immunitaria all’infezione. Quando le cellule immunitarie incontrano un intruso, rilasciano molecole-segnale chiamate citochine per rafforzare la risposta immunitaria. Alcune di queste molecole finiscono nel cervello e innescano un’ulteriore secrezione di citochine e una conseguente infiammazione.

“Spesso le persone infette dal nuovo coronavirus presentano una reazione infiammatoria estrema. Uno stato infiammatorio di questo tipo ha un impatto negativo sul cervello”, spiega Bullmore. Nello specifico il fenomeno può danneggiare le cellule nervose in aree cerebrali dedicate alla regolazione emotiva.

L’infiammazione può persistere a lungo anche dopo che il Sars-cov-2 è stato eliminato dall’organismo. “La risposta corretta al virus è una massiccia attivazione delle cellule immunitarie”, sottolinea Altmann. “Non mi sorprenderebbe se questo meccanismo modificasse la risposta immunitaria in modo leggermente patologico e cronico”.

Mancanza di ossigeno
La spossatezza può essere collegata anche a problematiche vascolari come i coaguli, causati dal sistema immunitario o della penetrazione del virus nelle cellule che ricoprono i vasi sanguigni. I microcoaguli nei polmoni possono ridurre l’afflusso di ossigeno limitando la circolazione del sangue ossigenato. “Pensiamo che possa esistere un circolo vizioso in cui alla polmonite fanno seguito i microcoaguli nei polmoni e di conseguenza una scarsa ossigenazione. Così il ciclo ricomincia”, spiega O’Donnell. Non è chiaro se i microcoaguli si verifichino anche in persone affette da forme lievi di covid-19, ma se il corpo non riceve abbastanza ossigeno può andare incontro a molti dei disturbi riferiti dai pazienti, come fiato corto, mal di testa e spossatezza.

Un’altra fonte di infiammazione prolungata potrebbe essere l’intestino. Le cellule che ricoprono il tratto gastrointestinale, infatti, presentano sulla loro superficie un recettore chiamato Ace2, lo stesso che viene usato dal Sars-cov-2 per penetrare nelle cellule polmonari. Questo lascia pensare che le cellule gastrointestinali possano essere infettate e infiammate dal virus. I ricercatori di Hong Kong hanno riscontrato un profilo batterico alterato nell’intestino delle persone affette dal covid-19, caratterizzato da un’elevata quantità di batteri nocivi e dalla riduzione di quelli benefici. Questi cambiamenti persistono anche dopo che il virus è stato debellato. “La fase di alterazione prolungata mi preoccupa”, ammette Siew Ng, a capo dell’équipe di ricerca dell’università cinese di Hong Kong. “Se i batteri non tornano ai livelli naturali si possono verificare affaticamento prolungato, malessere e perdita di appetito. Inoltre può aumentare il rischio di contrarre infezioni”.

Molte persone che manifestano sintomi persistenti si chiedono se siano ancora contagiose. Lo scorso 1 aprile Kim Clarke, residente a Surrey, nel Regno Unito, ha perso il senso dell’olfatto, e da allora è risultata ripetutamente positiva al virus. Nonostante soffra ancora di mal di testa, spossatezza e fiato corto, continua a occuparsi dei tre figli. “Dicono che non sono contagiosa, perché ho il virus da tanto tempo. Ma penso che in verità nessuno ne sappia niente. Almeno la presenza del virus spiega perché mi sento ancora così male. Non posso uscire di casa, perché non riesco a camminare né a respirare”.

Il fatto che in alcune persone l’Rna virale venga rilevato settimane dopo la diagnosi potrebbe implicare la presenza di una carica virale attiva, spiega Hiscox. “Ma al momento non sappiamo se sia sufficiente a infettare un’altra persona”.

La durata dei sintomi
Un altro dubbio riguarda la percentuale di persone infette che continuano a manifestare sintomi, e il tempo necessario prima che i sintomi scompaiano. In questo caso Spector ha raccolto dati importanti. Dopo aver seguito duemila persone risultate positive al test, ha scoperto che la durata mediana dei sintomi è di dieci giorni, ma in alcuni casi i disturbi si protraggono molto più a lungo. Una persona su dieci ha manifestato disturbi per più di tre settimane, e una su venti per più di un mese.

“Quasi nessuno presenta gli stessi sintomi per tutto il decorso. In base all’analisi dei raggruppamenti di sintomi e della degenza riteniamo che esistano sei diversi sottotipi della malattia”, spiega Spector. Il raggruppamento di questi sintomi potrebbe essere utile per prevedere la probabilità di dover ricorrere a un ricovero ospedaliero. “Sembra che le forme della malattia caratterizzate da un inizio acuto e simile all’influenza si esauriscano prima, con una ripresa completa del paziente, mentre quelle più complesse si trascinino per più tempo. In ogni caso abbiamo bisogno di una quantità maggiore di dati per arrivare a conclusioni affidabili”, spiega.

In questo momento sono indispensabili altri studi sul post-covid-19. “Aspettiamo di poter riaprire i nostri laboratori per comprendere meglio alcuni di questi sintomi a lungo termine e le conseguenze dell’infezione”, sottolinea Altmann. “Ho avuto molti contatti con persone che sono state devastate dalla malattia. Non si aspettavano che si trasformasse in un disturbo cronico”.

Finora la risposta al covid-19 si è concentrata sul tentativo di evitare il decesso delle persone infette, ma gli ospedali stanno cominciando ad allestire strutture per i controlli sui sopravvissuti, compresi quelli che sono ancora affetti da disturbi. “Spero che si riesca a comprendere alcuni dei meccanismi biologici della malattia, in modo da trovare soluzioni terapeutiche adatte”, spiega Altmann.

Zoe Wall, dal canto suo, non vede l’ora che l’incubo finisca. “La mia vita è cambiata drammaticamente. Non so come adattarmi a tutto questo. Non so nemmeno se voglio adattarmi. Vorrei soltanto riavere indietro la mia vita”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su New Scientist.

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