09 aprile 2021 13:58

Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2008 sul numero 768 di Internazionale.

L’8 aprile è la Giornata internazionale di rom, sinti e camminanti, istituita dalle Nazioni Unite per celebrare la cultura rom e tenere alta l’attenzione sui problemi e le discriminazioni che la popolazione subisce.

Mio padre non voleva che scrivessi questo articolo. “Devi stare attenta. Altrimenti ti sfonderanno la finestra con un mattone”. Nel quartiere operaio di Peterborough, nel Cambridgeshire, dove è cresciuto tra gli anni venti e trenta, non era consigliabile dire in giro che avevi sangue rom nelle vene, per quanto alla lontana.

A quel tempo mio padre e la sua famiglia non potevano immaginare gli orrori che sarebbero stati commessi di lì a poco contro i rom e i sinti in Europa durante il nazismo. Ma sapevano molto bene cos’era il pregiudizio, anche all’interno della loro stessa famiglia. “Quando facevo i capricci mia madre mi picchiava”, mi raccontò una volta una zia. “Mi diceva sempre: ‘Caccerò la zingara che c’è in te a forza di botte, figlia mia’”.

Quando mio padre mi parlò per la prima volta delle nostre origini rom, mi chiese di non dirlo ai vicini né ai compagni di scuola, alimentando così la mia morbosa curiosità per quella che, in fondo, era solo una piccola parte della nostra storia familiare. Eppure mio padre non riesce ancora a credere che se la Germania avesse invaso la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, lui e la sua famiglia sarebbero finiti nelle camere a gas insieme agli ebrei inglesi.

E sarebbe successo nonostante la nostra famiglia vivesse in Gran Bretagna dalla fine dell’ottocento. Come molti rom inglesi, i miei antenati capirono che i lavori tradizionali – vendere cavalli, fare i braccianti e così via – stavano tramontando a causa della crescente meccanizzazione dell’agricoltura. All’epoca qualsiasi osservatore della società avrebbe detto che la cultura romanì inglese si sarebbe rapidamente integrata con quella della maggioranza della popolazione. “Ci stiamo estinguendo”, mi disse nel 1993 un signore rom alla fiera equina di Barnet. “Finirà tutto”. Invece sembra che stia succedendo il contrario. In Europa, le persone di etnia rom e sinti oggi sono quasi dieci milioni e sono la minoranza etnica con il maggior tasso di crescita demografica del continente.

La maggioranza di questa enorme e variegata popolazione vive in condizioni economiche spaventose

In Gran Bretagna la causa dei rom e dei sinti è difesa da un gruppo sempre più visibile e rumoroso di intellettuali, tra cui il poeta David Morley, il giornalista Jake Bowers e il narratore e drammaturgo Richard Rai O’Neill. Ci sono anche artisti come Delaine e Damien Le Bas, che hanno esposto le loro opere nel primo padiglione dedicato all’arte rom alla Biennale di Venezia del 2007.

In Europa oggi ci sono quotidiani, radio e televisioni rom, e una deputata rom, Lívia Járóka, del partito ungherese di centrodestra Fidesz.

Tuttavia, malgrado la politicizzazione e la crescente consapevolezza culturale di molti gruppi rom, la maggioranza di questa enorme e variegata popolazione vive in condizioni economiche spaventose. Si calcola che in Europa l’84 per cento di loro viva sotto la soglia di povertà. In Gran Bretagna la mancanza di spazi destinati ai campi nomadi ha portato a scontri con i responsabili della pianificazione edilizia locale. E così la questione è finita sulle prime pagine dei giornali.

Comunità storica
La crisi dei campi nomadi in Gran Bretagna risale al 1994, quando il governo di John Major abolì il Caravan sites act, che obbligava le autorità locali a mettere a disposizione siti adeguati per i camminanti (la popolazione nomade).

All’epoca i rom e i nomadi erano stati incoraggiati a comprare la terra e a diventare stanziali. Molti lo fecero, per poi vedersi negata l’autorizzazione a parcheggiare le loro roulotte su un terreno di cui erano legittimi proprietari. Tra le vittime di questo accanimento burocratico c’è Bernadette Reilly di Brentwood, nell’Essex. Bernadette ricorda quando, insieme alla famiglia, fu costretta ad accamparsi al lato della strada. “Non facevamo quella che le persone definirebbero una vita normale, anche se per noi lo era”, racconta con aria stanca. “Non avevamo acqua, servizi sanitari, elettricità o assistenza medica a parte il pronto soccorso”. Nel 2007, Bernadette e la sua famiglia hanno finalmente ricevuto il permesso di vivere per cinque anni nelle loro roulotte sulla terra di loro proprietà, tra i villaggi di Mountnessing e Ingatestone. “Almeno adesso abbiamo l’acqua e lo scarico per il bagno, anche se mancano ancora l’elettricità e la linea telefonica”, dice.

Il consiglio comunale di Brentwood – sostenuto dal deputato conservatore Eric Pickles, che abita vicino al campo – ha portato il caso in tribunale e ha ottenuto la revoca del provvedimento. I camminanti però hanno fatto ricorso e il giudice gli ha dato ragione, intimando al comune di smettere di sprecare il denaro pubblico. Pickles non ha voluto rispondere alle mie domande, ma mi ha indirizzata al suo sito web, dove spiega che è contrario al campo nomadi perché si trova nell’area verde metropolitana.

Il professor Thomas Acton dell’università di Greenwhich è il principale docente di studi rom in Gran Bretagna. Tra le sue attività c’è anche quella di aiutare e dare consigli ai camminanti come Bernadette Reilly. “Eric Pickles è il responsabile per i campi nomadi nel governo ombra conservatore, eppure ha negato l’esistenza di una storica comunità di camminanti a Brentwood. E ha invitato il consiglio locale a ignorare i suoi obblighi, finché un governo conservatore non li abolirà del tutto”.

Bernadette e la sua famiglia vorrebbero godersi la temporanea revoca dello sgombero, ma devono fare i conti con la perenne minaccia di essere cacciati. Durante la discussione sul piano regolatore, hanno avuto accesso ad alcune lettere al vetriolo scritte dai residenti della zona per protestare contro la loro richiesta. “I ragazzi adesso hanno amici del posto e vanno in discoteca, ma io non li lascerei andare in giro da soli per la città. È troppo pericoloso”, spiega Reilly. Che effetto fa avere un deputato vicino di casa che protesta contro di voi? La risposta della Reilly è secca: “Viviamo nella paura”. Chi si oppone ai campi nomadi è sempre pronto a criticare i camminanti per il loro atteggiamento diffidente o di ostilità verso gli estranei, senza capire cosa significa sentirsi costantemente minacciati. Dopo aver visto le lettere minatorie spedite all’ufficio del comune, Reilly ha scritto una poesia intitolata Io sono una nomade: “Cresco i miei figli nel modo migliore/ che conosco./ Sono tutto ciò che ho/ adesso. /Sono educati, gentili, sono/ la mia delizia./ Ma non sono quello che voi gridate quando/ passate in macchina di notte”.

Il mondo gagè (non zingaro) sembra non avere problemi con i rom finché se ne stanno chiusi in una sorta di recinto folcloristico

La manifestazione in rosso, bianco e blu organizzata ad agosto dal British national party (Bnp) a Denby, nel Derbyshire, ha rafforzato il clima di paura tra i nomadi delle aree rurali. Tra gli ospiti dell’evento dell’estrema destra c’era anche Petra Edelmannová, presidente del Partito nazionale ceco, un piccolo movimento della Repubblica Ceca noto soprattutto per la sua aperta ostilità verso i rom. Edelmannová ha scritto un documento intitolato La soluzione finale al problema degli zingari in terra ceca, in cui invoca il rimpatrio della popolazione rom ceca in India. Alla fine Edelmannová non si è presentata alla manifestazione, ma l’invito è sembrato comunque una scelta un po’ strana per un evento che il Bnp ha spacciato per un fine settimana di divertimento per le famiglie, con tanto di castelli di gomma.

Quando ho sollevato il problema di fronte al numero due del Bnp, Simon Darby, lui ha ammesso che l’espressione “soluzione finale” non era “proprio una scelta felice”. Poi, però, ha aggiunto: “Laggiù esiste un problema zingari. Ed esiste un problema simile anche qui da noi”. E quale sarebbe secondo lui la natura del nostro problema con gli zingari? “Alcune delle comunità nomadi sono qui da molto tempo. Stanno sempre tra loro e risolvono i loro problemi al loro interno. Hanno i miei stessi valori. Non ho problemi con loro”. Il “problema”, secondo Darby, sono i rom stranieri emigrati nel Regno Unito dopo l’allargamento dell’Unione europea, insieme a un gruppo non meglio definito di “pseudo-zingari nostrani”.

Il genocidio facilitato
Questa distinzione artificiale usata per giustificare la discriminazione nei confronti di gruppi diversi di rom e nomadi è frequente. Me ne sono accorta quando sono stata in Repubblica Ceca, ospite dell’università di Masaryk a Brno. Le persone mi dicevano che gli zingari che davano problemi non erano “i nostri zingari” ma quelli slovacchi, molti dei quali si erano trasferiti in terra ceca per soddisfare la carenza di manodopera nelle fabbriche dopo la seconda guerra mondiale. Il mondo gagè (non zingaro) sembra non avere problemi con i rom finché se ne stanno chiusi in una sorta di recinto folcloristico e non diventano troppo numerosi: cioè, fin quando non diventano una vera e propria comunità, con esigenze abitative, aspirazioni e ambizioni educative reali per i loro figli.

L’invito del Bnp a Petra Edelmannová era significativo: infatti, il modo in cui sono stati trattati i rom in territorio ceco può servire da esempio nell’Europa di oggi. In più di un paese europeo le retate contro i rom e i sinti avvenute durante il nazismo furono facilitate dalle leggi preesistenti. Nell’ex Cecoslovacchia, le misure restrittive contro gli zingari risalivano al 1927. La legge 117 imponeva a tutti gli zingari di fornire le impronte digitali e di rendere noti i loro spostamenti nel paese. I dati raccolti grazie al provvedimento semplificarono l’internamento dei rom boemi e moravi quando l’esercito occupante tedesco decise che era arrivato il momento di procedere. Nell’agosto del 1942, con la scusa della cosiddetta giornata del censimento, i rom e i sinti furono raggruppati e imprigionati in due campi, quello di Lety in Boemia e quello di Hodinin in Moravia. Dopo un anno gran parte dei residenti dei due campi fu mandata ad Auschwitz, dove furono uccisi. Su 6.500 rom presenti in territorio ceco all’inizio della guerra ne sono sopravvissuti meno di 500. Il processo cominciato con le impronte digitali nel 1927 finì sedici anni dopo nelle camere a gas.

Paragonare l’Olocausto nazista all’attuale situazione dei rom europei può sembrare troppo allarmistico. Ma anche nel 1927 chiunque avesse annunciato il destino del territorio ceco negli anni quaranta avrebbe ricevuto lo stesso commento. La Cecoslovacchia era una democrazia fiorente. Si era liberata dalle catene dell’impero austroungarico ed era diventata uno dei dieci paesi più sviluppati del mondo.

Il vero numero dei rom e dei sinti uccisi dai nazisti non si saprà mai: le stime ufficiali oscillano tra 250mila e mezzo milione di persone, anche se molti esperti sostengono che la cifra è più vicina al milione. La cosa certa è che i rom e i sinti, rispetto agli ebrei, sono stati perseguitati in misura più o meno uguale (circa l’85 per cento della popolazione) e per gli stessi motivi razziali. La differenza tra i due genocidi è che, mentre l’Olocausto ebraico è stato apertamente razzista, i rom e i sinti all’inizio sono stati perseguitati perché “asociali”: per molti anni i governi tedeschi hanno rifiutato di riconoscere l’elemento razziale delle persecuzioni naziste.

L’idea che l’esclusione e la discriminazione ai danni degli zingari abbiano più a che fare con lo stile di vita che con la razza è riemersa ultimamente in Italia. A maggio una donna di Ponticelli, vicino a Napoli, ha raccontato che una zingara aveva tentato di rapire il suo bambino. Che la storia fosse vera o meno non faceva differenza per gli energumeni scesi in strada armati di spranghe di ferro e torce, pronti a fare giustizia nei campi nomadi e nelle periferie degradate.

La risposta del governo Berlusconi e dei suoi alleati è stata incredibilmente cinica. A giugno è arrivato l’annuncio che tutti gli zingari, bambini compresi, sarebbero stati sottoposti a registrazione delle impronte digitali e, cosa significativa, identificati in base all’etnia, mossa senza precedenti nell’Europa moderna postbellica. Terry Davis, segretario generale del Consiglio d’Europa, ha dichiarato che la misura “evoca analogie storiche talmente ovvie che non c’è neanche bisogno di esplicitarle”.

Perfino Berlusconi si è dimostrato sensibile allo scandalo internazionale, tanto che la proposta è stata modificata: tutti i cittadini italiani saranno sottoposti a registrazione delle impronte digitali entro il 2010.

Dichiarazioni raggelanti
Le autorità italiane hanno dichiarato che l’etnia non figurerà nel censimento nazionale. L’idea, comunque, è quella di rassicurare l’opinione pubblica presentando il provvedimento come una misura generale contro l’immigrazione, più che diretta specificamente ai 150mila rom e sinti del paese.

Tra le tante dichiarazioni raggelanti rilasciate dai leader politici italiani da quando è cominciata una serie di aggressioni contro i rom, a maggio, forse la più spaventosa è quella di Umberto Bossi della Lega nord, ministro del governo Berlusconi. “La gente fa quello che la classe politica non è capace di fare”. Evidentemente i politici incoraggiano la “pulizia etnica” e magari sperano anche di riuscire a metterlo per iscritto.

I rom italiani, che spesso vivono in condizioni economiche molto difficili, si sentono giustamente sotto assedio. “Siete venuti a cacciarci o ad aiutarci?”, ha chiesto Rogi, residente di un piccolo campo appena fuori Roma.

Si rivolgeva a un gruppo di dieci volontari della Croce rossa, che a luglio si sono presentati al campo per fare un censimento. I volontari non hanno preso le impronte digitali a nessuno. Si sono limitati a chiedere ai residenti nome, età, nazionalità, se erano stati vaccinati e se i figli andavano a scuola, e poi li hanno fotografati. La Croce rossa insiste che non si è trattato di un’operazione di polizia, ma di un’iniziativa che permetterà di fornire le tessere sanitarie ai residenti del campo. “Hanno soprattutto vermi, malattie gastrointestinali e bronchite”, ha detto un volontario. “Alle autorità possiamo fornire informazioni anonime, in modo che possano valutare le condizioni igienico-sanitarie dei campi”. Resta da vedere se l’operazione della Croce rossa aiuterà gli abitanti dei campi o le autorità che vorrebbero sgomberarli. Ma certo nessuno può biasimare i nomadi, in gran parte rumeni senza documenti, per la loro diffidenza nei confronti di persone in uniforme che vogliono fotografarli e fare un sacco di domande. I loro sospetti hanno radici storiche.

Lo sterminio durante la seconda guerra mondiale è stato solo il culmine di una serie di tragiche persecuzioni compiute nei secoli contro i rom europei. Anche se l’Olocausto rom è ormai un dato di fatto, pochi sanno che per cinque secoli e mezzo migliaia di loro sono stati comprati e venduti come schiavi nell’Europa dell’est. Secondo Ian Hancock, autore del libro We are the romani people, “nel 1500 si poteva comprare un bambino rom per 32 pence. Nel 1800 gli schiavi erano venduti a peso, al prezzo di una moneta d’oro a libbra”.

Collane e sputi
Durante tutta la loro storia, i rom e i sinti sono sopravvissuti rimanendo il più possibile nell’ombra. In Polonia, pochi rom sono sopravvissuti al genocidio nazista nascondendosi nelle foreste. In Boemia e in Moravia alcune famiglie sono state ospitate e nascoste nei villaggi da famiglie ceche. In genere, comunque, molti rom o camminanti semplicemente non parlano della loro storia familiare. Nel 2000, durante un tour letterario in Romania, un amico mi ha detto: “Qui molti non capiscono la necessità di parlare del fatto di avere sangue zingaro. Pensano che per vivere tranquilli basta non parlarne”. I rom che vivono in condizioni terrificanti nei campi alle porte di Roma o Napoli sarebbero felici di non doversi avventurare all’esterno per vendere ciondoli o chiedere l’elemosina. Il problema è che se non lo facessero morirebbero di fame. Chi critica queste pratiche di solito non considera le ragioni economiche che le impongono.

Un altro esempio di comunità sotto assedio è quello di Sulukule, a Istanbul, un insediamento storico occupato da una comunità rom fin dai tempi dell’impero bizantino e oggi parte del patrimonio dell’Unesco. Le prime tracce di insediamenti rom a Sulukule risalgono al 1054. Per secoli il luogo è stato famoso per le sue case di intrattenimento dove i rom suonavano e ballavano di fronte a visitatori di tutto il mondo. La chiusura forzata di queste case nel 1992 ha gettato la zona e i suoi residenti in una grave crisi economica. Ancora una volta la motivazione è stata quella di garantire alloggi più sicuri e igienici. “Non abbiamo intenzione di sbarazzarci dei rom ma dobbiamo fare qualcosa per ridurre il degrado del quartiere”, ha detto il presidente del distretto di Fatih, Mustafa Demir. Le autorità adesso stanno pensando di demolire le piccole case colorate in cui vivono i rom. Al loro posto costruiranno ville che i residenti non potranno mai permettersi, neanche con i sussidi che gli sono stati offerti. Senza casa e senza mezzi di sostentamento, che scelte restano?

Fatti come questo hanno un effetto devastante sul morale della popolazione rom nel suo complesso, non solo su chi ne fa direttamente le spese: in fondo, parliamo di un popolo che ha alle spalle un genocidio e che resta uno dei più poveri ed emarginati d’Europa. I rom e i sinti in tutto il continente assistono a questi sviluppi con un senso di angoscia crescente. Per ogni bottiglia incendiaria gettata in un campo o in una zona occupata, per ogni provvedimento preso dalle autorità locali per far spostare i rom, ci sono migliaia di piccoli episodi di ostilità e pregiudizio. Una volta uno zingaro britannico mi ha detto: “Quando qualcuno esclama: ‘Oh, dev’essere così romantico essere zingaro’, rispondo: ‘Che c’è di romantico a farsi sputare addosso?’”.

I provvedimenti del governo italiano e dei consigli comunali inglesi (come quello di Brentwood) fanno aumentare le tensioni tra gli zingari e le popolazioni locali. Gli immigrati rom in Italia sono lì perché hanno lasciato paesi come la Romania in cerca di una vita migliore. I residenti di Sulukule dovranno andarsene quando arriveranno i camion per la demolizione. I camminanti allontanati dalla terra che hanno comprato nel Cambridgeshire o nell’Essex dovranno accamparsi al lato della strada o in spazi ricreativi pubblici. Bernadette Reilly ricorda di aver chiesto a un agente di polizia che stava facendo sgomberare la sua famiglia: “Dove dovremmo andare?”. “Dove volete”, ha risposto l’agente, “ma non nel mio quartiere”.

Le comunità zingare europee possono essere spostate da un quartiere all’altro o da un paese all’altro, ma non si estingueranno né spariranno come per magia. Finché a livello europeo non ci sarà la volontà politica di affrontare la povertà e l’emarginazione in cui spesso vivono, la situazione potrà solo peggiorare. E la destra continuerà ad accanirsi contro queste minoranze per guadagnare voti. Quando mio padre ha compiuto ottant’anni, ho ricordato a mia zia quello che mi aveva detto sui mattoni lanciati contro le finestre. Mi aspettavo che la zia pensasse, come me, che mio padre si preoccupa sempre troppo. Invece mi ha risposto: “Ha le sue ragioni, tesoro, non credi?”.

(Traduzione di Francesca Spinelli)

Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2008 sul numero 768 di Internazionale con il titolo “La paura dei rom”. L’originale era apparso sul Guardian con il titolo “History repeating”.

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