16 dicembre 2022 13:52

Questo articolo è uscito il 29 agosto 2008 2010 sul numero 759 di Internazionale.

È uno splendido pomeriggio di fine maggio, ma le strade di Laviano (un paese che si trova in una posizione magnifica, tra le montagne dell’Irpinia, in Campania) sono deserte. Nessuna gita in arrivo da Napoli, nessun turista ad ammirare il panorama tra i contrafforti, gli uliveti a terrazza e le rovine della fortezza dell’undicesimo secolo, con le fiancate erbose punteggiate da papaveri selvatici simili a schizzi di sangue. E, soprattutto, neanche un abitante del posto. Le case di Laviano potrebbero ospitare più di tremila persone, ma oggi gli abitanti sono meno di 1.600. E il numero diminuisce di anno in anno.

Mentre passeggiamo per le strade della cittadina, il sindaco Rocco Falivena, che ha 56 anni, mi parla delle dinamiche demografiche locali spiegandomi perché gli edifici di Laviano sembrano appena costruiti, nonostante il paese abbia più di mille anni. Nel 1980 – racconta – Laviano è stato colpito da un terremoto che ha distrutto quasi tutto, uccidendo più di trecento persone, tra cui i genitori di Falivena. Dopo quella tragedia sono arrivati i soldi stanziati dal governo di Roma e dai lavianesi emigrati. La ricostruzione del villaggio ha dato lavoro a molti ma, una volta finita, l’esodo degli abitanti è ricominciato.

Nel 2002, quando Falivena è stato eletto sindaco, due cifre hanno attirato la sua attenzione: quattro, come il numero dei bambini nati a Laviano nei dodici mesi precedenti, e cinque, gli iscritti alla prima elementare del paese, che serve anche altri due comuni della zona. “Allora ho capito subito qual era il mio primo compito: cercare di salvare la nostra scuola”, dice il sindaco. “Un paese senza scuola è un paese morto”. Ci ha pensato e ripensato e alla fine ha trovato la soluzione: pagare le donne per fare figli. Nel 2003 Falivena ha annunciato che avrebbe destinato diecimila euro a ogni donna, originaria del posto o immigrata, sposata o single, che avesse partorito e cresciuto un figlio a Laviano. Il bonus-bebè, come lo chiama il sindaco, ha l’obiettivo di far rimanere in paese i nuovi cittadini: ogni madre riceve 1.500 euro alla nascita del figlio, poi altrettanti per ognuno dei suoi primi quattro compleanni, e un ultimo versamento di 2.500 euro nel giorno dell’iscrizione alla prima elementare. Falivena, che ha l’istinto del giornalista, ha ammesso di aver concepito un piano del genere anche per attirare l’attenzione della stampa. E ha avuto ragione: la sua iniziativa ha contribuito ad alimentare un dibattito sulla demografia, in Italia e non solo.

Finalmente, mentre ci attardiamo davanti a un edificio color senape lungo la strada – deserta – che parte dalla piazza principale del paese, passa un’automobile. Il sindaco, un uomo basso e muscoloso, con i capelli grigi e il volto abbronzato scavato da rughe profonde, fa cenno alla macchina di fermarsi: la giovane donna al volante, Daniela Salvia, era proprio una delle persone che voleva farmi conoscere. I due si scambiano qualche parola, poi Daniela ci invita a casa sua per conoscere la famiglia. Daniela ha 31 anni e suo marito, Gerardo Grande, 36. Hanno due figli: Pasquale, di dieci anni, e Gaia, che ne ha cinque ed è stata una delle prime bambine a usufruire del bonus-bebè. Nonostante le difficoltà, Daniela e Gerardo desiderano una famiglia tradizionale. Di giorno lui lavora per un’impresa edile e la sera gestisce un bar, per permettere alla moglie di occuparsi della casa. Il loro appartamento è carino, ma non è certo spazioso. “Il bonus ci ha aiutati”, dice Gerardo, e indicando Falivena aggiunge: “Quest’uomo è un grande sindaco”.

Secondo i dati, il provvedimento voluto da Falivena sta avendo successo: quest’anno la prima elementare di Laviano ha addirittura 17 alunni. Ma la cifra rischia di essere fuorviante. Sembra infatti che molti dei genitori che hanno approfittato del bonus siano abitanti del posto che avevano comunque già deciso di avere un figlio. Ida Robertiello, un’altra delle mamme entusiaste dell’idea del sindaco, ammette che quando è stata annunciata l’iniziativa era già incinta del suo Matteo. Insomma, l’effetto più incisivo del bonus-bebè è stato forse quello di accelerare le nascite.

L’anno scorso, l’amministratore che aveva temporaneamente sostituito Falivena aveva revocato le agevolazioni. “Conosco diverse donne”, racconta Daniela, “che sono rimaste incinte dopo che il sindaco è stato rieletto”. Con un sorriso malizioso, suo marito aggiunge che molte coppie hanno aspettato perché sapevano che Falivena sarebbe stato eletto ancora e avrebbe così ripreso a elargire i bonus. Oggi il numero delle potenziali beneficiarie del provvedimento si avvicina a cinquanta, e il sindaco non sa fino a quando potrà permettersi di distribuire i contributi. Intanto Laviano continua a perdere abitanti.

Il crollo dopo la bomba
Dal punto di vista demografico, il caso di Laviano non è unico, né in Italia né in Europa. Anzi, potrebbe essere un modello per il futuro. Negli anni novanta i demografi europei hanno cominciato a osservare una tendenza verso la diminuzione della popolazione in tutto il vecchio continente, seguita da un brusco calo dei tassi di fecondità. Chi era poco abituato ad avere a che fare con i numeri ha largamente ignorato il dato fino al 2002. Quell’anno è stato pubblicato uno studio – condotto da tre sociologi: un italiano, un tedesco e uno spagnolo – che, concentrandosi sulle statistiche più recenti, ha dato materiale su cui riflettere ai leader dell’Unione europea.

Normalmente gli studiosi considerano che l’indice di sostituzione (cioè il numero medio di nati per donna necessario a mantenere costante la popolazione di un paese) sia di 2,1. Nella storia moderna ci sono stati vari periodi, per esempio le guerre o le carestie, durante i quali i tassi di fecondità sono scesi al di sotto di questa soglia, raggiungendo livelli bassi (low) o addirittura molto bassi (very low). Ma, studiando le statistiche, gli autori del rapporto del 2002, Hans-Peter Kohler, José Antonio Ortega e Francesco Billari, hanno intravisto qualcosa di nuovo: per la prima volta, a memoria d’uomo, il tasso di fecondità dell’Europa del sud e dell’est era sceso al disotto di 1,3. In demografia questo valore ha un significato speciale. Quando la popolazione di un paese cresce di 1,3 figli per donna, entro 45 anni si riduce della metà. Arrivati a quel punto la china è pressoché impossibile da risalire. Per indicare questo fenomeno, Kohler e i suoi colleghi hanno coniato un neologismo che suona come un cattivo presagio: “Lowest-low fertility” (bassissima fecondità).

Tutto quest’interesse intorno al crollo delle nascite può sembrare strano ai profani. Solo pochi decenni fa si parlava con preoccupazione di esplosione demografica: ci avevano spiegato che l’uomo stava divorando le risorse del pianeta, inquinando e distruggendo il suo fragile ecosistema. Dobbiamo forse pensare che dal 1968, quando Paul Ehrlich lanciò per primo l’allarme pubblicando il best seller La bomba demografica, la situazione è complessivamente molto migliorata? O hanno ragione i giornali, che dedicano sempre più spazio alla penuria di cibo e al riscaldamento globale?

Le statistiche demografiche hanno innescato un ampio dibattito sul futuro del continente

I motivi di allarme non mancano, ma rispetto a quarant’anni fa molte cose sono cambiate. Tanto per cominciare, i tassi di fecondità sono crollati in tutto il mondo, perfino nei paesi in via di sviluppo: si è scesi dai 6 figli per donna a livello mondiale del 1972 ai 2,9 di oggi, con il graduale spostamento della popolazione dalle zone rurali verso le città e la conseguente diffusione di uno stile di vita urbano. Questo calo ha contribuito a rendere meno allarmante la minaccia della sovrappopolazione. Nel frattempo, in questi ultimi anni si è cominciato a parlare di un altro problema: l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Oggi è innegabile che certe parti del pianeta siano sovrappopolate. Altre regioni, però, si trovano davanti a un destino ben diverso. In Europa, la “fecondità bassissima” non è un fenomeno che riguarda solo zone rurali come quella di Laviano: ci sono città, come Milano e Bologna, che hanno tassi di fecondità tra i più bassi mai registrati, anche perché il costo della vita costringe le coppie in età fertile a trasferirsi o ad avere meno figli.

Da quando è stato coniato, il termine “bassissima fecondità” ha attirato l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica dei paesi europei. Le statistiche demografiche hanno anche suscitato un ampio dibattito sul futuro dell’Europa. All’inizio degli anni sessanta il continente aveva il 12,5 per cento della popolazione mondiale, oggi il 7,2 per cento. Se la tendenza attuale non sarà interrotta, nel 2050 solo il 5 per cento degli abitanti del pianeta vivrà in Europa. Per molti, la “bassissima fecondità” è la prova inoppugnabile che siamo di fronte a un disastro di proporzioni mai viste. “Naturalmente, la possibilità di pianificare la decisione di avere un figlio è una grande conquista per la società, e in particolare per le donne”, commenta Letizia Mencarini, docente di demografia all’università di Torino. “Ma leggendo i rapporti dei demografi di vent’anni fa, si capisce che nessuno aveva previsto che il tasso di fecondità sarebbe sceso così tanto. Negli anni sessanta, in Italia ogni donna aveva in media due figli, oggi solo 1,3 e in alcune città addirittura meno di uno. È una situazione patologica”.

Oltre i confini europei
Le spiegazioni di questo calo del tasso di fecondità sono molte e diverse. Ad Atene di solito si dà la colpa al famigerato inquinamento atmosferico, tanto che qualche anno fa andava in onda lo spot pubblicitario di una marca di condizionatori d’aria descritti come strumenti per ridestare il desiderio e far nascere più bambini. Un dato più significativo è che i conservatori, in Grecia come in molti altri paesi, imputano il basso tasso di fecondità al secolarismo sempre più diffuso. Da tempo accusano l’occidente di aver divorziato da Dio e di aver adottato uno stile di vita egoistico e alla lunga autodistruttivo, grazie soprattutto agli strumenti per il controllo delle nascite. Argomenti come questi oggi sono rafforzati dalle statistiche. “In Europa c’è una strana mancanza di voglia di futuro”, ha detto Benedetto xvi nel 2006. “I figli, che sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente”. In Germania, dove l’attuale rapporto nascite/decessi provoca una diminuzione di circa centomila abitanti all’anno, Ursula von der Leyen, ministro della famiglia nel governo di Angela Merkel (e madre di sette figli), ha annunciato due anni fa che se il tasso di fecondità continuerà a diminuire, il paese sarà costretto “a spegnere la luce”. Nei Paesi Bassi André Rouvoet, leader del partito dell’Unione cristiana (e padre di cinque figli), l’anno scorso ha esortato il governo a impegnarsi per convincere le olandesi ad avere più figli. In Canada il conservatore Mark Steyn, autore di un libro che nel 2006 ha avuto un enorme successo, America alone: the end of the world as we know it (L’America è sola: la fine del mondo che conosciamo), ha ricordato ai nordamericani – il cui tasso di fecondità è relativamente alto – che i paesi europei “stanno per chiudere bottega”.

Tom Schierlitz, The New York Times Magazine

Ma a parte questi timori di ordine spirituale, le minacce più gravi che incombono sull’Europa sono di natura economica. Oltre al tasso di fecondità, infatti, nell’equazione economica interviene un altro fattore: la durata della vita. Ovunque si vive più a lungo rispetto al passato, e la durata media della vita continua ad aumentare oltre quello che un tempo era considerato il limite naturale. Gli esperti temono che questa tendenza possa prefigurare una “tempesta demografica perfetta”. Secondo una ricerca di Jonathan Grant e Stijn Hoorens, del gruppo di studio sull’Europa della Rand Foundation, “demografi ed economisti prevedono che da qui al 2050 scompariranno 30 milioni di europei in età da lavoro, e il periodo della pensione durerà decenni”. La crisi, sostengono, sarà provocata da “tre fattori: pressione crescente sul sistema sanitario e previdenziale, diminuzione della forza lavoro e conseguente calo delle entrate fiscali”. In altri termini, non ci saranno abbastanza lavoratori attivi per pagare la pensione agli anziani, che vivranno sempre più a lungo. E la popolazione in grado di lavorare sarà meno numerosa che nelle altre parti del mondo. Secondo le proiezioni dell’International database dell’ufficio statistico centrale degli Stati Uniti, nel 2025 il 42 per cento degli abitanti dell’India avrà meno di 24 anni, contro il 22 per cento degli spagnoli. Il che, per citare uno studio dell’Adecco institute di Londra, scatenerà una “guerra dei talenti”.

Ma i problemi che minacciano il vecchio continente sono aggravati da altri fattori legati ai sistemi di welfare. Gli europei sono abituati ad andare presto in pensione: sempre secondo le ricerche Adecco, in Francia soltanto il 60 per cento dei maschi tra i 50 e i 64 anni lavora ancora. C’è poi da capire quale genere di società sarà il risultato di questi bassissimi tassi di fecondità. In che modo, per esempio, la prevalenza di nuclei con uno o due figli influirà sulla coesione familiare, sui rapporti tra fratelli e sorelle e sull’assistenza agli anziani? Immaginate una società in cui nelle riunioni familiari ci sono appena tre persone, e in cui ogni bambino ha quasi solo parenti che hanno passato la cinquantina o che hanno addirittura 60, 70 o anche 80 anni. Per usare ancora le parole dei sociologi Billari, Kohler e Ortega, l’Europa sta entrando in una “terra ignota” per la storia della demografia.

La bassissima fecondità è anche strettamente legata alla questione dell’immigrazione. La destra teme l’invasione di orde provenienti dai paesi poveri, soprattutto di religione musulmana, non ancora contagiati da quella malattia della modernità che è la pianificazione familiare. Questi movimenti migratori minaccerebbero di trasformare, se non di cancellare completamente, le culture e le tradizioni dell’Europa occidentale. Inoltre nessuno sa quali effetti globali potrà avere il bassissimo tasso di fecondità degli europei: se, in pratica, porterà al ridimensionamento del peso dell’occidente e dei suoi valori, e se davvero l’America, come suggerisce il titolo del libro di Steyn, dovrà cavarsela da sola.

L’Europa così come la conosciamo oggi è destinata a scomparire? Succederà davvero che gruppi etnici come i greci e gli spagnoli si estingueranno, sostituiti da immigrati musulmani a cui non importa nulla di quella maestosa rappresentazione della cultura occidentale che è l’Acropoli di Atene? Dal 1950 Venezia ha perso oltre metà della sua popolazione, e i suoi abitanti sono convinti che la città sia destinata a diventare una specie di parco turistico. Accadrà lo stesso a tutta l’Europa? Gli Stati Uniti vedranno forse i loro più vicini alleati diventare una sorta di enorme Eurodisney?

Sono tutte domande interessanti, ma che non colgono il nocciolo della questione. Per scoprire che fine hanno fatto i bambini d’Europa bisogna guardare ben oltre i confini del vecchio continente.

Il paradosso del sud
Per capire il significato globale del fenomeno dei bassi tassi di fecondità occorre cominciare con l’analizzare il “contro baby boom” europeo, partendo dai dati emersi da un sondaggio di Eurobarometro del 2006. In media le donne europee – ha rivelato la ricerca – hanno ammesso che vorrebbero avere 2,36 figli: una cifra ben più alta dell’indice di sostituzione, e molto superiore agli attuali tassi di fecondità. Se quindi le donne fanno meno figli di quanti ne desiderano, è evidente che in ballo ci sono altri fattori indipendenti dalla loro volontà.

La situazione, poi, cambia da regione a regione. “È un errore pensare all’Europa come a un’entità omogenea sotto il profilo demografico”, spiega Alasdair Murray, direttore del centro studi britannico Centre-Forum di Londra. “In realtà in Europa sono in corso quattro cambiamenti demografici di tipo diverso”. Uno riguarda l’Europa orientale, dove le dinamiche risalgono al periodo comunista e determinano una serie di problemi sociali unici e particolarmente virulenti. Il tasso di fecondità della Bulgaria è di 1,37 e l’aspettativa di vita per i maschi è inferiore di sette anni rispetto a quella del Belgio o della Germania. Secondo alcune stime europee, la popolazione della Bulgaria calerà dagli attuali otto milioni ai cinque del 2050. Quanto alla Lettonia, la sua popolazione è diminuita del 13 per cento dal 1989: il suo tasso di fecondità è tra i più bassi del mondo, mentre quello dei divorzi è uno dei più alti d’Europa, come spiega Linda Anderson, vicedirettrice del ministero lettone per la famiglia. In buona parte dell’Europa orientale è all’opera la stessa combinazione di fattori che molti analisti attribuiscono all’occidentalizzazione. Ma stabilire le cause esatte dell’attuale situazione demografica non è facile. “Sappiamo che il calo dei tassi di fecondità risale all’epoca del crollo dell’Unione Sovietica”, spiega Murray. “Quello che non possiamo dire con certezza è se il fenomeno sia dovuto al passaggio all’economia di mercato o ad altri motivi”.

I paesi scandinavi hanno il welfare più solido e i tassi di fecondità più alti d’Europa

Germania e Austria formano invece una categoria a sé. I fattori che incidono sulla vita delle famiglie sono simili a quelli degli altri paesi europei, ma le coppie tedesche e austriache tendono a non fare figli ormai da tempo. Da un’indagine del 2002 è emerso che il 27,8 per cento delle tedesche nate nel 1960 non aveva figli: una percentuale molto più alta che in ogni altro paese europeo. In un altro studio è stato chiesto a un gruppo di donne europee di età compresa fra i 18 e i 34 anni di dire quale fosse il numero ideale di figli: a rispondere “nessuno” sono state il 16,6 per cento delle tedesche e il 12,6 per cento delle austriache, ma solo il 3,8 per cento delle italiane. Il motivo principale di questo rifiuto della maternità sembra dipendere da un cambiamento nel modo in cui le donne percepiscono il loro “ruolo naturale”. Secondo Nikolai Botev, consulente del Population Fund dell’Onu per le questioni demografiche, molti osservatori hanno scoperto con stupore che in questi ultimi anni “il fatto di non avere figli è tra le caratteristiche di uno stile di vita considerato ideale”. E nessuno ha capito perché in certi paesi questa tendenza sia più diffusa che in altri.

Ma in Europa la vera “linea di faglia” della fecondità è quella che corre da nord a sud. A parte il caso, tutto speciale, dei paesi dell’est, i tassi di fecondità più bassi del vecchio continente (e tra i più bassi del mondo intero) si riscontrano in paesi apparentemente “familisti” come l’Italia, la Spagna e la Grecia, dove la media di figli per donna è di circa 1,3. Ho chiesto la spiegazione di questo fenomeno a Francesco Billari dell’università Bocconi di Milano, uno degli autori dello studio del 2002 che ha introdotto il concetto di lowest low fertility. “Esaminando i dati più recenti relativi ai paesi sviluppati”, mi ha risposto, “si nota che l’Italia ha due primati: il primo è che i giovani italiani continuano a vivere in casa con i genitori più a lungo che in ogni altro paese, il secondo è costituito dalla percentuale, insolitamente alta, di figli nati da genitori ultraquarantenni. Questi due fattori sono legati tra loro e contribuiscono a determinare i bassi tassi di fecondità: se si comincia tardi, si tende a non avere un secondo o un terzo figlio”.

Tom Schierlitz, The New York Times Magazine

A uno sguardo superficiale, i motivi per cui la contrazione delle nascite investe in particolare l’Europa del sud sembrano di natura economica. In Italia, per esempio, il salario d’ingresso nel mondo del lavoro è il più basso di tutta l’Unione europea, cosa che impedisce ai giovani di mettere su casa da soli. E come ha fatto notare David Willetts, un politico britannico, “vivere in casa dei genitori è un anticoncezionale efficacissimo”. Ma c’è una causa ancor più profonda, forse legata proprio al carattere familista dei paesi sudeuropei, nei quali, osserva Billari, “è molto difficile conciliare lavoro e famiglia, anche perché all’interno delle coppie i rapporti di genere sono molto asimmetrici”.

È proprio questo, stando ai dati recenti, il vero problema. La situazione attuale è il risultato di un attrito tra le placche tettoniche della società moderna, che va avanti in silenzio da decenni. Secondo una tesi demografica comunemente accettata, fino a qualche anno fa si pensava che il tasso di fecondità di un paese diminuisse con l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, come è successo nei paesi sviluppati. Ma di recente, e in particolare in Europa, le statistiche tracciano un quadro diverso, quasi opposto. A sentire Hans-Peter Kohler, dell’università della Pennsylvania, oggi “i tassi di fecondità più alti sono associati a un’elevata presenza delle donne nel mondo del lavoro, mentre quelli più bassi si osservano spesso nei paesi dove il lavoro femminile è meno diffuso”. In altre parole, fanno più figli le donne che lavorano rispetto alle casalinghe.

Ma com’è possibile? Nel febbraio di quest’anno Letizia Mencarini, la demografa dell’università di Torino di cui abbiamo parlato, ha pubblicato insieme con tre colleghe un lavoro in cui mette a confronto la situazione delle donne italiane e olandesi. Le studiose hanno osservato che il tasso di occupazione femminile nei Paesi Bassi è più alto che in Italia, come del resto quello di fecondità: 1,73 contro 1,33. Gli abitanti di entrambi i paesi hanno una visione piuttosto tradizionale dei ruoli di uomini e donne, ma la società italiana è notevolmente più conservatrice di quella olandese. E questa è, a quanto pare, una differenza decisiva. Le sociologhe di Torino hanno cercato di dimostrare un’ipotesi già avvalorata dalle statistiche: le donne che occupano in casa e con i figli più del 75 per cento del loro tempo tendono a desiderare altri figli meno di quelle che condividono con mariti o partner le fatiche della vita domestica. In altre parole, i padri olandesi cambiano i pannolini, vanno a prendere i figli in palestra e mettono a posto il soggiorno più di quanto facciano gli italiani. Ed è anche per questo che nei Paesi Bassi nascono più bambini che in Italia.

La risposta all’interrogativo che ci eravamo posti – che fine hanno fatto i bambini d’Europa? – comincia a profilarsi. La spettacolare trasformazione della società moderna a partire dagli anni sessanta e il cambiamento del ruolo della donna hanno prodotto una tensione tra forze sociali opposte. In alcuni paesi questi conflitti sono stati risolti con successo, in altri non è ancora stata trovata una composizione tra le diverse posizioni. Nei paesi europei dove la disparità di genere è minore, la società favorisce l’apertura di asili nido e altre forme di sostegno alle donne che lavorano. Ed è questo che dà la possibilità di avere un secondo o un terzo figlio.

Da Oslo a Milano
Ecco dunque una differenza cruciale tra l’Europa del nord (definizione che include Francia, Regno Unito e paesi scandinavi) e quella del sud. I paesi scandinavi hanno sia i sistemi di welfare più solidi del continente sia – con 1,8 figli per donna – i tassi di fecondità più elevati. Per comprendere fino in fondo questa spaccatura nord-sud, ho voluto conoscere i due sociologi che meglio la incarnano, Letizia Mencarini e il suo collega norvegese Arnstein Aassve, che l’anno scorso ha avuto una cattedra alla Bocconi di Milano, l’università che sta diventando un centro di ricerca demografica di livello europeo. Proprio dal punto di vista demografico, i due danno vita a un contrasto interessante. Lei, nata nel sud della Toscana, è piccola e scura di capelli, dotata di un temperamento focoso che la porta a condire le sue analisi con invettive appassionate contro i responsabili politici dei problemi del paese. Lui è uno scandinavo alto e riservato, attento ad ammorbidire le dichiarazioni spigolose della collega con interventi più sfumati, da studioso, in un inglese senza sbavature e in tono dimesso. Davanti a un piatto di linguine in una trattoria di Milano i due hanno passato al setaccio le loro rispettive culture.

Quando, l’anno scorso, si è trasferito dalla Norvegia in Italia per lavoro, Aassve ha subìto un vero e proprio shock culturale. Negli ultimi anni il suo paese ha preso molti provvedimenti a favore delle donne e della famiglia. Oggi in Norvegia sono garantite 54 settimane di congedo per maternità e sei per paternità, più un bonus di circa quattromila euro per ogni nato. Ma non solo: gli asili nido pubblici sono diffusissimi, e le retribuzioni per le donne in maternità arrivano all’80 per cento dello stipendio. Di conseguenza, spiega Aassve, “in Norvegia ci si preoccupa poco dei tassi di fecondità: il tema dominante è la parità tra i sessi, il vero strumento per far aumentare le nascite. Attualmente è in corso un dibattito sull’opportunità di rendere obbligatorio il congedo di paternità, per far sì che donne e uomini abbiamo gli stessi diritti e le stesse opportunità. Se alla nascita del figlio l’uomo va in congedo, la donna può tornare al lavoro”.

La situazione che il sociologo norvegese ha trovato in Italia è molto diversa. Le italiane hanno circa lo stesso livello di istruzione delle norvegesi, ma il tasso di occupazione femminile è del 50 per cento, contro il 75-80 della Norvegia. Nella società italiana le donne tendono a rimanere a casa dopo la nascita di un figlio, una soluzione assecondata anche dalle istituzioni: gli asili statali sono pochi e moltissime coppie appena sposate si affidano all’aiuto dei nonni e della famiglia allargata. Ma non sempre questa soluzione funziona: “Le coppie tendono a rinviare la nascita dei figli”, dice Aassve, “e il divario di età tra le generazioni cresce. Così in molti casi i nonni, che dovrebbero occuparsi dei bambini, hanno invece bisogno di assistenza”.

L’eccezione statunitense
I problemi, però, sono gli stessi nel nord e nel sud dell’Europa. Se tuttavia sbarcare il lunario è difficile a Madrid, a Milano o ad Atene come a Oslo e a Stoccolma, le famiglie scandinave, che nella maggior parte dei casi possono contare su due redditi, hanno alcuni vantaggi. In Scandinavia, anche grazie ai sussidi pubblici, le famiglie più numerose sono anche quelle più benestanti, mentre nell’Europa meridionale avere figli costa molto, e spesso spinge le famiglie verso la povertà. Questi dati smentiscono nettamente le analisi dei conservatori, secondo i quali per aumentare la popolazione e alimentare l’economia basta incoraggiare la gente a fare più figli. Se questa lettura della situazione dell’Europa meridionale è esatta – e cioè se dietro a una superficiale patina di modernità sopravvive una concezione ottocentesca della famiglia – si potrebbe pensare di applicare la stessa analisi ad altre parti del mondo? Apparentemente sì.

Per raggiungere alti tassi di fecondità, una società deve essere generosa o flessibile

La primavera scorsa il governo giapponese ha pubblicato alcune statistiche da cui emerge che il numero dei minori di 14 anni è il più basso dal 1908. Il ministro della sanità tailandese a maggio ha annunciato che l’attuale tasso di fecondità del paese è di 1,5, molto più basso del livello di sostituzione. “Oggi il paese che fa meno figli è la Corea del Sud, con appena 1,1 bambini per donna”, spiega Francesco Billari, “e in Giappone le cose non vanno molto meglio. I motivi della bassa fecondità sono in parte gli stessi che abbiamo trovato nell’Europa del sud. In entrambi i casi si tratta di società tradizionali, dove spesso è il marito a percepire il reddito. Certo, molte cose sono cambiate, in Italia e in Spagna come in Giappone e in Corea. Ma nel complesso queste società non si sono ancora adeguate alla modernità. O meglio, sono i rapporti interni alle famiglie a non essere ancora cambiati”. Il caso europeo, quindi, non è isolato, come sostiene qualcuno: il vecchio continente è semplicemente la prima regione ad aver fatto registrare tassi di fecondità estremamente bassi.

Nel panorama mondiale c’è però un’eccezione. L’anno scorso negli Stati Uniti il tasso di fecondità è stato di 2,1: il più alto dagli anni sessanta, superiore a quelli registrati in quasi tutto il resto del mondo industrializzato. Contando anche l’immigrazione, oggi gli Stati Uniti non hanno problemi di tipo demografico. Nel 1984 il Census Bureau, l’ufficio demografico centrale di Washington, prevedeva che nel 2050 i cittadini americani sarebbero stati 309 milioni. Secondo le ultime cifre, oggi sono già 304 milioni, e nel giro di quarant’anni potrebbero arrivare fino a 420 milioni.

Il ritorno del natalismo
Molti osservatori sono particolarmente attenti a uno dei fattori che stanno determinando questi alti tassi di fecondità: la flessibilità. “In Europa la società e il mercato del lavoro sono molto più rigidi che in America”, dice Carl Haub del Population reference bureau di Washington. Negli Stati Uniti i sussidi di stato per i figli sono scarsi e il governo non aiuta certo le famiglie come succede in Norvegia. Il sistema, però sembra compensare queste lacune. Secondo Hans-Peter Kohler, dell’università della Pennsylvania, “quello che spinge le donne a non avere figli sono i costi troppo alti, in particolare la contrazione dei salari. Ma il mercato del lavoro statunitense, rispetto a quelli di altri paesi ad alto reddito, abbatte questi costi perché permette un orario di lavoro più flessibile e rende più facile uscire e poi rientrare nel mondo del lavoro”. Insomma, le americane che scelgono di mettere la carriera in stand-by per occuparsi della famiglia sanno che potranno tornare a lavorare dopo tre o quattro anni. In Europa questa possibilità è molto più rara.

Per alzare il tasso di fertilità esistono quindi due soluzioni: il sistema scandinavo, che potremmo definire neosocialista, e quello americano, ispirato al libero mercato. “Si potrebbe dire”, afferma Aassve, “che per promuovere la fecondità una società deve essere generosa o flessibile. Quella statunitense non è molto generosa, ma è flessibile. Quella italiana non è generosa, in termini di servizi sociali, e neanche flessibile. In più c’è il problema dello stigma: la società italiana accetta molto meno di quella americana il fatto che le donne con figli lavorino”.

In base a questa logica, il sistema peggiore è quello che si adegua soltanto in parte alle esigenze della modernità: quello, cioè, che da una parte dà alle donne maggiori opportunità scolastiche e lavorative, ma dall’altra conserva una mentalità tradizionale. Sembrano queste le caratteristiche della crisi demografica che oggi affligge l’Italia, la Spagna, la Grecia, e forse anche il Giappone, la Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e altri paesi del mondo. I demografi hanno scoperto con grande stupore che nei paesi in via di sviluppo i tassi di fecondità si stanno modificando rapidamente a causa dell’aumento del lavoro femminile e della diffusione degli strumenti per il controllo delle nascite. Come spiega Edward Jow-Ching, sociologo dell’università di Hong Kong, “dal punto di vista demografico un tempo esistevano due regimi distinti: da una parte i paesi sviluppati, dall’altra quelli in via di sviluppo. Questa distinzione sta scomparendo”. Secondo l’Onu, infatti, ci sono attualmente 25 paesi in via di sviluppo, tra cui Cuba, Costa Rica, Iran, Sri Lanka e Cina, in cui il tasso di fertilità è pari o inferiore al livello di sostituzione. In alcuni casi, il più notevole è quello cinese, il calo si spiega con i provvedimenti per contenere l’aumento demografico. Ma nel resto dei paesi le ragioni sono diverse, e simili a quelle registrate in Europa. Spesso i paesi in via di sviluppo si avvicinano solo parzialmente alla modernità, chiedendo alla società, e in particolare alle donne, di rinunciare a qualcosa. Di solito al futuro. Nell’era della bassissima fecondità sembra tornare di moda il natalismo, cioè quell’insieme di politiche pubbliche che puntano ad accrescere il tasso di fecondità. Se la popolazione di un paese cala, la soluzione logica – o apparentemente logica – per farla tornare ad aumentare è incoraggiare la gente a fare più figli. Il problema è che non esiste la certezza che queste politiche possano incidere davvero sui tassi di fecondità. Certo, secondo diversi studi, nei paesi che hanno dei programmi di incremento delle nascite i tassi di fecondità sono in crescita, ma si tratta di aumenti molto limitati, anche perché i bonus assegnati non sempre bastano a indurre le coppie a fare figli. “I veri ostacoli alla fecondità”, afferma Alasdair Murray, di Centre-Forum, “sono i problemi strutturali del mercato del lavoro e della casa”.

Economia e demografia
Al di là delle strategie nataliste, esiste un’altra via per aumentare la popolazione. Nel novembre del 2007 la Commissione europea ha pubblicato un documento in cui giunge alla conclusione che per compensare le tendenze demografiche attuali “occorrerebbero flussi continui e consistenti di giovani immigrati”. Ma sono ben pochi, in Europa, a vedere di buon occhio una soluzione del genere. Il fenomeno dell’immigrazione ha toccato diversi nervi scoperti nei paesi europei, scatenando dibattiti sull’identità culturale, la cittadinanza, l’identità nazionale, la tolleranza, i valori religiosi e la laicità.

Intanto, però, c’è anche chi considera i bassi tassi di fecondità non una catastrofe ma una sfida, se non addirittura un’opportunità. Paul Ehrlich, lo studioso di Stanford che negli anni sessanta aveva parlato della “bomba demografica”, è convinto che l’uomo stia sfruttando il pianeta in modo irresponsabile. “Considerare il basso tasso di fecondità un fattore di crisi è assurdo”, mi dice. “Praticamente tutti i miei colleghi all’Accademia nazionale delle scienze giudicano positivamente la diminuzione della popolazione nei paesi ricchi”. I bassi tassi di fecondità e l’invecchiamento della popolazione, secondo Vladimir Spidla, commissario europeo per il lavoro e gli affari sociali, “sono le inevitabili conseguenze di sviluppi positivi: in particolare l’aumento dell’aspettativa di vita e la maggiore possibilità di scegliere se e quando avere figli”. Una tesi condivisa da Alasdair Murray, di Centre-Forum, che la argomenta così: “È un errore imputare le difficoltà economiche europee ai bassi tassi di fecondità. La popolazione europea è in calo e non mi sembra che si possa fare granché. La questione vera è un’altra: in che misura l’aumento demografico è necessario alla crescita economica? La mia risposta è: non molto. In Europa c’è un numero colossale di disoccupati e sottoccupati: per migliorare in parte i problemi dell’economia occorre far rientrare queste persone nel mondo del lavoro. Il nostro primo obiettivo dovrebbe essere questo, non spingere le donne a rimanere incinte”.

Attualmente in Europa si sta tentando in vari modi di allungare la durata dell’età lavorativa sia in entrata sia in uscita. Nei Paesi Bassi, per esempio, dove le politiche di abbassamento dell’età pensionabile hanno fatto sì che oggi sia impiegato solo il 20 per cento degli ultrasessantenni, il governo ha varato una campagna per abituare le persone all’idea di lavorare fino a 65 anni. Chi ha familiarità con le statistiche tende a vedere il bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto. James W. Vaupel, fondatore e direttore dell’Istituto Max Planck per le ricerche demografiche, che ha sede a Rostock, in Germania, non è preoccupato per il futuro del suo paese: “Nel complesso le cose andranno meglio che in passato. Si vivrà più a lungo e in modo più sano. La crescita economica continuerà, anche se magari a un ritmo più lento, e il nostro tenore di vita aumenterà”. Sulle previsioni di Vaupel ho voluto sentire l’opinione di Carl Haub, che segue l’andamento delle dinamiche globali della fecondità dal suo osservatorio di Washington. È possibile, gli ho chiesto, che i paesi europei con bassi tassi di fecondità siano sulla strada dello sviluppo? È corretto pensare che i veri obiettivi dei paesi europei dovrebbero essere riformare l’economia, trovare soluzioni creative per ridurre le dimensioni delle città e far lavorare più giovani e più anziani, per non far crollare i sistemi sanitari e pensionistici?

Haub non è d’accordo: “Forse modificare l’età pensionabile e fare altri aggiustamenti in economia è corretto, ma un paese non può andare avanti a lungo con un tasso di fecondità di 1,2. Prendiamo l’Italia e la Spagna di oggi e confrontiamo l’entità numerica dei rispettivi gruppi di età tra 0 e 4 anni e tra 29 e 34. Il primo è circa la metà del secondo. Non è possibile pensare che una società con una simile distribuzione demografica, rappresentata da una piramide capovolta, duri in eterno. Non può esistere un paese dove vivono tutti in una casa di riposo”.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è uscito il 29 agosto 2008 2010 sul numero 759 di Internazionale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it