21 aprile 2023 13:06

Questo articolo è uscito il 22 aprile 2005 sul numero 587 di Internazionale.

Nella piccola strada/ Di una piccola città/ Sotto un baldacchino di ippocastani/ Tutto felice corre un bambino/ Verso il luogo della sua morte. (Janusz A. Ihnalowicz)

La guerra totale si svolge su migliaia di fronti. In questo tipo di guerre tutti sono al fronte, anche chi non è mai stato in trincea o non ha mai sparato un colpo.

Oggi, riandando con la memoria a quegli anni, mi accorgo non senza sorpresa di ricordare meglio l’inizio della guerra che non la sua fine. L’inizio spicca chiaramente nello spazio e nel tempo e posso rievocarlo senza difficoltà, perché ha conservato inalterato il suo colore e la sua intensità emotiva. Tutto comincia quando, un bel giorno, mi accorgo che nel limpido cielo azzurro di una fine estate (e nel settembre del 1939 il cielo era di un azzurro immacolato, senza una nube) in alto, molto in alto, spuntano dodici punti argentei luccicanti. La cupola celeste risuona di un rombo sordo e monotono, mai udito finora. Ho sette anni, sto in mezzo a un prato (la guerra ci aveva sorpreso in campagna, nell’Europa orientale) e fisso i puntini argentei che impercettibilmente si spostano nel cielo. In quel momento, sul limitare del bosco vicino risuona uno spaventoso boato, sento gli scoppi delle bombe che esplodono. Che si tratti di bombe verrò a saperlo in seguito; per il momento ne ignoro ancora l’esistenza, è un concetto completamente estraneo a un bambino come me, vissuto in una sperduta provincia, che non conosce né radio né cinema, non sa né leggere né scrivere e non ha mai sentito parlare di guerre. Vedo sprizzare enormi zampilli di terra. Faccio per correre verso quello straordinario spettacolo che mi stupisce e mi affascina perché, ignaro come sono della guerra, non associo gli aeroplani luccicanti, il boato delle bombe e la terra che si solleva fino alla cima degli alberi a un possibile pericolo di morte. Mi precipito verso il bosco, verso le bombe che cadono ed esplodono, quando una mano mi prende per una spalla e mi rovescia a terra. “Stai giù!”. Sento la voce agitata di mia madre. “Non muoverti!”. Stringendomi a sé, la mamma pronuncia parole che non capisco e che mi propongo di farmi spiegare. Dice: “Lì c’è la morte, figlio mio”.

È notte, ho sonno, ma non mi lasciano dormire, dobbiamo andare avanti, dobbiamo scappare. Dove, non so. Capisco però che la fuga è diventata una necessità superiore, una nuova forma di vita seguita da tutti. Le strade, le vie, perfino i sentieri campestri sono ingombri di carri, carretti e biciclette; gremiti di fagotti, di valigie, di borse, di secchi e di gente spaventata che si aggira sgomenta in qua e in là. Chi scappa verso oriente, chi a occidente, a nord, a sud. Scappano in tutte le direzioni, girano a vuoto, cadono esausti, si addormentano dove capita; dopo un attimo di riposo, racimolano le forze e riprendono il loro confuso e interminabile viaggio.

Mi hanno raccomandato di non lasciare la mano della mia sorellina minore. Non dobbiamo perderci, dice la mamma. Ma anche senza la sua raccomandazione, sento che il mondo è di colpo diventato minaccioso, estraneo, ostile e che devo stare in guardia. Mia sorella e io camminiamo accanto a un carro dalle sponde a rastrello, carico di fieno. Sopra, su un telo di lino, giace mio nonno. Non può muoversi, è paralizzato. Appena ha inizio l’incursione, la folla – che finora ha avanzato pazientemente – viene presa dal panico e si nasconde nei fossi, si barrica tra i cespugli, si rintana nei campi di patate. Sulla strada deserta resta solo il carro con mio nonno. Il nonno vede gli aeroplani venirgli addosso, abbassarsi bruscamente e prendere di mira il carro abbandonato; vede il fuoco delle mitragliatrici, sente l’urlo dei motori sopra la testa. Quando gli aerei spariscono, torniamo al carro e mia madre asciuga la faccia sudata del nonno. Le incursioni si ripetono anche più volte al giorno. Dopo ognuna di esse, il volto stanco ed emaciato del nonno è madido di sudore.

Il paesaggio si fa sempre più cupo. Lontano, all’orizzonte, si levano colonne di fumo. Oltrepassiamo villaggi deserti e cascinali in fiamme. Superiamo campi di battaglia cosparsi di attrezzi abbandonati, stazioni ferroviarie bombardate, automobili rovesciate su un fianco. C’è odore di polvere da sparo, di bruciaticcio, di carne in decomposizione. Ci imbattiamo continuamente in carogne di cavalli. Il cavallo, grosso e indifeso, non è capace di cercarsi un riparo: durante i bombardamenti resta immobile, in attesa della morte. Troviamo cavalli morti a ogni passo: sulla strada, nel fosso, nei campi. Giacciono con le zampe in aria, quasi tendendo gli zoccoli a minacciare il mondo. Non vedo cadaveri umani: quelli li sotterrano subito. Solo carogne di cavalli neri, bai, pezzati, castani, come se la guerra in atto non fosse tra uomini ma tra cavalli, come se solo loro combattessero una battaglia per la morte o la vita e ne fossero le uniche vittime.

Arriva un duro e gelido inverno. Quando si sta male, il freddo sembra più intenso, il gelo più penetrante. In condizioni normali, l’inverno è solo una stagione dell’anno, un preludio della primavera; ma quando si è poveri e disgraziati, l’inverno è il disastro, la catastrofe. Comunque, quel primo inverno di guerra è eccezionalmente rigido. Nella nostra casa le stufe sono fredde, le pareti coperte da un bianco, piumoso strato di brina. Non abbiamo nulla da bruciare: il combustibile non si compra e rubarlo è severamente vietato. Per chi ruba il carbone c’è la morte, per chi ruba la legna, la morte. La vita umana vale poco, non più di un pezzo di legno o di carbone. Non c’è nulla da mangiare. Mia madre resta per ore immobile davanti alla finestra. A quasi tutte le finestre si vedono persone che guardano la strada, come nell’attesa o nella speranza di qualcosa. Insieme a una banda di ragazzini, mi aggiro nei cortili un po’ per gioco, un po’ alla ricerca di cibo. A volte da una porta socchiusa arriva un odore di minestra sul fuoco. In quei casi Waldek, uno dei miei compagni, infila il naso nello spiraglio e comincia febbrilmente a inalare l’odore, carezzandosi con aria beata lo stomaco come se fosse seduto a una tavola riccamente imbandita. Un attimo dopo ritorna triste e ripiomba nell’apatia. Un giorno sentiamo dire che in una bottega della piazza ci saranno le caramelle. Ci mettiamo subito in coda – un’interminabile fila di bambini intirizziti e affamati. È pomeriggio, sta scendendo il crepuscolo. Restiamo al gelo tutta la sera, tutta la notte e il giorno seguente. Stiamo in piedi stringendoci gli uni contro gli altri, abbracciandoci per non congelarci. Finalmente il negozio apre: ma, invece delle caramelle, ognuno di noi ottiene un barattolo vuoto (dove sono finite le caramelle? Chi se le è prese? Mistero). Debole, gelato fino alle ossa e tuttavia felice, corro a casa con un bottino pur sempre prezioso: sulle pareti interne del barattolo è rimasto attaccato uno strato di zucchero. Mia madre scalda un po’ d’acqua, ce la versa dentro e ottiene una bevanda bollente e dolciastra, unico cibo di quel giorno.

Siamo di nuovo in cammino. Dalla nostra cittadina di Pinsk andiamo verso ovest, a raggiungere mio padre che, a quanto dice la mamma, si trova in un villaggio vicino a Varsavia. Fatto prigioniero al fronte, è scappato e ora fa il maestro in una scuola di campagna. Quando noi, che durante la guerra eravamo bambini, diciamo “mio padre” e “mia madre”, la solennità delle parole ci fa dimenticare che allora le nostre madri erano ragazze e i nostri padri giovanotti pieni di desiderio, di nostalgia e di voglia di stare insieme. La mia giovane madre aveva venduto tutto quello che c’era in casa e, su un carro preso in affitto, eravamo partiti alla ricerca del babbo. Lo trovammo per puro caso. Attraversando un villaggio chiamato Sieraków, la mamma aveva improvvisamente gridato: “Dziudek!” a un uomo che attraversava la strada. Era mio padre. Ci stabilimmo insieme in una casupola senza acqua né luce. Quando calava il buio, andavamo a dormire: non possedevamo neanche una candela. La fame ci era venuta dietro da Pinsk. Cercavo continuamente da mangiare, una crosta di pane, una carota, una cosa qualsiasi. Un giorno mio padre, non sapendo più che fare, aveva detto in classe: “Bambini, se domani volete venire a scuola, dovete portare una patata a testa”. Incapace di commerciare, inadatto agli affari e senza stipendio, non aveva visto altra via d’uscita che chiedere qualche patata ai suoi scolari. L’indomani metà della classe era assente. Alcuni bambini avevano portato mezza patata, altri un quarto. Un’intera patata era un tesoro.

Accanto al villaggio c’è un bosco e nel bosco, accanto a una borgata di nome Palmiry, una radura. La radura è usata dalle Ss per le esecuzioni. All’inizio le fucilazioni avvengono di notte e noi veniamo svegliati da sorde e ripetute serie di raffiche. Poi cominciano a farle anche di giorno. Trasportano i condannati in una colonna di camion verdi coperti, chiusa da un camion scoperto che trasporta il plotone d’esecuzione. I soldati indossano sempre cappotti lunghi, quasi che il cappotto lungo e stretto in vita da una cintura sia l’attributo indispensabile del rituale di morte. Ogni volta che passa la colonna, noi bambini del paese la spiamo nascosti nei cespugli lungo la strada. Tra un attimo, oltre la cortina degli alberi, avrà inizio qualcosa che ci hanno proibito di guardare. Un formicolio gelato mi pervade il corpo, tremo da capo a piedi. Con il fiato sospeso, restiamo in attesa delle raffiche. Eccole. Seguono alcuni spari isolati. Poco dopo la colonna riparte per Varsavia. L’ultimo camion trasporta le Ss del plotone d’esecuzione. Parlano del più e del meno, fumando sigarette.

La notte vengono i partigiani. Vedo le loro facce spuntare all’improvviso dietro alle finestre e incollarsi ai vetri. Poi siedono intorno al tavolo, e io li guardo con in mente sempre lo stesso pensiero: che possono morire oggi stesso, che sono praticamente segnati dalla morte. Tutti noi rischiavamo di morire, ma loro quella possibilità la sfidavano, ci si misuravano. Una volta arrivarono, come al solito di notte. Era autunno, pioveva. Dissero qualcosa sottovoce alla mamma (mio padre non lo vedevo da un mese e non l’avrei più rivisto fino alla fine della guerra: si nascondeva). Dovemmo vestirci in fretta e furia e uscire di casa: nelle vicinanze c’era un rastrellamento, venivano deportati interi villaggi. Ci rifugiammo a Varsavia, nel nascondiglio che ci avevano indicato. Era la prima volta che mi trovavo in una grande città, che vedevo i tram, case a più piani, file di grandi negozi. Non ricordo come fu che ci ritrovammo di nuovo in campagna, in un villaggio dall’altra parte della Vistola. Ricordo solo l’immagine di me che cammino ancora una volta accanto a un carro e la sabbia calda del sentiero che schizza tra i raggi delle ruote.

Per tutta la guerra non ho fatto che sognare le scarpe. Di possederne un paio. Come ottenerle? Che fare per procurarmele? D’estate cammino scalzo, ho la pelle dei piedi dura come il cuoio. All’inizio della guerra il babbo mi ha fatto un paio di scarpe di feltro, ma lui non è un calzolaio e quelle scarpe sono mostruose, a parte il fatto che sono cresciuto e che ormai mi stanno piccole. Sogno scarpe robuste, massicce, ferrate, che risuonino sonoramente sul selciato. A quel tempo andavano di moda gli stivali, simbolo di forza e virilità. Ero capace di fissare per ore un bel paio di scarpe, ne amavo la pelle lucente, lo scricchiolio delle suole. Non era solo il desiderio di avere delle scarpe comode e belle. La scarpa di buona qualità era un simbolo di prestigio e di potere; la scarpa andante e scalcagnata era sinonimo di umiliazione, il marchio di un uomo senza più dignità e condannato a un’esistenza subumana. Indossare un buon paio di scarpe significava essere forte, anzi significava semplicemente essere. Ma in quegli anni le scarpe agognate restarono sempre fuori della mia portata. Mi toccò tenermi (con la paura di dovermeli tenere per sempre) i miei rozzi zoccoli coperti da una tomaia di tela cerata nera alla quale, con non so più quale cera, cercavo invano di dare un po’ di lucentezza.

Nel 1944 diventai chierichetto. Il mio prete era il cappellano dell’ospedale da campo. Le file di tende mimetizzate stavano nascoste in una pineta sulla riva sinistra della Vistola. Durante l’insurrezione di Varsavia, prima dell’offensiva di gennaio, vi si svolgeva uno sfibrante e febbrile andirivieni. Dal fronte che tuonava e fumava a poca distanza arrivavano di gran carriera le ambulanze cariche di feriti, spesso privi di sensi, ammucchiati in fretta e furia uno sull’altro come sacchi di grano (con la differenza che questi grondavano sangue). I medici, mezzi morti dalla stanchezza, tiravano fuori i feriti e li stendevano sull’erba. Poi li annaffiavano con un getto d’acqua fredda. Quelli che davano segni di vita venivano portati nella tenda della sala operatoria (davanti alla quale si ammucchiava ogni giorno una catasta di gambe e braccia amputate). Chi restava immobile veniva gettato nella fossa scavata dietro l’ospedale. Lì, su quella fossa sempre aperta, restavo per ore accanto al prete reggendogli il breviario e l’aspersorio. Ripetevo con lui le preghiere per i defunti. “Amen”, dicevamo a ogni morto, “amen” decine di volte al giorno, “amen” in fretta e furia perché, laggiù oltre il bosco, la macchina di morte continuava a lavorare a pieno ritmo. Poi, un giorno, tutto diventò vuoto e silenzioso, le ambulanze smisero di andare e venire, le tende sparirono (l’ospedale si era spostato a ovest) e nel bosco non rimasero che le croci.

Che accadde dopo? Trascrivendo queste pagine tratte dalle mie memorie di guerra (memorie mai scritte), mi chiedo quale ne sarebbe stato l’epilogo. Che cosa avrei detto sulla fine della seconda guerra mondiale? Probabilmente niente: voglio dire niente di veramente conclusivo. Il fatto è che, in realtà, per me la guerra non finì né nel 1945 né subito dopo. Per molti versi qualcosa di essa perdurava, e tuttora continua. Per i sopravvissuti la guerra non finisce mai in modo definitivo. Secondo una credenza africana, un uomo muore veramente solo quando muore l’ultima delle persone che lo conoscevano e lo ricordavano. In altre parole, smettiamo di esistere quando al mondo non c’è più un solo portatore di memoria. Qualcosa del genere accade anche per la guerra. Chi l’ha vissuta non se ne libera mai completamente. Gli resta dentro come un gobba mentale, come una dolorosa escrescenza che neanche un chirurgo di prim’ordine come il tempo riesce a rimuovere. Provate ad ascoltare un gruppo di sopravvissuti riuniti a parlare intorno a un tavolo. Non importa da dove parta il discorso, la conclusione sarà sempre la stessa: i ricordi di guerra. Anche dopo anni di pace, quelle persone continueranno a sovrapporre le sue immagini a ogni nuova realtà, una realtà con la quale non riusciranno a identificarsi del tutto poiché ha a che fare con il presente, mentre loro sono posseduti dal passato, dal continuo ritorno a ciò che hanno vissuto e al modo in cui l’hanno vissuto. Il loro pensiero non è che un’ossessiva ripetizione del passato.

Ma che cosa significa pensare in termini di guerra? Significa vedere le cose sempre al massimo della tensione, sempre pervase di minaccia e crudeltà. Quello della guerra è un mondo drastico e manicheo, che elimina le sfumature intermedie riducendo tutto alla fondamentale contrapposizione tra bianco e nero, tra le forze primarie del bene e del male. Sul campo di battaglia non restano che il bene (noi) e il male (tutto ciò che ci blocca il cammino, che ci ostacola e che ricacciamo a forza nella sinistra categoria del nemico). L’immagine della guerra è pervasa da un’atmosfera di forza, di bruta forza materiale che stride, fuma, esplode senza sosta, sempre pronta all’attacco; una forza impressa in ogni gesto, in ogni passo sul selciato, in ogni calcio di fucile che si abbatte su un cranio. Un modo di pensare dove l’unico criterio di misura è la forza: a contare è solo il più forte, le sue ragioni, il suo grido, il suo pugno. Non per niente i conflitti non si risolvono con i compromessi, ma con la distruzione dell’avversario. Tutto si svolge in un clima di esaltazione emotiva, di furia e di frenesia in cui ci sentiamo assordati, tesi e, soprattutto, minacciati. Ci muoviamo in un mondo di sguardi ostili, di mascelle serrate, di gesti e di voci che suscitano terrore.

Per molto tempo ho pensato che il mondo e la vita fossero davvero così. Non c’è da stupirsi. Per me gli anni della guerra avevano coinciso prima con l’infanzia, poi con l’inizio della maturità e della presa di coscienza. Ero convinto che non la pace, ma la guerra fosse la condizione naturale, anzi l’unico modo di vivere; che l’esilio, la fame, la paura, le incursioni, gli incendi, i rastrellamenti, le esecuzioni, la menzogna, il frastuono, il disprezzo e l’odio fossero l’ordine naturale delle cose, l’essenza stessa della vita. Quando, di colpo, i cannoni tacquero, le bombe smisero di esplodere e subentrò il silenzio, restai perplesso, senza sapere come interpretarlo. Un adulto probabilmente l’avrebbe commentato dicendo: “L’inferno è finito, finalmente ritorna la pace”. Ma io ero troppo piccolo per ricordare che cosa fosse la pace: quando finì la guerra, conoscevo solo l’inferno.

I mesi passavano e la guerra era sempre presente. Continuavo a vivere in una città rasa al suolo, mi arrampicavo su cumuli di macerie, vagavo in un labirinto di rovine. Nella scuola che frequentavo mancavano porte, finestre e pavimenti: tutto bruciato. Non avevamo né libri né quaderni. E io ero sempre senza scarpe: la guerra come disagio, come bisogno, come peso, non ci aveva ancora lasciati. Continuavo a non avere una casa. Il ritorno a casa dal fronte è il simbolo più tangibile della fine di una guerra. Tutti a casa! Ma io non potevo, la mia casa adesso stava oltre frontiera, in un altro paese. Certe volte, dopo la scuola, andavamo a giocare a calcio nel parco vicino. Per rincorrere il pallone, uno dei miei compagni si infilò in un cespuglio. Si udì uno spaventoso boato e ci ritrovammo tutti per terra: il mio compagno era morto su una mina. La guerra era ancora in agguato, rifiutava di arrendersi. Zoppicava per le strade appoggiandosi alle stampelle, sventolava nell’aria maniche senza braccia. Torturava di notte i sopravvissuti, riapparendo negli incubi.

Ma, soprattutto, la guerra ci perseguitava perché aveva influito per cinque anni sui nostri caratteri in formazione, sulla nostra psiche e sulla nostra mentalità. Aveva cercato di deformarci e distruggerci attraverso gli esempi peggiori, inducendoci a comportamenti disonorevoli, suscitando sentimenti proibiti. “La guerra”, scriveva in quegli anni Boleslaw Micinski, “non solo deforma l’anima dell’invasore, ma avvelena con l’odio, e quindi deforma, anche l’anima di coloro che cercano di combatterlo”. E aggiungeva: “Odio il totalitarismo perché mi ha insegnato a odiare”. Sì: uscire dalla guerra significava purificarsi interiormente e, in primo luogo, purificarsi dall’odio.

Quando si parla del 1945, sono irritato dalle parole usate per definirlo: la gioia della vittoria. Quale gioia? Erano morte tante persone, avevamo sepolto milioni di corpi. Migliaia avevano perso le braccia e le gambe. La vista e l’udito. La ragione. Ogni morte è una tragedia. La fine di una guerra è sempre triste: si vince, ma a quale prezzo? La guerra è la dimostrazione che l’uomo, in quanto essere pensante e senziente, ha fallito, ha deluso se stesso, è stato sconfitto.

Quando si parla del 1945, mi torna in mente che nell’estate di quell’anno mia zia, uscita miracolosamente viva dall’insurrezione di Varsavia, ci portò in campagna, per farci vedere il figlio Andrzej, nato appunto durante l’insurrezione. Oggi è un uomo di mezz’età e ogni volta che lo vedo penso a quanto tempo è passato. Più di una generazione venuta al mondo da allora non sa che cosa significhi la guerra. Ma i sopravvissuti dovrebbero testimoniare. Testimoniare in nome di chi è caduto accanto a loro e spesso per loro. Testimoniare su che cosa furono i campi di concentramento, lo sterminio degli ebrei, la distruzione di Varsavia e di Wroclaw. Facile? No. Noi, che la guerra l’abbiamo vissuta, sappiamo quanto sia difficile descriverla a coloro che, per fortuna, non sanno cosa sia. Sappiamo che le parole tradiscono, che in fondo si tratta di cose incomunicabili e spesso ci sentiamo impotenti. Eppure, malgrado tutte le difficoltà e i limiti esistenti, bisogna parlare. Perché parlare di queste cose unisce, crea legami di comprensione e di comunità. I morti ci ammoniscono. Ci hanno trasmesso qualcosa di importante e noi dobbiamo sentirci responsabili. Ognuno di noi, nei limiti delle sue capacità, dovrebbe combattere tutto ciò che può portare alla guerra, al crimine, alla catastrofe. Noi, che abbiamo visto la guerra, sappiamo come comincia, da dove viene fuori. Sappiamo che non nasce solo dalle bombe e dai razzi ma anche, e forse soprattutto, dal fanatismo e dalla superbia, dalla stupidità e dal disprezzo, dall’ignoranza e dall’odio. Tutte cose di cui si alimenta e che la fanno crescere. Nello stesso modo in cui gli ecologisti combattono l’inquinamento atmosferico per colpa dei gas di scarico, dovremmo combattere l’inquinamento dei rapporti umani per colpa dell’ignoranza e dell’odio.

Quando si parla del 1945, penso a quelli che non ci sono più.

Quando si parla del 1945 penso al Faust di Goethe:

Si addormentano gli indomiti impulsi/ e il tempestoso agire/ E si ridesta l’amore degli uomini, l’amor di Dio si ridesta in cuore.

Magari fosse vero.

(Traduzione di Vera Verdiani)

Questo articolo è uscito il 22 aprile 2005 sul numero 587 di Internazionale.

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