02 gennaio 2019 15:16

Questo articolo è uscito il 4 settembre 2015 nel numero 1118 di Internazionale, a pagina 38. L’originale era uscito su The New York Times Magazine con il titolo The mixed-up brothers of Bogotá.

Un sabato d’estate del 2013 Janeth Páez e Laura Vega Garzón erano in giro per Bogotá alla ricerca di costolette di maiale per la grigliata di quella sera. Janeth ha proposto di fermarsi in un negozio di alimentari non lontano da dove abitava Laura, in un quartiere a nord della capitale colombiana. Sapeva che al banco della carne lavorava William, un cugino del suo fidanzato, un ragazzo molto gentile con un forte accento di campagna, che disossava con mano esperta bistecche di manzo e tagliava zampe di maiale che i suoi clienti adoravano mangiare bollite con i fagioli. Janeth era sicura che William le avrebbe fatto un buon prezzo per le costolette.

Entrata nel negozio, con sua grande sorpresa Laura ha visto qualcuno che conosceva: dietro al banco della macelleria c’era un suo collega della Strycon, lo studio di ingegneri dove lavorava. L’ha salutato con un ampio cenno della mano, ma lui l’ha ignorata. “Quello è Jorge!”, ha detto a Janeth. “Lavora nel mio ufficio”. Jorge era un simpatico ragazzo di 24 anni che lavorava due piani sopra al suo e progettava condutture di oleodotti. Per questo Laura era sorpresa di vederlo servire i clienti di quel negozio. ‘‘Ma no”, ha detto Janeth, “quello è William”. William era un gran lavoratore che non si allontanava mai dal bancone, se non per andare a dormire. Di sicuro non lavorava in uno studio di ingegneri. ‘‘No, è Jorge, lo conosco”, ha ribattuto Laura. Ma lui non rispondeva al suo saluto, e questo era strano. Qualche minuto dopo il ragazzo ha lasciato il bancone per salutare Janeth, che lo ha presentato alla sua amica come William. Laura era sbigottita: perché Jorge fingeva di essere qualcun altro? Forse, ha pensato, era imbarazzato perché era stato sorpreso a fare un secondo lavoro, con il grembiule insanguinato e il cappellino bianco. Janeth continuava a dirle che si sbagliava, ma Laura non era convinta. Per lei, credere che Jorge facesse finta di essere qualcun altro era quasi più facile che accettare l’idea che esistessero due persone che si somigliavano tanto. Non erano solo la carnagione e gli zigomi alti: la corporatura, i capelli, la forma della bocca e altre decine di dettagli contribuivano a quella perfetta somiglianza.

La copertina del New York Times Magazine. La foto è di Stefan Ruiz.

Il lunedì, in ufficio, Laura ha raccontato a Jorge dello strano incontro con il suo sosia al banco della carne. Jorge è scoppiato a ridere e le ha raccontato di avere un gemello, Carlos, ma molto diverso. All’epoca Jorge aveva già prove sufficienti per ritenere che la sua vita e la sua famiglia non fossero quello che pensava. Ma c’è un detto che Carlos – grande conoscitore di proverbi – a volte citava riferendosi a Jorge: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.

Un mese dopo si è liberato un posto nell’ufficio tecnico della Strycon e Laura ha consigliato a Janeth di farsi avanti. Janeth ha ottenuto il posto, e quando ha visto Jorge per la prima volta ha capito perché Laura fosse rimasta così sorpresa quel giorno in macelleria: gli stessi dolci occhi marrone chiaro, la stessa camminata molleggiata, con i piedi a papera, lo stesso sorriso smagliante. Non conosceva Jorge abbastanza bene da parlargli di quella strana somiglianza, ma qualche giorno dopo ha mostrato a William una foto di Jorge. William ha riso e l’ha mostrata ai colleghi della macelleria, archiviandola come una curiosa coincidenza.

Sei mesi dopo Janeth ha lasciato la Strycon per un altro lavoro, ma ogni volta che incontrava William si chiedeva se avrebbe dovuto dire a Jorge dell’esistenza del suo sosia. Quella domanda ha continuato a ronzarle in testa fino a quando, il 9 settembre del 2014, ha deciso di mandare a Laura un sms con una foto di William da mostrare a Jorge. Laura è salita al piano superiore, dove lavorava Jorge. Voleva vedere come avrebbe reagito. Sorridendo, Jorge ha dato un’occhiata al cellulare: “Sono io!”, ha esclamato, fissando quell’immagine.

William indossava una maglietta gialla della nazionale di calcio colombiana. Anche Jorge ne indossava spesso una uguale, e questo rendeva ancora più sorprendente la somiglianza tra i due. Jorge ha fermato un collega che passava vicino alla sua scrivania e gli ha chiesto un parere. “Dimmi cosa pensi di questa foto”, gli ha detto porgendogli il telefono. “Sei venuto bene”, gli ha risposto l’amico. “Peccato che non sono io”, ha ribattuto Jorge. Non riusciva a staccare gli occhi dal cellulare di Laura. Non riusciva a rimettersi al lavoro. Si è seduto con Laura nella cucina dell’ufficio, a parlare un po’. Forse suo padre, che non era mai stato molto presente in famiglia, aveva avuto un altro figlio a loro insaputa. Jorge ha cominciato a sfogliare sul suo telefono le foto della pagina Facebook di William. Ha trovato una foto di William che indossava il camice da macellaio e, con un certo imbarazzo, ha notato che somigliava a lui quando indossava il camice in laboratorio. Poi si è soffermato su un’immagine di William che teneva in mano un bicchierino da liquore, accanto a un amico.

Jorge si è spostato al computer per vedere meglio le immagini. Ha cliccato di nuovo sulla foto di William e del suo amico con il bicchierino in mano. Ora che l’immagine era ingrandita poteva vedere meglio quello che, incredibilmente, gli era sfuggito prima, guardando la foto sul telefonino. Si è chinato in avanti per guardare più da vicino, praticamente incollando il naso allo schermo. L’amico di William aveva i capelli dritti in una cresta e indossava una strana camicia, ma il carnoso labbro inferiore e i folti capelli castani erano inconfondibili per Jorge. I bottoni della camicia tiravano un po’ all’altezza della pancia, in un modo che gli era estremamente familiare. Dopo un attimo di confusione, Jorge ha sentito una stretta allo stomaco. L’amico seduto accanto al suo sosia aveva una faccia che Jorge conosceva meglio della sua: era la faccia di Carlos, il suo fratello gemello.

Jorge e Carlos
Dopo il lavoro, Jorge è andato a piedi alla piccola università dove frequentava dei corsi serali, continuando a sfogliare le foto sul cellulare. Finita la lezione, ha preso un autobus fino a casa: voleva raccontare a Carlos quello che gli era capitato. Quando erano piccoli, Carlos era il gemello che finiva per primo i compiti, Jorge era quello che li copiava. Ora se la cavavano bene entrambi: Carlos lavorava in uno studio di commercialisti di giorno e seguiva dei corsi universitari la sera. Il piccolo ma confortevole bilocale che dividevano in un quartiere borghese di Bogotá era più grande e confortevole della casa in cui erano cresciuti. La madre, una domestica, aveva tirato su i due ragazzi e la loro sorella maggiore, Diana, in una casa con una sola stanza di proprietà della nonna dei bambini. Non si erano mai considerati poveri: in quella casa erano riusciti a farci entrare anche un frigorifero e una tv, e le scuole pubbliche del quartiere erano ottime. Ma ora i tre fratelli avevano di più: Jorge poteva andare alle partite di calcio e Carlos in discoteca, e con la sorella rimpiangevano di non aver avuto il tempo di dare una vita migliore alla madre, morta per un cancro allo stomaco quattro anni prima.

Durante il viaggio in autobus Jorge cercava di decidere cosa dire esattamente a Carlos. Aveva già raccontato a Diana delle foto. “Non punzecchiarlo, però”, gli aveva consigliato la sorella.

A casa Jorge ha trovato il fratello al telefono con una ragazza, come al solito. Gli ha detto di riattaccare. “Lasciami in pace”, ha risposto Carlos. Era un classico: Jorge si divertiva a stuzzicarlo e a girargli intorno assillandolo, e Carlos brontolava. Più Carlos si arrabbiava, più Jorge si divertiva. Alla fine Carlos ha attaccato il telefono e Jorge ha deciso di affrontare l’argomento con leggerezza. Ha esordito con una domanda: “Cosa penseresti se ti dicessi che hai un gemello identico?”. Carlos non sembrava divertito.

Jorge ci ha riprovato: “Ti piacciono le telenovelas?”.

Il fatto che Carlos non somigliasse ai suoi fratelli era sempre stato evidente

Carlos cominciava a spazientirsi. Se Jorge aveva qualcosa da dirgli, avrebbe fatto meglio a tirarla fuori subito. Jorge ha fatto sedere Carlos davanti al computer in camera sua, e ha cominciato a mostrargli delle foto: quella di William con la maglietta della nazionale e poi le altre, scattate in macelleria. Carlos ha riso con lui, sbalordito dalla somiglianza. Ma poi Jorge ha aperto la foto di William insieme al sosia di Carlos, con il bicchierino da liquore in mano.

A differenza di Jorge, che vedendo quell’immagine aveva reagito avvicinandosi allo schermo per vedere meglio, Carlos è arretrato con un sussulto, come se qualcuno lo avesse spinto con forza premendogli una mano sul petto. “Chi sono, questi due?”, ha chiesto. Era furioso. Jorge gli ha raccontato quello che aveva saputo da Laura e Janeth. I due ragazzi nella foto erano cresciuti in una sperduta fattoria del dipartimento di Santander, una regione della Colombia del nord prevalentemente rurale, i cui abitanti erano considerati attaccabrighe e ossessionati dalle armi. Secondo le informazioni disponibili su Facebook erano nati nel 1988, alla fine di dicembre. Come Jorge e Carlos. Forse, ha detto Jorge, c’è stato uno scambio di bambini in ospedale tra due coppie di gemelli identici. Ma non ha detto cosa poteva significare. C’era la possibilità che lui e Carlos avessero madri diverse, che non fossero affatto gemelli e neanche parenti. Nessuno dei due, poi, aveva il coraggio di dire quello che entrambi sapevano: se c’era qualcuno che era capitato per caso nella loro famiglia, non poteva che essere Carlos.

Il fatto che Carlos non somigliasse a Jorge e a Diana era sempre stato evidente. I suoi fratelli avevano la stessa corporatura esile della madre, gli stessi zigomi, i suoi occhi. Lui era più alto e robusto, con un naso più grosso e le sopracciglia più folte. Il contrasto non era solo fisico: Carlos si era sempre sentito un po’ diverso dai suoi familiari, anche se preferiva considerarsi semplicemente indipendente. Da bambino non gli interessava giocare con la madre e i fratelli ai giochi di ruolo in cui dovevano recitare la loro parte per ore. Da quando la madre era morta, Carlos sentiva Diana molto meno spesso di Jorge. Era l’unico della famiglia che ci teneva a seguire la moda ed era anche l’unico che sapeva ballare. Jorge e Diana avevano sempre pensato che Carlos avesse preso dal padre, ma non potevano esserne certi perché non lo avevano conosciuto abbastanza.

Il senso di estraneità di Carlos, comunque, non aveva diminuito il suo attaccamento alla madre. L’aveva sempre adorata: era una donna forte, anche se non la si poteva certo definire severa. Quando Jorge e Carlos litigavano, li picchiava con una pantofola. Anche se non avevano molto denaro, aveva fatto in modo che ognuno dei suoi figli frequentasse una buona scuola e crescesse convinto di poter realizzare qualsiasi ambizione. Carlos le attribuiva il merito di tutto quello che era riuscito a fare fino ad allora.

Dopo aver visto le foto, Carlos ha spento il computer ed è rimasto in silenzio. Si è diretto verso la sua camera e ha chiuso la porta. Jorge lo ha seguito, dicendogli cose che avrebbero dovuto consolarlo: comunque sia andata, anche se uno di noi è stato scambiato, restiamo sempre fratelli. Ma Carlos sapeva che erano frasi fatte e questo lo faceva sentire ancora più solo. Quella notte non ha chiuso occhio. Non riusciva a capire: com’era possibile che sua madre non fosse la donna che lo aveva portato in grembo, che gli aveva dato la vita? Aveva già sofferto quando era morta e ora soffriva di nuovo, come se l’avesse persa un’altra volta. Si sentiva alla deriva, impotente, solo.

In fondo al corridoio, intanto, Jorge dormiva come un bambino.

William e Wilber

Il giorno dopo, William aveva da poco aperto la macelleria quando ha visto arrivare suo cugino Brian – il ragazzo di Janeth – per cominciare il turno di dodici ore. William, che in breve tempo era stato promosso direttore del negozio, era stato felice di assumere Brian, uno studente part time. Per molti versi si sentiva più vicino a lui che al suo fratello gemello, Wilber. Brian era cresciuto a Bogotá e, quando William era arrivato per la prima volta nella capitale, i due cugini avevano passato giornate intere a cuocere e a vendere tortine di mais, sotto la pioggia o con il caldo torrido, facendo ridere i clienti e ridendo tra loro. William e Wilber non erano mai riusciti a passare tante ore insieme senza darsi sui nervi. Quando Wilber aveva lavorato in macelleria, William s’infastidiva perché il fratello passava più tempo a pulire che a servire i clienti. E poi Wilber non riconosceva la sua autorità. Come se non bastasse, aveva un caratteraccio e non sapeva stare agli scherzi.

Mentre sistemavano il banco della carne, Brian ha raccontato a William che la sera prima Janeth gli aveva mostrato delle foto inquietanti di due ragazzi che somigliavano molto a lui e a Wilber. Divertito e incuriosito, William si è ricordato che Janeth gli aveva già mostrato la foto di un suo sosia qualche mese prima, ma ora la coincidenza sembrava ancora più strana. Ha inviato un sms a Janeth chiedendole di vedere le foto. Appena è arrivata la prima, William ha lanciato un urlo: “Oddio!”, ed è scoppiato a ridere. Forse, suggeriva Janeth nell’sms, da piccoli lui o suo fratello si erano ammalati ed erano stati portati da Santander a un ospedale di Bogotá. William ha contattato una zia che ha confermato quest’ipotesi: William era stato portato a Bogotá poco dopo il parto. I gemelli erano nati di 28 settimane e William aveva problemi di digestione. La zia ha detto che era stato curato all’ospedale Materno infantil.

William lo ha raccontato a Janeth, che ha deciso di contattare Jorge per chiedergli dove fosse nato. Se anche lui era stato partorito al Materno infantil, non c’erano dubbi: c’era stato uno scambio di bambini. Fino a quel momento William, come Janeth, si era divertito a guardare le foto e a mettere insieme le informazioni. Ma quel giorno è stato preso dall’angoscia. Si era sempre sentito diverso dalla sua famiglia e aveva sempre voluto cose diverse: qualcosa di più della vita in campagna. Ma non aveva mai preso in considerazione la possibilità di essere realmente diverso, di non appartenere a quella famiglia. Guardandosi intorno nella macelleria, riusciva a stento a servire i clienti ignari, i grossi tagli di carne sanguinolenta, il cugino preoccupato. È uscito dal negozio e si è diretto verso le scale che portavano al suo appartamento al terzo piano dello stesso edificio. Ha cominciato a mandare messaggi a Janeth per sapere se aveva ottenuto informazioni sul nome dell’ospedale.

Qualche minuto dopo è tornato di corsa in macelleria e ha mostrato a Brian un sms di Janeth. Effettivamente Jorge e Carlos erano nati al Materno infantil di Bogotá. “È confermato”, ha detto William. Poi si è seduto su una panca nel retrobottega ed è scoppiato a piangere. I pensieri gli si affollavano nella mente, uno più doloroso dell’altro. Era stato strappato al suo posto nel mondo. Era una persona scomparsa di cui nessuno aveva mai sentito la mancanza. Come lo avrebbe detto a sua madre? Dei sei figli, era lui quello che le spediva i soldi per mandare avanti la famiglia. Era lui che si preoccupava quando lei stava male e che, da piccolo, cercava di tirarla su quando era triste, soffocandola di baci e mordicchiandole le orecchie per farla ridere. Quella notizia, ne era certo, le avrebbe spezzato il cuore. Stava già spezzando il suo.

William era stato brusco con sua madre una sola volta, qualche anno prima. Aveva appena finito il servizio militare, durante il quale si era distinto tra i 92 soldati del plotone vincendo una borsa di studio in un corso per sottufficiali. Era una grande opportunità per studiare e fare carriera, ma alla fine l’esercito non aveva potuto assegnargli la borsa di studio perché non aveva un diploma: i suoi genitori lo avevano ritirato dalla scuola quando aveva dodici anni. “Dovevate lasciarmi finire gli studi!”, aveva urlato alla madre quando abitava ancora con lei, nel dipartimento di Santander. Ma il liceo più vicino, all’epoca, era a cinque ore di strada a piedi, e la famiglia avrebbe dovuto pagargli un alloggio, più i soldi per la retta e la divisa scolastica. Nonostante questo, William pensava che sua madre avrebbe dovuto trovare un modo, inventarsi qualcosa, battersi per trovare una soluzione.

Piangendo sulla panca, William provava la prima ondata di sentimenti che sarebbe riuscito ad articolare solo con il passare del tempo: il senso di colpa e i timori di sua madre; la mancata occasione di crescere e studiare a Bogotá invece di lavorare nei campi; il dolore per essersi sempre sentito così diverso dal resto della famiglia. Una famiglia che lo amava, ma al tempo stesso lo prendeva in giro per quel suo disagio. Seduto vicino a lui c’era Brian, esterrefatto, che non sapeva cosa dire. Dopo circa dieci minuti, William ha smesso di piangere e si è alzato. Il lavoro veniva prima di tutto. Rientrati in macelleria, lui e Brian si sono messi a pulire il bancone e a riporre gli utensili, aspettando i clienti.

Poi William ha inviato un sms a Wilber, che quel giorno lavorava in un’altra macelleria, e gli ha detto di raggiungerlo al più presto. Quando il fratello è arrivato, qualche ora dopo, William gli ha detto che doveva mostrargli una cosa, e ha cliccato su una foto di Jorge e Carlos sul suo cellulare. A differenza di tutti gli altri, Wilber ha capito al volo la situazione. “Quindi siamo stati scambiati”, ha detto scrollando le spalle, infastidito dal tono grave e dall’importanza che William sembrava attribuire alla foto. “A me non interessa chi siano quei due. Tu sei mio fratello, e resterai mio fratello fino alla morte”.

Faccia a faccia
A volte – poche ore dopo il concepimento, ma anche molti giorni dopo – le forze che tengono unite le cellule in divisione in qualche modo cedono. Invece di restare strette in una massa coerente che alcuni mesi dopo formerà una persona, le cellule si separano formando due entità distinte, ognuna con le sue cellule in rapida divisione, separate ma uguali: ogni nucleo di ogni cellula contiene un identico dna. I gemelli omozigoti cominciano la loro vita per puro caso, per l’effetto prodigioso di un malfunzionamento sistemico. La formazione dei gemelli eterozigoti è molto più banale: due spermatozoi incontrano due ovociti diversi da cui si generano due diversi individui. I gemelli eterozigoti non si somigliano più di due fratelli qualsiasi. L’unica differenza è la simultaneità: sono concepiti e nascono più o meno contemporaneamente. Ognuno dei quattro ragazzi di Bogotá era stato cresciuto come un gemello eterozigote, un individuo a sé stante. Ora si rendevano conto che, in realtà, ognuno di loro era il gemello omozigote di una coppia di neonati. Prima ancora di incontrarsi, ognuno di loro, senza saperlo, si stava schierando dalla parte del fratello con il quale aveva condiviso l’utero. Carlos e Wilber avevano un atteggiamento prudente e pensavano che la storia non andasse approfondita ulteriormente: chissà quali problemi avrebbero potuto creare quegli estranei. William e Jorge, invece, erano aperti alla possibilità di un incontro. A poche ore dalla rivelazione, Janeth aveva fissato un appuntamento tra William e Jorge in una piazza della città per le nove di quella sera, dopo la chiusura della macelleria.

Inizialmente restio a incontrare gli altri fratelli, Wilber aveva continuato a guardare le foto, sempre più incuriosito. E ora voleva andare anche lui. Verso le tre del pomeriggio, William ha parlato per la prima volta con Jorge e gli ha chiesto se poteva portare Wilber, oltre a Janeth e Brian. Si è sentito sollevato quando Jorge gli ha detto di sì. Entrambi hanno notato che le loro voci non si somigliavano. Quella di William era più rauca, e parlava con l’accento del nord della Colombia. William, poi, si era rivolto a Jorge chiamandolo señor, un’abitudine tipica della gente di campagna. A Jorge era piaciuta la voce di quel ragazzo: non sembrava solo gentile, ma anche buono.

Non m’interessa di l0ro. Sei mio fratello,e resterai mio fratello fino alla morte

Più si avvicinava l’ora dell’incontro, più William diventava silenzioso. Appena uscito dal lavoro è andato dal barbiere a tagliarsi i capelli. Si è infilato il suo maglione migliore, nero a strisce grigie, e si è allacciato la fondina con la pistola che indossava abitualmente da quando aveva fatto il militare. Camminava avanti e indietro, nervosamente. Dall’altra parte della città, anche Jorge era agitato. Aveva chiesto a suo fratello di andare con lui, ma Carlos aveva un appuntamento con una ragazza e non voleva annullarlo. Per strada Jorge ha incontrato un compagno dell’università e gli ha chiesto di accompagnarlo, per avere un supporto morale. All’ora dell’appuntamento, in piedi in mezzo alla piazza, Jorge si è guardato intorno. Aveva le palme delle mani umide e non riusciva quasi a respirare a causa del senso di oppressione al petto. Pochi minuti dopo ha visto venire verso di lui un gruppetto di persone. Eccolo, William: la sua stessa faccia, la stessa camminata molleggiata con i piedi a papera. Brian ha filmato l’incontro con il cellulare.

A volume spento, senza il chiacchiericcio imbarazzato, il video mostra Jorge e William impegnati in quella che appare come una specie di pantomima ritualizzata e accuratamente coreografata. Quando William fissa Jorge, Jorge distoglie lo sguardo. A quel punto anche William si gira come per dare a Jorge la possibilità di fissarlo, cosa che Jorge fa, squadrandolo dalla testa ai piedi. C’è un momento di sconvolgente intimità quando i loro sguardi si incrociano per un istante. Si sorridono, poi guardano entrambi da un’altra parte. Mentre continuano a lanciarsi occhiate a vicenda sembrano due innamorati che stanno per confessarsi, per la prima volta, la loro reciproca infatuazione. Tornato in sé, Jorge comincia a guardare William in modo più obiettivo, masticando energicamente una gomma americana. A un certo punto si porta un dito alla guancia e lo preme contro la carne: “Sì, questo sono io”. Quella persona lì è lui. In silenzio, William sposta il peso sulle gambe, dando l’impressione di ondeggiare da una parte all’altra.

Naturalmente per Jorge era più facile guardare Wilber, il sosia di Carlos. Lo fissava, scuotendo la testa. Wilber aveva visto delle foto di Carlos con gli occhiali. “Mi mancano solo gli occhiali!”, ha detto Wilber, lasciandosi sfuggire una risatina. Jorge ha avvertito di nuovo quel senso di oppressione al petto: era la risata di Carlos. Avendo visto quanto William somigliava a Jorge, ora Wilber era ansioso di conoscere Carlos. Jorge ha chiamato il fratello per dirgli che stavano arrivando, e il gruppetto si è infilato in un taxi, diretto all’appartamento di Jorge e Carlos.

Verso le dieci, Carlos ha sentito suonare il campanello. È andato alla porta, ma si è bloccato. Non aveva il coraggio di aprire. Sapeva che erano Jorge e i due ragazzi della foto. E quei due ragazzi non erano semplici sconosciuti: erano protagonisti di una storia della sua vita di cui lui non sapeva niente. ‘‘Apri la porta”, gli ha ordinato Jorge. Carlos ha sentito una risatina: era la sua, ma non veniva da lui, o forse sì. “Non voglio”, ha risposto Carlos. “Ho paura”. I minuti passavano e a un certo punto c’erano Carlos che rideva nervosamente da una parte e Wilber che rideva dall’altra. “Carlos, apri!”, gli ha ripetuto Jorge. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia, ripeteva spesso la loro madre. Carlos ha aperto la porta e il gruppo è entrato in casa, come una processione in un sogno. C’era Jorge con il suo sosia, che era Jorge con uno strano maglione, Jorge ma più silenzioso, Jorge ma senza la sua sicurezza. C’erano anche una donna e un altro tizio. E poi c’era lui: Carlos aveva di fronte se stesso, una versione alterata di se stesso, una buffa fotocopia, uno scherzo, un incubo.

Carlos ha guardato Wilber, la propria immagine allo specchio. Dopo essersi lanciati un’occhiata, hanno esclamato insieme: “Oh!” e si sono girati di spalle, coprendosi gli occhi e arrossendo entrambi. Wilber ha cominciato a parlare, ma Carlos faceva fatica a capire quello che diceva. In alcune parole usava la d dura al posto della r arrotata. Il difetto di pronuncia. Carlos ne aveva avuto uno da piccolo, ma l’aveva curato con la logopedia. Tutti e quattro si sono messi a fare confronti e a porsi domande per individuare i caratteri comuni dei gemelli omozigoti. Chi erano i frignoni di casa? Carlos e Wilber! Chi erano i donnaioli? Carlos e Wilber! Chi erano i più forti? Jorge e William!

Eppure, mentre Jorge scopriva un numero sempre maggiore di somiglianze con William, Carlos cercava ancora le differenze tra lui e il suo sosia campagnolo. “Guarda le nostre mani”, diceva. “Non sono uguali”. Quelle di Wilber erano più grandi e più gonfie, segnate dalle cicatrici lasciate dai coltelli della macelleria e dai machete usati nei campi. Carlos, invece, si faceva fare spesso la manicure e portava uno smalto chiaro sulle unghie, come fanno tanti colombiani della classe media.

William ha chiesto a Jorge della madre biologica. Com’era? Dov’era? Guardandolo negli occhi e studiando la sua espressione, Jorge ha detto a William che la loro madre era morta di cancro quattro anni prima. Gli ha mostrato una foto di lei da giovane: capelli lunghi tenuti indietro con un fermaglio, bellissimi occhi e un’espressione seria e gentile. Fissando la foto, William ha sentito un’altra fitta di dolore e per diversi minuti è rimasto in silenzio. Per buona parte della serata, l’atmosfera nell’appartamento era stata positiva e concitata. I ragazzi si erano divertiti a scoprire le somiglianze, più facili da individuare delle differenze. Ma aleggiava un profondo sentimento di perdita: il tempo perso con i genitori e i fratelli, le occasioni mancate, gli anni perduti. Jorge sembrava deciso a tenere a bada quei sentimenti, almeno per il momento. “Tutto quello che è successo”, ha detto agli altri, “è che le nostre famiglie si sono allargate”. Qualcuno, allora, ha chiesto ad alta voce: “Squadra di calcio preferita?”. E tutti e quattro hanno urlato il nome della stessa squadra: ‘‘Atletico Nacional!’’. Verso mezzanotte si sono salutati promettendosi di rivedersi presto. Jorge e Carlos sono rimasti a guardarsi nel salotto vuoto. Era tutto uguale, ma era cambiato tutto. “E ora che facciamo?”, ha chiesto Carlos. Jorge si è accorto che Carlos aveva cominciato a piangere. Carlos è andato da Jorge e lo ha abbracciato stretto: “Voglio essere tuo fratello”.

Quando due sono come uno
Non è facile spiegare l’esistenza dei gemelli omozigoti da un punto di vista evolutivo. I gemelli eterozigoti, se non altro, hanno il vantaggio della diversità genetica, che aumenta le possibilità che almeno uno dei due possa sopravvivere se entrambi si ammalano. Eppure, nella loro totale inspiegabilità, i gemelli omozigoti ci hanno aiutato a capire come e perché diventiamo quello che siamo. In media i gemelli omozigoti condividono il 50 per cento dei geni. Studiando la concordanza dei tratti genetici per oltre un secolo, i ricercatori hanno cercato di determinare quanta parte della variazione all’interno di una popolazione sia dovuta all’ereditarietà e quanta all’ambiente. “I gemelli dovrebbero essere al centro della nostra attenzione”, scriveva Francis Galton, lo studioso britannico che per primo, alla fine dell’ottocento, confrontò i gemelli molto somiglianti con quelli diversi.

Cugino di Darwin e famoso per aver coniato il termine “eugenetica”, Galton è ricordato anche per i suoi studi innovativi sui gemelli. Il suo successore scientifico, il dermatolgo tedesco Hermann Werner Siemens, condusse nel primo novecento degli studi sui gemelli che si sono rivelati straordinariamente simili a quelli che si fanno oggi. Ma arrivò a conclusioni che per decenni hanno inquinato il filone di ricerca di cui era stato pioniere, sostenendo gli argomenti di Hitler a favore dell’“igiene razziale”. Ricercando le origini genetiche dei caratteri che consideravano desiderabili o indesiderabili, questi ricercatori percorrevano una strada pericolosamente vicina a quella del perseguimento di una razza superiore.

Nonostante questi casi discutibili, gli studi sui gemelli sono proliferati. Secondo una meta-analisi condotta dalla ricercatrice olandese Tinca Polderman e dall’australiano Beben Benyamin e pubblicata sulla rivista Nature Genetics, negli ultimi cinquant’anni sono stati studiati circa 17mila tratti genetici. Polderman e Benyamin sostengono di avere rilevato un’influenza genetica su cose diverse come il possesso di armi, l’omosessualità, la soddisfazione professionale, il consumo di caffè, il rispetto della legge e l’insonnia. In pratica, hanno scoperto che i test sui gemelli omozigoti danno risultati molto più simili dei test sui gemelli eterozigoti. Gli studi confermano l’influenza dei geni su quasi ogni aspetto della nostra esistenza (una conclusione così radicale che, secondo alcuni studiosi, potrebbe indicare un errore metodologico). “Qualsiasi cosa è ereditabile”, dichiara Eric Turkheimer, un genetista comportamentale dell’università della Virginia.

I gemelli monozigoti ci aiutano a capire come e perché diventiamo quello che siamo

La branca più affascinante della ricerca sui gemelli è senza dubbio quella che riguarda una piccola e insolita classe di soggetti: i gemelli omozigoti cresciuti separatamente. Thomas Bouchard, uno psicologo dell’università del Minnesota, ha cominciato a studiarli nel 1979, quando è venuto a conoscenza del caso di Jim e Jim, due gemelli dell’Ohio che si erano ritrovati all’età di 39 anni. Da allora Bouchard ha studiato più di ottanta coppie di gemelli omozigoti cresciuti separatamente, confrontandole con coppie di omozigoti cresciuti insieme, eterozigoti cresciuti insieme ed eterozigoti cresciuti separatamente. E ha scoperto che in quasi tutti i casi i gemelli omozigoti – indipendentemente dal fatto che fossero cresciuti insieme o separatamente – si somigliavano di più, rispetto alle loro controparti eterozigoti, in caratteri come la personalità e soprattutto l’intelligenza. La sua ricerca l’ha portato anche a una conclusione imprevista: l’ambiente comune – i genitori, per esempio – incide poco sulla personalità. I fattori genetici e le esperienze straordinarie (un semestre all’estero, un’amicizia importante) incidono molto di più.

Da un punto di vista strettamente scientifico, gli studi sui gemelli hanno suscitato alcune perplessità. Di solito analizzano gemelli volontari o scoperti attraverso i mezzi d’informazione, che in genere preferiscono occuparsi di gemelli omozigoti molto somiglianti. I gemelli omozigoti che non si somigliano molto, naturalmente, sono più difficili da individuare, e quindi è anche più difficile farli ricongiungere. Inoltre sono pochi gli studi sui gemelli, cresciuti insieme o separatamente, che abbiano incluso coppie gemellari provenienti da ambienti molto diversi. “Ogni studio ha i suoi detrattori”, osserva Nancy Segal, docente alla California state university di Fullerton, che ha lavorato con Bouchard dal 1982 al 1991. “Ma studiare i gemelli cresciuti separatamente aiuta a distinguere tra effetti genetici ed effetti ambientali sul comportamento molto meglio di qualsiasi altro progetto di ricerca che conosca”. Segal studia i gemelli cinesi dal 2003.

Nell’ottobre del 2014 Yesika Montoya, una psicologa colombiana che lavora come assistente sociale alla Columbia university, ha visto su Facebook un video tratto dal programma tv colombiano Séptimo día sui quattro ragazzi di Bogotá, in cui si dava la notizia che il test del dna aveva confermato che appartenevano a due coppie di gemelli omozigoti. Per prima cosa Montoya ha contattato Segal, che conosceva solo di fama. Poi ha rintracciato i ragazzi, che hanno accettato di diventare l’oggetto della sua ricerca. Per quanto affascinanti, le due coppie di gemelli rappresentavano un campione molto ridotto. Ma per Segal erano una possibilità unica ed esaltante. In nessun’altra famiglia di cui fosse a conoscenza c’erano così tanti tipi di abbinamenti da analizzare e confrontare: Jorge e Carlos, Jorge e William, Jorge e Wilber e così via. “È un esperimento nell’esperimento”, ha detto.

I gemelli sapevano che per partecipare alla ricerca avrebbero dovuto sottoporsi a diverse interviste nel corso di una settimana del mese di marzo, e trascorrere ore chiusi in una sala riunioni a compilare questionari. Avrebbero dovuto rispondere a domande sulle loro case, le loro vite e il loro grado d’istruzione, e sottoporsi a una serie di test d’intelligenza e di personalità. Segal ha detto ai gemelli che intendeva scrivere un libro su di loro, e i ragazzi ne erano entusiasti. William ha posto un’unica condizione: voleva che Segal e Montoya visitassero la casa in cui era cresciuto, nel dipartimento di Santander. Era convinto che altrimenti non avrebbero mai potuto capire veramente chi era. Ma c’era una cosa che lo preoccupava: se le due ricercatrici avessero saputo quanto tempo ci voleva per arrivare nel suo paese non avrebbero mai accettato di andarci. Così, ogni volta che saltava fuori l’argomento del viaggio era piuttosto evasivo. Il viaggio in macchina durava quattro o cinque ore, diceva. Poi aggiungeva, quasi distrattamente, che a un certo punto la strada terminava e bisognava proseguire a piedi. Per quanti chilometri? Per un po’, rispondeva. E il terreno poteva essere fangoso. A quel punto William ha detto che Segal avrebbe fatto meglio a proseguire a cavallo. Segal, una donna di sessan’tanni cresciuta nel Bronx, ha risposto di no.

L’importanza della volontà

Verso le nove e mezza di mattina del 29 marzo, tre auto sono entrate a La Paz, una polverosa cittadina colombiana attraversata da poche strade sullo sfondo di incredibili paesaggi andini. Il gruppo – Segal, Montoya, le due coppie di gemelli, i traduttori e un assortimento di amici e parenti – era già in viaggio da sei ore e si è fermato a consumare una colazione a base di brodo di ossa e cioccolato caldo in un bar del posto. Jorge e William si sono seduti vicini, a un lato di un tavolo, mentre Carlos si è seduto di fronte a loro. Wilber ha preso posto vicino a Segal e Montoya. Mentre tutti facevano colazione, Carlos ha tirato fuori il telefono e ha aperto una foto di lui e Jorge. “Io voglio bene a mio fratello, anche se glielo dimostro solo quando sono ubriaco”, ha detto. “Visto?”. Nella foto, Carlos protendeva le labbra in avanti stampando un grosso bacio sulla guancia di Jorge. William guardava Carlos, infastidito, pensando che anche Wilber era fatto così: gli manifestava il suo affetto solo in rarissime occasioni, per esempio quando pensava che uno di loro due potesse morire. Avevano fatto il servizio militare nello stesso plotone, e quando entravano in una zona particolarmente pericolosa Wilber gli diceva sempre, pallido in viso: “Che Dio sia con te, fratello mio. Ti voglio bene”. William sapeva che Wilber gli voleva bene, ma sia lui sia Jorge avrebbero desiderato che i fratelli con cui erano cresciuti fossero stati più presenti e affettuosi, come lo erano oggi l’uno con l’altro: spesso la sera William e Jorge si chiamavano prima di addormentarsi, solo per darsi la buona notte.

I quattro ragazzi ormai si conoscevano bene. Negli ultimi sei mesi si erano visti spesso, avevano mangiato insieme, parlato di donne, famiglia, soldi, valori. Per settimane ognuno aveva guardato il fratello identico con lo stesso stupore misto a sgomento. Avevano calcolato, valutato e indagato. Si erano messi in piedi, schiena contro schiena, per confrontare le altezze: quelli cresciuti in città erano più alti di quelli che venivano dalla campagna. Carlos aveva battuto Wilber in una gara a chi mangiava di più, e William aveva sbaragliato tutti a braccio di ferro. Sugli spalti dello stadio, durante una partita di calcio, Carlos aveva visto William infilarsi una mano nei jeans per grattarsi il fondoschiena, ed era rimasto a bocca aperta: Jorge faceva la stessa cosa. Una sera a cena Jorge aveva notato che Carlos e Wilber mangiavano chini sui piatti nella stessa strana posizione. Jorge trovava naturale correggere con delicatezza gli errori grammaticali del suo gemello, e Carlos prendeva molto sul serio doveri fraterni come insegnare a Wilber ad avvicinare una bella ragazza di Bogotá in un bar, o a bere d’un fiato un bicchierino di tequila.

I gemelli di Santander non si capacitavano del fatto che i loro fratelli di città non avessero mai usato un’arma da fuoco. Una lacuna a cui hanno rapidamente rimediato durante una visita in campagna.

Carlos si è sentito subito a suo agio con il gemello ritrovato. Quando parlava a Wilber della sua vita amorosa, lui non gli diceva sempre quello che doveva fare, come Jorge: lo stava a sentire e lo sosteneva. Si capivano al volo: l’orgoglio virile di fronte alle ragazze, gli scatti di rabbia quando i rispettivi fratelli li stuzzicavano. Ma al tempo stesso Carlos era anche un po’ infastidito da Wilber. L’esistenza stessa del suo gemello metteva in crisi un’idea a cui era affezionato: quella della sua unicità. Crescendo così diverso dagli altri componenti della famiglia aveva imparato a sentirsi orgoglioso della sua individualità. Ora, come gemello identico, faceva parte di un raro sottogruppo di esseri umani la cui replicabilità era sfacciatamente evidente.

Carlos non pensava certo di aver trovato la sua perfetta metà, anzi si sentiva più solo che mai. Vedeva Jorge scivolare sempre di più verso William. Ora Jorge e William indossavano le stesse scarpe da ginnastica e portavano entrambi il pizzetto. Nei fine settimana Jorge andava spesso alla macelleria di William e si metteva dietro il bancone a servire i clienti, per poter passare un po’ di tempo con il gemello. A volte restava a dormire nel piccolo appartamento di William e Wilber. Era una fortuna – pensava Carlos con uno strano senso di sollievo – che tutto questo fosse successo dopo che la madre era morta: la gelosia che avrebbe provato vedendola abbracciare William sarebbe stata insopportabile.

Carlos sapeva che Jorge percepiva la sua tristezza, e che avrebbe voluto aiutarlo. Ma ogni volta che cercavano di parlarne ricadevano nei vecchi schemi che irritavano entrambi. Carlos aveva la sensazione che Jorge sminuisse le sue preoccupazioni; Jorge, da parte sua, si sentiva frustrato dal fatto che niente di quello che diceva riusciva ad alleviare il senso di isolamento di Carlos. Ma ci provava lo stesso. Circa sei settimane dopo l’incontro dei fratelli, Jorge ha chiesto a Carlos di dargli una sua foto. È andato in un negozio di tatuaggi. È rimasto seduto per quattro ore mentre il suo tatuatore preferito gli disegnava sul petto il viso di suo fratello, a pochi centimetri da quello della madre che si era fatto tatuare all’altezza del cuore tempo prima. Tornato a casa, si è alzato la camicia mostrando a Carlos il risultato, con la pelle ancora gonfia e sanguinante per la violenza dell’ago. Era il regalo più bello che gli avessero mai fatto, ha pensato Carlos con le lacrime agli occhi. Un regalo che è riuscito a fargli ritrovare un po’ di serenità.

Ma durante quel viaggio a La Paz, seduti al tavolo della colazione, Carlos ha avuto la sensazione che Jorge avesse ricominciato a provocarlo. Aveva appena messo via quella foto sul cellulare quando Jorge ha tirato fuori un discorso delicato che avevano già affrontato tante volte a casa: che persona sarebbe diventata Carlos se fosse cresciuto nel Santander? “Dai, Carlos”, ha detto Jorge, “guardati intorno. Credi davvero che se fossi cresciuto qui saresti diventato un commercialista o anche solo un professionista?”. Carlos si rifiutava di dargli ragione. Chi poteva sapere che non avrebbe trovato il modo di studiare, prendersi un diploma e lavorare nello stesso studio dov’era da poco stato promosso? William non diceva niente, ma sembrava impietrito. Chi poteva sapere – si chiedeva Carlos – quanto può portarti lontano la forza di volontà? William ne aveva tanta, di forza di volontà, e aveva cercato di esprimerla in tutti i modi, pur di essere ammesso a quel corso per sottufficiali. Si era trasferito a Bogotá per finire gli studi superiori e diplomarsi. Era riuscito a superare l’esame, ma con un voto basso: otto mesi di scuola non erano riusciti a compensare tanti anni di studio persi. Era finito nella lista d’attesa, ma non si era scoraggiato. Aveva fatto le valigie ed era partito da Bogotá in autobus per raggiungere la caserma. Appena arrivato, un ufficiale in comando lo aveva riconosciuto. “Chi la dura la vince”, gli aveva detto. Grazie alle sue conoscenze, l’ufficiale era riuscito a farlo ammettere al corso, ma dall’esame del suo fascicolo era emerso che William era già stato congedato e risarcito dall’esercito per una malattia contratta durante il servizio militare, e il risarcimento lo rendeva non idoneo al reintegro. Non c’era più niente da fare: non sarebbe mai diventato un sottufficiale. Era finita. Doveva tornarsene a casa. Ma l’ufficiale in comando non aveva detto che “chi la dura la vince”? Per cinque giorni William era rimasto nei paraggi della caserma, continuando a frequentare gli altri soldati. Sperava che in qualche modo le cose si sarebbero risolte. Ma, soprattutto, non trovava la forza di andarsene. Partire significava arrendersi. Il sesto giorno, un ufficiale amichevole ma armato lo aveva accompagnato alla stazione degli autobus e lo aveva messo personalmente su un mezzo diretto a Bogotá.

Carlos non conosceva questa storia. Non sapeva che a sei anni William si faceva cinque ore di cammino a piedi, con sua madre, per andare a La Paz a fare la spesa. Si fermavano la notte da una signora gentile che li ospitava in città, e il giorno dopo ripartivano a piedi per tornare a casa con i sacchi della spesa sulle spalle. Carlos non poteva neanche sapere quante ore aveva passato William da ragazzo a tagliare canna da zucchero con il machete, con la pelle che si spaccava per il caldo e per le piante urticanti, e trasportando 25 chili di canna da zucchero ogni volta. Un lavoro meccanico, doloroso, estenuante. Carlos aveva trascorso quegli stessi anni – e questo William lo sapeva – flirtando con le ragazze di un ottimo liceo pubblico, giocando a basket con gli amici e accumulando punti a un videogame di cui William non conosceva neanche il nome.

Carlos aveva torto, William ne era certo. A volte la forza di volontà non basta. Se fosse cresciuto nel dipartimento di Santander, Carlos non sarebbe diventato un commercialista in carriera. E il fatto che insistesse a dire il contrario per William era un insulto alla sua vita di stenti. Una vita che, oltretutto, aveva vissuto al posto suo.

Città e campagna

Dopo colazione le auto hanno lasciato La Paz e hanno proseguito il viaggio su strade tortuose disseminate di sassi e sotto gallerie di foglie di palma e di felci. Alla fine, verso le 11.30, la carovana si è fermata vicino a un tendone in un campo. Tutti i passeggeri sono scesi dalle auto: era ora di proseguire a piedi. Segal aveva con sé un trolley viola che conteneva materiale utile per il lavoro di ricerca e le interviste con i parenti di William e Wilber.

Il sentiero attraversava un grande prato e proseguiva lungo un ripido pendio. Dopo pochi minuti si camminava nel fango: un fango denso, argilloso, che in alcuni tratti raggiungeva il mezzo metro di profondità. Carlos, sempre vestito in modo impeccabile, avanzava con circospezione. Ma le sue scarpe da basket Adidas non ci hanno messo molto a riempirsi di fango. Era in difficoltà emotivamente, oltre che fisicamente. Era già stato due volte a Santander, dopo il ricongiungimento: una volta per il compleanno di tutti e quattro i fratelli a La Paz, e un’altra per incontrare i suoi genitori biologici, José del Carmen Cañas (detto Carmelo) e Ana Delina Velasco, nella casa in cui ora vivevano. Ma si era sempre sentito a disagio. William pensava che era stato sgarbato con i componenti della sua famiglia allargata, che cercavano solo di essere gentili con lui. Ma erano troppi – gente del posto, cugini, conoscenti – e ognuno di loro voleva una foto o un abbraccio o qualche altro segno di affetto che Carlos non riusciva a dargli. Come poteva conoscere i suoi genitori biologici se c’era sempre tanta gente intorno? Quando aveva incontrato Carmelo e Ana per la prima volta, nel piccolo appartamento di William e Wilber, nella stanza con loro c’era anche la troupe di un programma televisivo colombiano. Abbracciandolo, i genitori avevano pianto. Carlos si era commosso quando Carmelo gli aveva stretto le braccia al collo: non aveva mai conosciuto veramente suo padre, che era morto poco dopo sua madre. Ma di fronte alle lacrime di Ana era rimasto freddo, distaccato. Lui ce l’aveva avuta una madre, un’ottima madre. “Non piangere”, aveva detto ad Ana. “È la volontà di Dio”.

Era mezzogiorno nel dipartimento di Santander. Carlos è andato incontro a Carmelo sorridendo, e lo ha abbracciato teneramente. Ma poi è calato il silenzio: nessuno dei due sapeva cosa dire. A pochi passi c’era William, che guardava Carlos e suo padre. William sembrava immacolato, a eccezione di un po’ di fango sugli stivali. Per l’occasione, indossava una camicia viola con i bottoncini al colletto. Carlos, invece, portava un berretto da baseball nero con il simbolo di Batman, una maglietta senza maniche e un paio di occhiali da sole. Non ha fatto in tempo a riprendere fiato, che William gli ha dato un colpetto sulla nuca: “Togliti quel berretto e gli occhiali”, gli ha detto. “Cerca di esserci veramente”.

Carlos guardava Jorge muoversi con naturalezza tra la gente e ingraziarsi la famiglia di William e Wilber, cosa che lui non riusciva a fare. Era ancora indispettito dalla conversazione che avevano avuto a colazione. Sembrava che Jorge si aspettasse da lui un gesto eclatante, voleva che dicesse quanto era stato fortunato nello scambio e quanto sarebbe stata più dura la sua vita se fosse cresciuto in questo posto. Non che Carlos non si fosse mai chiesto quale sarebbe stato il suo destino se fosse stato cresciuto dalla sua famiglia biologica. Due dei fratelli di William e Wilber erano morti molto giovani, uno per un colpo d’arma da fuoco e l’altro in un’imboscata durante il servizio militare. Forse oggi non sarebbe neanche stato vivo, se fosse cresciuto lì. Forse a Bogotá era più facile diventare persone perbene. Forse se fosse cresciuto a Santander sarebbe entrato nella guerriglia. Sapeva che il suo successo professionale non sarebbe stato affatto scontato in quella vita, e si chiedeva anche se il suo carattere avrebbe retto a tante avversità. Ma non avrebbe mai detto quelle cose a colazione, e davanti a tutta quella gente. Non era il tipo.

Il mito dei gemelli omozigoti

Nel momento in cui uno spermatozoo penetra nell’ovocita, quello zigote unicellulare diventa una cosiddetta cellula totipotente. Ha in sé il potenziale di un’arcata sopraccigliare, di un muscolo cardiaco, della forza elettromagnetica di un neurone. Ha in sé il minuzioso manuale d’istruzioni che guiderà la costruzione e la regolazione di ogni fibra del corpo. Ma non appena quell’unica cellula si divide in due, immediatamente si spengono delle luci e si riducono delle potenzialità. Perché quella singola cellula diventi un pezzetto di cuore e non il pelo di un sopracciglio, devono chiudersi una o più vie di segnalazione genetica. Il risultato è la differenziazione, un processo continuo di selezione che consente la costruzione di complessi universi biologici. Ogni volta che un gruppo di cellule si divide, ognuna di loro diventa più somigliante a una cosa e più diversa da un’altra.

Quando l’embrione ha cinque o sei giorni di vita – cioè quando avvengono buona parte delle separazioni gemellari – alcune di quelle cellule vanno a un gemello e alcune all’altro, in modo casuale. Questo significa, come sostiene Harvey Kliman, che dirige il progetto di ricerca su placenta e riproduzione dell’università di Yale, che l’espressione di alcuni geni in uno dei futuri gemelli sarà con ogni probabilità leggermente diversa dall’espressione dei geni nell’altro. Dal momento in cui si separano, i gemelli omozigoti possono avere una diversa epigenetica, un termine che si riferisce al modo in cui i geni vengono letti ed espressi a seconda dell’ambiente. Fin dall’inizio i gemelli omozigoti sono prodotti diversi di uno stesso ambiente, laddove per ambiente si intendono le condizioni uterine che li hanno resi esseri separati.

L’osservatore casuale resta immediatamente affascinato dalla somiglianza di due gemelli omozigoti, ma alcuni genetisti sono più interessati a individuare le ragioni per cui possono essere diversi, a volte anche in modo significativo. Perché un gemello può essere gay o transgender e l’altro no? Perché i gemelli omozigoti, nati con lo stesso dna, a volte muoiono di malattie diverse in momenti diversi della loro vita? Devono essere diversi gli ambienti, certo, ma qual è lo specifico aspetto ambientale che ha spinto la loro biologia in una direzione diversa? Fumo, stress, obesità: questi sono alcuni dei fattori che i ricercatori sono stati in grado di collegare a specifiche modificazioni nell’espressione di specifici geni. E, con il tempo, si aspettano di trovarne altre centinaia, forse migliaia.

L’analisi pubblicata sulla rivista Nature Genetics, che ha esaminato cinquant’anni di studi sui gemelli, è giunta a una conclusione sul peso dell’ereditarietà e dell’ambiente nella vita degli esseri umani: ogni particolare carattere o malattia di un individuo sarebbe influenzato al 50 per cento dall’ambiente e al 50 per cento dai geni. Ma questo semplice rapporto non coglie la complessità dei nostri circuiti genetici, cioè il modo in cui i nostri geni interagiscono costantemente con l’ambiente, a volte producendo risultati durevoli che sopravvivranno nel nostro genoma per essere tramandati alla generazione successiva. Il modo in cui i geni di un individuo rispondono a un determinato ambiente – il modo in cui sono espressi – crea quello che gli studiosi chiamano un profilo epigenetico.

Prima di partire per Bogotá, Segal ha contattato Jeffrey Craig, studioso di epigenetica del Murdoch childrens research institute, in Australia, per chiedergli di analizzare l’epigenetica di Carlos, Jorge, Wilber e William usando campioni di saliva che avrebbe prelevato lei stessa.

Craig ha analizzato i profili epigenetici di 34 gemelli omozigoti ed eterozigoti alla nascita, prelevando i campioni all’interno delle loro guance. Ha scoperto che in alcuni casi – anche se non molti – il profilo epigenetico di un neonato era più simile a quello di un neonato del tutto estraneo che a quello del bambino con cui aveva condiviso l’utero. Secondo Craig, potrebbe essere dovuto a differenze strutturali dell’utero: un cordone ombelicale più spesso dell’altro (i cordoni sono due) o un punto insolito di congiunzione con la placenta. Ma Craig ammette che ci sono altre possibilità. Forse uno dei due gemelli è più lontano dal cuore della madre, dal suo battito rassicurante, e questo potrebbe imprimere una direzione diversa al suo percorso di vita.

Segal e Craig erano ansiosi di vedere i risultati dei test epigenetici sui gemelli colombiani. Quali profili si somigliavano di più? Quelli dei gemelli non collegati biologicamente ma cresciuti nello stesso ambiente – o “gemelli virtuali”, come li chiama Segal – o quelli dei gemelli con lo stesso dna? Un campione di quattro soggetti può sollevare domande più che dare risposte. Ma secondo Kelly Klump, condirettrice del registro dei gemelli dello stato del Michigan, test epigenetici su campioni più ampi di gemelli cresciuti separatamente potrebbero essere una risorsa preziosa per la scienza epigenetica: “Non è possibile studiare il modo in cui l’ambiente modifica la funzione del genoma se non si mantiene costante il genoma. I gemelli omozigoti consentono di fare proprio questo”. Vista la difficoltà di trovare gemelli omozigoti cresciuti separatamente, i ricercatori che lavorano nel campo dell’epigenetica si sono concentrati sulle differenze. Tim Spector, docente di epidemiologia genetica al King’s college di Londra, sta costruendo un registro dei gemelli omozigoti di cui uno solo dei due soffre di malattie come diabete o autismo.

Gli studi condotti da Thomas Bouchard a partire dagli anni settanta hanno contribuito a convincere i ricercatori e l’opinione pubblica che una buona parte di quello che siamo è influenzata dal dna, una cosa tutt’altro che scontata all’epoca. Spector e Craig, invece, stanno cercando di capire come cambiano gli individui nell’interazione con l’ambiente. La domanda che si pongono è diversa: come si possono individuare i geni che si sono attivati e disattivati – con risultati potenzialmente pericolosi – per poterne invertire il percorso? Un tempo gli studi tradizionali sui gemelli andavano alla ricerca dell’immutabile. Oggi, invece, gli studi epigenetici cercano di individuare quello che è soggetto a cambiamenti. E, in particolare, quali sono i meccanismi che determinano il cambiamento.

Ballo finale

Passare del tempo con Segal e Montoya e raccontare le loro storie ha inevitabilmente modificato il modo in cui le due coppie di gemelli hanno vissuto l’esperienza del ricongiungimento. Carlos è sembrato sorpreso quando Segal gli ha chiesto di descrivere le cose che lo distinguevano da Wilber. “Be’, il fatto è che ci siamo sempre concentrati sulle somiglianze”, ha detto. “In realtà non abbiamo mai parlato delle differenze”. Sembrava felice, però, di avere finalmente la possibilità di parlarne. Per prima cosa, ha osservato, a lui piacevano le donne più mature, mentre Wilber preferiva quelle più giovani. Ma era una risposta troppo facile. Carlos somigliava a Wilber negli aspetti di carattere più generale, ma era diverso da lui in un’infinità di piccoli particolari: le espressioni che si disegnavano all’improvviso sul suo volto, i pensieri e le preoccupazioni che riempivano la sua mente. Nel bene e nel male, Carlos era più cinico di Wilber, più composto e riservato. Wilber era più allegro, soprattutto con i bambini, e sempre pronto alla risata.

Anche tra Jorge e William c’erano differenze evidenti. Jorge era un sognatore, un viaggiatore instancabile, un ottimista convinto che “se dai al mondo il meglio, il mondo te lo restituirà”. La faccia di William, più magra e affilata, rifletteva un atteggiamento più prudente. ‘‘Niente è facile, nella vita”, ha detto una volta. Un sentimento che difficilmente si potrebbe attribuire a Jorge.

Erano differenze apprese? Qualcuna rispecchiava differenze epigenetiche?

Prima di cominciare la sua ricerca, Segal non si sarebbe stupita se i test dei gemelli omozigoti avessero dato risultati simili anche se erano cresciuti in ambienti diversi. Ma i risultati preliminari sembravano indicare che un certo numero di caratteri dei gemelli omozigoti sono meno simili di quanto si sarebbe aspettata. ‘‘Oggi”, confessa, “tendo a dare più importanza agli effetti dell’ambiente, soprattutto quando si tratta di ambienti così diversi”.

O forse i risultati indicano semplicemente che individui cresciuti in ambienti rurali e poco scolarizzati svolgono i test in maniera completamente diversa da individui che hanno frequentato l’università. Pur essendo in grado di gestire con efficienza la sua macelleria, William a volte si bloccava di fronte ai test. In ogni caso, secondo Segal, la storia di queste due coppie di gemelli può aprire la strada a nuove ricerche e incoraggiare gli studiosi a cercare altre coppie di gemelli cresciuti separatamente e in contesti estremamente diversi tra loro.

Nella settimana trascorsa a rispondere ai questionari di Segal, i quattro ragazzi hanno ripercorso le esperienze passate che avevano contribuito a renderli quello che erano. Quanti libri avevano in casa? Avevano mai fumato? Erano cresciuti in famiglie in cui le persone si tenevano tutto dentro? Per una settimana hanno fatto un salto indietro nel loro passato. Ma poi, finiti i test, hanno voltato pagina e proseguito per la loro strada, verso un futuro pieno di incognite. A volte parlavano di vivere tutti insieme. A William piaceva pensare che in quattro sarebbero stati più forti. Come i componenti di qualsiasi famiglia, ogni tanto si allontanavano per poi ritrovarsi, forti dello speciale legame che li univa. È già raro crescere come gemelli, come parte di una coppia originaria, ma questi ragazzi avevano addirittura un doppio legame esclusivo, una seconda occasione di straordinaria vicinanza. Che effetti avrebbe avuto questa condizione sul futuro di ognuno di loro?

Per festeggiare la fine di una settimana di test, Segal e Montoya hanno deciso di portare i ragazzi a ballare in un famoso ristorante di Bogotá con una grande pista da ballo. Jorge e William hanno ballato a turno con Segal, volteggiando intrepidi e sorridenti ma senza preoccuparsi troppo del ritmo. Carlos, nel suo elemento, ha mostrato qualche passo a Wilber. Poi hanno ballato fianco a fianco, anche se non in perfetta sincronia: Carlos sicuro di sé, Wilber guardandosi i piedi, concentrato. Ogni tanto Wilber alzava lo sguardo, soddisfatto: prima o poi ci avrebbe preso la mano, ne era certo. ‘‘Wilber ci sa fare”, ha osservato Montoya, che lo osservava dal tavolo. “Ha solo bisogno di un po’ di pratica”. Poi i quattro fratelli hanno deciso di fermarsi in un locale a bere un bicchiere di aguardiente e si sono messi a flirtare a turno con una ragazza che si era unita alla comitiva.

Carlos sembrava sicuro di sé, a suo agio e disinvolto. Mentre la serata procedeva e il tasso alcolico cresceva, i passi di Carlos, lanciato nella danza, diventavano più acrobatici e audaci. A un certo punto si è esibito in un movimento che aveva inventato tempo prima insieme a un’amica. Mentre si piegava pericolosamente all’indietro, inarcando la schiena, è sembrato che stesse per perdere l’equilibrio. William, Wilber e Jorge lo hanno immediatamente circondato, senza smettere di ballare, pronti a sorreggerlo se fosse caduto. Sui loro volti si leggevano sentimenti diversi: un misto di divertimento, fastidio, preoccupazione. Ma Carlos non stava affatto per cadere: era solo un’impressione, e si è subito ripreso.

I quattro ragazzi hanno continuato a ballare. Sembravano quasi rimbalzare uno contro l’altro, in un alternarsi di combinazioni, separandosi solo per andare verso qualche ragazza. Ogni tanto tornavano a confabulare tra loro, poi si rigettavano nella mischia. Erano uno, erano due, erano quattro: si fondevano, si separavano e si fondevano di nuovo, al ritmo della musica, in una serata che sembrava infinita.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito il 4 settembre 2015 nel numero 1118 di Internazionale, a pagina 38. L’originale era uscito su The New York Times Magazine con il titolo The mixed-up brothers of Bogotá.

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