21 febbraio 2020 10:04

Per farsi un’idea di quanto le primarie del Partito democratico statunitense del 2020 siano insolite e difficili da decifrare è sufficiente pensare alle due notizie principali emerse finora. La prima: il candidato che dopo l’inizio delle primarie ha guadagnato più consensi è quello che per ora non ha preso neanche un voto. Michael Bloomberg, ex sindaco di New York, nono uomo più ricco del mondo, entrerà in corsa solo durante il super martedì del 3 marzo, ma nel giro di due mesi ha guadagnato dieci punti percentuali nella media dei sondaggi nazionali.

La seconda: nessuno dei due candidati che in questo momento sono dati per favoriti dalla maggior parte dei commentatori – Bloomberg e il senatore socialista Bernie Sanders – è effettivamente un politico del Partito democratico. Mentre il primo ha vinto le elezioni a sindaco di New York da repubblicano ed è rientrato nel Partito democratico solo alla fine del 2018, il secondo è sempre stato un indipendente e, pur votando quasi sempre in senato con i democratici, se ne è tenuto orgogliosamente a distanza, e nel tempo ha costruito il suo successo nazionale proprio sul fatto di essere una spina nel fianco dei dirigenti del partito.

Come abbiamo spiegato qualche settimana fa, queste tendenze sono il risultato inevitabile delle fratture che attraversano l’elettorato di sinistra – che si sono accentuate durante la presidenza di Donald Trump e hanno allargato il campo dei pretendenti alla presidenza – e delle debolezze dei candidati alle primarie.

I primi due voti, quelli dell’Iowa e del New Hampshire, hanno dato indicazioni interessanti e anche sorprendenti (a cominciare dal fatto che Bernie Sanders ha strappato il ruolo di favorito all’ex vicepresidente Joe Biden, la cui candidatura sembra quasi sul punto di collassare) ma non hanno risposto alla domanda cruciale di ogni elezione per le primarie: chi può mettere insieme i vari segmenti dell’elettorato e presentare un fronte compatto in vista delle presidenziali?

Indicazioni dal Nevada
Finora tutti i candidati hanno continuato a fare appello al loro segmento di riferimento, e gli elettori si sono comportati di conseguenza: in alcuni casi sono rimasti fedeli al candidato di partenza (per esempio la grande maggioranza dei sostenitori di Sanders), in altri casi hanno cambiato candidato (molti elettori moderati si sono spostati da Biden a Pete Buttigieg, l’ex sindaco di South Bend, in Indiana), ma senza mai scavalcare gli steccati che separano il campo radicale da quello moderato.

Per capire con chiarezza chi riuscirà a fare breccia nei perimetri di consenso degli altri candidati bisognerà forse aspettare il 3 marzo, il giorno del cosiddetto super martedì, quando andranno al voto 14 stati in un giorno, compresi alcuni di quelli più grandi e decisivi, tra cui California, North Carolina, Texas e Virginia. Ma indicazioni utili arriveranno anche prima, a cominciare dai caucus del Nevada, che si tengono domani 22 febbraio. È un voto da osservare con attenzione perché è il primo a coinvolgere una quota importante di elettori appartenenti alle minoranze. Mentre Iowa e New Hampshire sono composti per più del 90 per cento da elettori bianchi, in Nevada è decisivo il voto delle persone di discendenza latinoamericana, che formano il 27 per cento della popolazione. Avremo quindi una prima indicazione sul voto delle minoranze (il 29 febbraio si vota in South Carolina, dove una fetta importante dell’elettorato è afroamericano), che da sempre sono decisive nelle primarie democratiche. E questo tipo di indicazioni ci potranno aiutare a capire cosa aspettarsi dal super martedì.

Ecco le domande su cui concentrarsi nei prossimi giorni.

  • Sanders saprà gestire il ruolo di favorito?

Il senatore socialista del Vermont non è mai stato così in forma. In Iowa e in New Hampshire non è andato bene come sperava (nel primo stato è arrivato secondo dietro Buttigieg, nel secondo l’ha sopravanzato di poco), ma da quel momento per lui sono arrivate solo notizie positive. Elizabeth Warren, l’altra candidata della fazione radicale del partito, sembra sempre più in difficoltà e non si capisce come possa risollevare la sua candidatura. Gli ultimi sondaggi mostrano non solo che Sanders ha un vantaggio enorme sugli altri candidati a livello nazionale, ma soprattutto che sta guadagnando consenso tra gli elettori afroamericani e ispanici, che nelle primarie di quattro anni fa avevano sostenuto la sua avversaria Hillary Clinton, compromettendo di fatto la sua candidatura. In Nevada, Sanders è dato al 30 per cento secondo la media dei sondaggi, quasi il doppio rispetto a Biden, che è in seconda posizione. In South Carolina ha ridotto da 15 a tre punti il distacco da Biden nel giro di un mese. Inoltre, Sanders non potrebbe essere più contento di avere come sfidante principale Bloomberg, un uomo che ha fatto i miliardi nel mondo della finanza e, per usare le parole del senatore del Vermont, “pretende di comprarsi la nomination”.

Tutti questi fattori mettono Sanders in una posizione invidiabile ma allo stesso tempo complicata. All’improvviso un politico che è sempre stato in minoranza nella sua area politica si troverebbe a essere un leader di maggioranza, e dovrebbe cominciare a fare, alla soglia degli 80 anni, quello che non ha mai fatto in vita sua: essere rassicurante invece che incendiario, in modo da allargare il suo consenso agli elettori più moderati che per ora lo guardano con sospetto. I segnali finora non sono incoraggianti. Dopo essere diventato a tutti gli effetti il favorito nella corsa democratica, i suoi attacchi contro le “élite” del Partito democratico non sono diminuiti, al contrario il suo comitato elettorale ha cominciato ad accusare i dirigenti del partito di volergli portar via la nomination in modo antidemocratico, e molti sostenitori di Sanders hanno attaccato in maniera scomposta un sindacato del Nevada che ha espresso dubbi sulle proposte del candidato sulla sanità.

Non ci sono dubbi sul fatto che il successo di Sanders stia mandando nel panico il Partito democratico, e non è così assurdo pensare che i suoi dirigenti possano pensare di poter bloccare la candidatura del senatore con metodi poco trasparenti (se nessuno dovesse arrivare alla convention di luglio con la maggioranza dei delegati necessari per ottenere la nomination), ma il senatore sembra non capire che i suoi attacchi contro l’establishment sono visti con fastidio anche da molti elettori di sinistra, soprattutto quelli più anziani, che sono molto legati al partito e alla sua storia.

  • Elizabeth Warren può ancora salvarsi?

Il 20 febbraio, dopo il dibattito tra i candidati a Las Vegas (il primo a cui ha partecipato Michael Bloomberg), molti commentatori hanno elogiato la performance di Elizabeth Warren. All’inizio del dibattito la senatrice del Massachusetts ha detto: “Vorrei che parlassimo della persona contro cui stiamo correndo, un miliardario che chiama le donne grassone e lesbiche con la faccia da cavallo. Non sto parlando di Donald Trump ma del sindaco Bloomberg”. Il comitato elettorale di Warren ha annunciato subito dopo il dibattito di aver raccolto più di 420mila dollari di donazioni, e l’ottima performance potrebbe permetterle di ottenere un buon terzo posto in Nevada.

Ma è probabile che niente di tutto questo sia sufficiente per salvare la sua candidatura: Warren si era proposta come la figura in grado di unire radicali e moderati, invece si è trovata schiacciata tra queste due anime, e in Iowa e in New Hampshire, due stati dove il suo comitato elettorale aveva investito più di quelli degli altri candidati, si è vista rosicchiare consenso sia tra gli elettori più di sinistra, che al momento la considerano una copia poco convincente di Sanders, sia tra quelli moderati, che non hanno apprezzato il suo spostamento molto a sinistra sulla sanità per togliere consenso a Sanders.

Allo stesso tempo i sondaggi mostrano che Warren non sta crescendo come dovrebbe tra gli elettori ispanici e neri, e questo fa dubitare che possa risollevarsi nel super martedì del 3 marzo, e che tra tutti i principali pretendenti democratici sembra quella peggio piazzata nel confronto con Trump. Il 18 febbraio Warren ha giustamente detto che deve vincere la persona più capace di guidare la coalizione elettorale più ampia possibile. Ma ormai sembra evidente che quella persona non può essere lei. Nelle ultime settimane alcuni sostenitori di Sanders hanno chiesto a Warren di farsi da parte per permettere al senatore di fare il pieno d’ora in avanti tra gli elettori più di sinistra; ma Warren ha abbastanza risorse per restare in gioco ancora a lungo e ha numeri abbastanza buoni per raccogliere molti delegati (i funzionari che alla convention scelgono il candidato), che cercherà di far pesare al momento decisivo.

  • Chi resterà in piedi tra Pete Buttigieg e Amy Klobuchar?

Sono stati per molti versi le due sorprese di questa campagna elettorale. Buttigieg, ex sindaco di South Bend (Indiana), giovane, gay, colto, capace di connettersi in modo sorprendente con gli elettori moderati della zona industriale del paese (anche con quelli trumpiani) ha vinto in Iowa e ha ottenuto un ottimo secondo posto in New Hampshire. Klobuchar, senatrice del Minnesota, ha sorpreso tutti arrivando terza in New Hampshire superando candidati molto più conosciuti di lei, come Warren e Biden. Si è anche comportata bene durante i dibattiti, sembra sicura di sé, esperta e pragmatica. Il problema è che sia Buggigieg sia Klobuchar fanno appello al voto dei moderati ma non sembrano in grado di ottenere il consenso degli elettori non bianchi e in generale di quelli che vivono lontani dagli stati del midwest. Hanno entrambi approfittato delle difficoltà di Joe Biden, ma ora arriva per loro il momento più complicato, quello in cui la mappa elettorale si allarga e i candidati con meno risorse fanno fatica a essere competitivi a livello nazionale. Durante il dibattito del 19 febbraio hanno passato il tempo ad attaccarsi a vicenda, confermando di essere due candidati di seconda fila che si battono per gli stessi voti. Tra i due Buttigieg è il candidato che ha più possibilità di continuare la sua corsa anche se ottenesse dei brutti risultati in Nevada e in South Carolina: a differenza di Klobuchar non fa parte della classe dirigente del Partito democratico, un fatto che aiuta in un momento in cui molti elettori sembrano cercare proposte e personalità nuove, e ha a disposizione maggiori risorse economiche.

  • Quanto può durare ancora Joe Biden?

L’ex vicepresidente è nella peggiore posizione possibile per un candidato alla presidenza, quella di chi passa nel giro di poche settimane da favorito a candidato alla deriva, e per di più senza capire il perché. Biden è andato così male in New Hampshire e in Iowa che a questo punto avrebbe bisogno di vittorie convincenti in Nevada e in South Carolina per capovolgere la situazione e tornare in pista. Al momento sembra un’eventualità lontana, e se dovesse andare male in quegli stati molto probabilmente andrà male anche negli stati che votano il 3 marzo. A quel punto Biden sembrerebbe spacciato e si ritroverebbe con le casse vuote (in realtà ha fatto fatica fin dall’inizio a raccogliere donazioni).

  • Bloomberg fa sul serio?

Le debolezze di Biden, i limiti di Buttigieg e Klobuchar, un campo ancora molto affollato e 400 milioni di dollari spesi finora per annunci elettorali elettorali: sono in sintesi i motivi che spiegano perché Michael Bloomberg è diventato nel giro di poco tempo un fattore nella corsa alla nomination democratica, al punto da imporre la narrazione di uno scontro a due con Sanders. E non bisogna dimenticare che nel corso degli anni Bloomberg ha inondato il Partito democratico e in generale le cause della sinistra (a partire dal tema del controllo delle armi) con centinaia di milioni di dollari di donazioni e finanziamenti, e questo gli garantisce una rete politica di sostegno molto ampia. Finora decine di politici e gruppi di sinistra gli hanno giù garantito il loro sostegno. Questo forse spiega perché Bloomberg sia in crescita anche tra gli elettori neri nonostante le accuse di aver messo in atto politiche discriminatorie quando era sindaco di New York.

Allo stesso tempo, ci sono molte questioni che fanno dubitare della solidità della sua candidatura. Bloomberg ha vinto per due volte le elezioni a sindaco di New York e ha pensato già in passato di candidarsi alla presidenza, ma di fatto non ha mai condotto una campagna elettorale nazionale. Questo vuol dire che non ha mai dovuto affrontare la pressione e l’esame minuzioso a cui è sottoposto un candidato alla presidenza. Che faccia difficoltà a gestire questo tipo di situazione lo si è capito già durante il dibattito del 19 febbraio, quando è stato attaccato su tutti i fronti – dalle politiche razziste alle accuse di molestie e discriminazione nei confronti delle donne – e non è stato in grado di gestire la situazione. Inoltre non bisogna dimenticare che la sua crescita nei sondaggi è dovuta in buona parte al fatto che ha investito molto per affermare la sua immagine in posti dove i suoi oppositori democratici non sono ancora andati.

Al momento Bloomberg sta inondando gli stati che votano il 3 marzo con annunci mirati agli elettori anziani e moderati che formano la base di consenso di Biden, dando per scontato che a un certo punto anche i voti di Buttigieg e Klobuchar finiranno nella sua casella permettendogli di compattare il fronte moderato e lanciarsi in una sfida a due con Sanders. Ma resta da vedere se una parte consistente di quell’elettorato sia convinto che Trump possa essere battuto da un altro miliardario newyorkese con tanti scheletri nell’armadio.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it