01 settembre 2017 15:50

Hanno perso Mosul, la loro roccaforte in Iraq. Hanno virtualmente perso Raqqa, la loro capitale siriana. Hanno perso anche Tal Afar, tra Mosul e la frontiera siriana. Le forze del gruppo Stato islamico (Is) perdono terreno ovunque e sono arrivate al punto di negoziare la possibilità di ritirarsi senza combattere. Senza dubbio organizzeranno altri attentati, ma questo movimento è ormai chiaramente sconfitto, e in Medio Oriente si apre l’epoca del dopo Is.

Per centinaia di migliaia di persone questo significa la fine di un inferno quotidiano, ma la regione non ritroverà comunque la pace. Al contrario si annunciano nuovi scontri violenti, per due motivi.

Il primo è che i curdi, armati e finanziati dagli statunitensi, hanno avuto e continuano ad avere un ruolo essenziale nella sconfitta dei jihadisti. Uomini e donne, i curdi hanno fatto sul campo la loro parte, ma se si sono impegnati con così tanto coraggio è solo perché sperano di trarne profitto.

In Iraq come in Siria, i curdi assumono il controllo delle città e delle regioni che hanno liberato e vogliono appoggiarsi su queste conquiste per imporre un rapporto di forza che gli permetterebbe, nei due paesi, di proclamare l’indipendenza del Kurdistan nella speranza di fondersi, un giorno, in un unico stato.

I curdi attendono quest’occasione da un secolo, da quando i vincitori della prima guerra mondiale si sono rifiutati di concedergli uno stato unitario dopo aver lasciato intravedere la possibilità di crearlo. I curdi non hanno mai rinunciato a questo sogno perduto nel cui nome hanno continuato a combattere, ma né la Turchia né l’Iraq né l’Iran né la Siria, ovvero i paesi in cui i curdi sono divisi, vogliono sentir parlare di uno stato curdo, perché per loro significherebbe un’amputazione territoriale a cui non sono pronti.

Contro l’irredentismo curdo esistono convergenze di fatto tra gli stati del Medio Oriente, che faranno di tutto, anche collaborando, per impedire qualsiasi proclamazione dell’indipendenza curda.

Il secondo motivo per cui dobbiamo aspettarci nuovi scontri violenti e non possiamo considerare la sconfitta dell’Is come un sinonimo di pace è legato al nome che si cela dietro questo acronimo. Is è l’abbreviazione di “Stato islamico in Iraq e nel Levante”, perché molti sunniti in Iraq e Siria sognavano uno stato comune a cavallo delle due frontiere artificiali che oggi sembrano svanire.

I sunniti avevano coltivato questa aspirazione perché, in minoranza in Iraq, erano dominati dagli sciiti fin dalla caduta di Saddam Hussein, mentre in Siria (dove rappresentano la maggioranza) sono soffocati dal clan Assad, famiglia appartenente alla minoranza alauita che fa parte dello sciismo. Al di là della sua infinita barbarie, l’Is esprime l’ambizione, logica per non dire legittima, di uno stato sunnita unitario, un’ambizione che non sparirà con la sconfitta dei jihadisti. Stiamo voltando pagina, ma il Medio Oriente resta un barile pieno di polvere da sparo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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