19 ottobre 2016 11:46

L’approvazione in pochi mesi della legge sul caporalato è senz’altro una buona notizia, risultato dell’azione politica di questo governo e in particolare del ministro dell’agricoltura Maurizio Martina e di quello della giustizia Andrea Orlando.

La legge riconosce un fenomeno di dimensioni troppo estese per poter essere ignorato. In particolare, modifica in maniera sostanziale l’articolo 603 bis del codice penale (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) e, oltre a riformulare il reato di caporalato, allarga le maglie della responsabilità al datore di lavoro che “sottopone i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno”.

Come a dire che non deve esserci per forza un “caporale” o un’organizzazione criminale perché un bracciante sia sfruttato. Prevede inoltre la confisca dei beni e l’adozione di misure che preservano l’operatività dell’azienda e, di conseguenza, l’occupazione dei lavoratori.

Nelle aziende agricole in provincia di Foggia


Si tratta di una legge essenziale per depotenziare il fenomeno dello sfruttamento in agricoltura, ma certamente non sufficiente per eliminarlo in maniera definitiva. Innanzi tutto perché non risponde alla domanda che pongono tanti imprenditori agricoli: come possiamo mettere insieme squadre di braccianti stranieri in modo rapido e legale?

Nelle province agricole italiane, in particolare quelle meridionali, gli uffici di collocamento sono del tutto inefficaci. I lavoratori fanno quindi riferimento a persone della loro comunità per ottenere il lavoro. Queste persone – i “caporali” – garantiscono la giornata di lavoro nei campi e i servizi accessori, trasporti, cibo, acqua. Ci lucrano e ne traggono guadagni illeciti. Ma, nella visione di chi lo pratica e di chi ne fa uso, il caporalato è un normale meccanismo di intermediazione lavorativa, in cui l’organizzatore è l’interfaccia tra le squadre di lavoratori e l’imprenditore agricolo.

Se la legge interviene in maniera chirurgica sul reato di intermediazione illecita, non offre invece risposte sulla pratica dell’intermediazione lecita tra domanda e offerta che, non essendo garantita dallo stato, continuerà a essere portata avanti dal “caporale” fino a quando non sarà scoperto.

Lo sfruttamento nei campi e il caporalato sono gli ultimi anelli di un sistema che parte da lontano

In seconda battuta, la legge ha un approccio soprattutto repressivo, intervenendo quando il fatto è avvenuto e non agendo sulle cause del fenomeno. “Se continua così, si chiude”, ripetono tanti produttori.

Perché lo sfruttamento nei campi e il caporalato non sono altro che gli ultimi anelli di una filiera non sostenibile, in cui i grandi marchi e la grande distribuzione comprimono i costi riducendo a zero il margine di guadagno del produttore. Una filiera di cui conosciamo poco o niente, che vive nell’opacità e si autotutela schermandosi dietro codici etici e certificazioni tese a scaricare sul più piccolo responsabilità che invece vengono da lontano.

Solo agendo sugli anelli successivi, facendo pressioni sulla grande distribuzione organizzata per rendere trasparente la filiera (mediante etichette narranti che raccontino la vita e il percorso del prodotto, dal campo agli scaffali), si potrà ridare vita a un’agricoltura in affanno e a un made in Italy che appare sempre più ripiegato su se stesso, tra produttori strozzati e industriali con margini sempre più risicati. Perché il caporalato è una conseguenza di tutto ciò, e non una causa. E per estirparlo veramente non è sufficiente una legge, per quanto avanzata sia, ma serve una reale azione politica e culturale in grado di rilanciare tutto il comparto.

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