Qualcuno forse ricorda le polemiche sul servizio militare di George W. Bush, scoppiate mentre era presidente degli Stati Uniti, sul fatto che fosse stato assegnato alla guardia nazionale grazie alle amicizie paterne, evitando così di andare in Vietnam. Sulla questione indagò una delle più celebri trasmissioni di approfondimento giornalistico, 60 minutes di Cbs News, condotta da Dan Rather, quasi un simbolo del giornalismo investigativo.

Truth racconta il tentativo di 60 minutes di far luce sulla vicenda, ed è basato su Truth and duty, il libro della giornalista e produttrice del programma Mary Mapes (interpretata da Cate Blanchett) che fu cacciata dal network dopo una sorta di commissione d’inchiesta: un fatto, questo, senza precedenti nella storia del giornalismo statunitense.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il film, ora in sala, è stato presentato al festival di Roma del 2015. Proprio dieci anni prima, nel 2005, arrivava a Venezia quello che resta l’unico film realmente fine e sottile di George Clooney regista: Goodbye and goodluck. Raccontava la vera storia del giornalista televisivo della Cbs, Edward R. Murrow, che negli anni cinquanta, con le sue inchieste, fece tremare Joseph McCarthy fino al punto da dare il via alla progressiva caduta del fanatico senatore anticomunista del Wisconsin. Filmato in un elegante bianco e nero, il film delineava bene le ombre di quell’epoca di speranza in cui tuttavia si doveva resistere alle prepotenze degli sponsor, come l’Alcoa, azienda pubblica legata alle forze armate.

Ieri l’Alcoa, oggi il gruppo Viacom, che controlla la Cbs. Il gigante dei mezzi d’informazione ebbe paura di non riuscire a ottenere appoggi importanti per il suo sviluppo industriale dall’amministrazione Bush. La questione, come dice pubblicamente la stessa Mary Mapes e come più o meno dice anche il film in una scena drammatica, è che le televisioni sono quasi totalmente in mano a sei grandi conglomerati industriali. Viene quasi da tirare giù la saracinesca con mestizia e dire: “Goodbye and goodluck”, la celebre frase con cui Murrow salutava gli spettatori.

Non è facile ricercare la verità e Truth si concentra appunto sul giornalismo in dismissione, perché troppo spesso ridotto a riportare quanto già detto da altri, spesso fonti ufficiali. Questa mestizia, questo sentimento crepuscolare su princìpi etici fondanti è esemplificata dalla scena in cui Mapes e altri pregano Dan Rather (interpretato da Robert Redford) di pronunciare la frase celebre con cui per anni ha salutato i suoi spettatori. Si fa pregare ma alla fine la dice: “Coraggio”. Ci vuole coraggio per tutti oggi, anche per i giornalisti. Troppo spesso i giornalisti vengono dismessi, la loro professionalità svilita e la loro autonomia limitata.

Un mestiere in dismissione come tanta industria statunitense, come forse in futuro sarà per la stessa Hollywood che potrebbe andare ai cinesi, come suggeriva una copertina di Internazionale di qualche settimana fa, in un processo di avvitamento senza fine. Perché al capitalismo odierno, nell’era della globalizzazione e della prepotenza delle multinazionali, non sembra importare più nulla dell’economia degli stati. Comunque vada, Hollywood è dominata dai gruppi finanziari e dal marketing, capace di produrre solo blockbuster per adolescenti. Una Hollywood dalla quale lo stesso Vanderbilt, sceneggiatore proprio di blockbuster, sembra essere il primo a voler uscire.

Un po’ di retorica

Il film s’inserisce in maniera netta in questo contesto: “Troveranno il modo di spodestare il grande vecchio”, dice di Dan Rather il giovane giornalista viscerale e un po’ anarchico assoldato dalla Mapes per indagare sui misteri del servizio militare di Bush. “Non so se l’ha notato, ma non siamo rimasti in molta gente a fare quello che facciamo. Siamo 60 Minutes, siamo il meglio che c’è”, dirà più avanti sempre Mapes al colonnello malato in pensione, la “gola profonda” della vicenda.

Quella messa insieme da Mapes è una squadra di persone anomale, “fuori sincrono” rispetto al movimento generale: il giovane anarchico o la giornalista che insegna in una scuola, il marine (cioè il giornalista vecchio-stile un po’ d’assalto ma bonario e con dei princìpi), il grande vecchio, Rather appunto. Oltre alla stessa Mapes, ovviamente, testarda anche per un passato affettivo non poco sofferto. Tutte persone che si fanno domande e poi cercano risposte.

Ovviamente c’è un po’ di retorica in tutto questo, inutile negarlo. “C’è un tema interessante nel suo lavoro: l’abuso di potere”. Risposta della Mapes: “Non mi piacciono i prepotenti”. Come a sottolineare princìpi d’altri tempi, certo, ma sono anche dialoghi quasi imbarazzanti se non ci fossero attori tanto bravi a pronunciarli: soprattutto Cate Blanchett, davvero notevole, mentre Robert Redford, icona del cinema liberal degli anni sessanta e soprattutto settanta, è perfetto nell’incarnare un vecchio giornalismo eroico che pare quasi essiccato, svuotato.

Una dolcezza formale accompagna piacevolmente lo spettatore, ma stride con la decadenza dell’era postmoderna raccontata

Come Spotlight anche Truth è un film sulle relazioni umane tra giornalisti: tutti sono padri o madri, fratelli o sorelle dell’altro, ma c’è decisamente più difficoltà a essere padri e madri biologici e quindi si supplisce alle carenze affettive degli altri. Si è molto genitori supplenti e insieme troppo poco genitori, due movimenti assieme complementari e contraddittori. Si sottolinea la dimensione umana, intima, anche per far da contrasto all’inumanità di certi processi.

È rovesciata l’immagine che si dà comunemente di internet, che qui appare sotto una luce sinistra, quanto, se non peggio, quella di tanto giornalismo “di regime” o di tanto giornalismo puramente industriale. È uno dei temi fondanti del film – e il film mette in luce anche la difficoltà di fare un’inchiesta rigorosa, difficoltà spesso sottovalutata dal pubblico. La verità non è univoca, è obliqua.

Il regista, come nella sequenza che ritrae i personaggi nel loro lavoro d’inchiesta, titanico ma statico, fatto di telefonate e di appunti, di nomi scritti e subito cancellati, alterna movimenti di camera in avanti e indietro, sempre obliqui perché sempre obliqua è la realtà. Eleganti carrellate, talvolta veloci, spesso lente, quasi carezzevoli. Ancora più vero una volta usciti dagli studi tv, dove dominano ambienti eleganti e ovattatati, da cinema classico d’altri tempi.

Una dolcezza formale che accompagna piacevolmente lo spettatore ai contenuti del film, ma che stride con la decadenza dell’era postmoderna raccontata. Certo, non siamo ai livelli di Insider. Dietro la verità (1999), grande film di Michael Mann con Russell Crowe e Al Pacino sulla prepotenza delle multinazionali e i limiti del giornalismo, che partiva da un’altra inchiesta di 60 minutes, dove una regia e una fotografia quasi documentaristiche riuscivano a creare un clima onirico, irreale, se non surreale. Ma ricordiamoci che Vanderbilt è alla sua prima regia.

Una meccanica vuota

Anche se è stata autrice di scoop importanti come quello sulle torture nella prigione di Abu Ghraib, le ingenuità, alcuni comportamenti superficiali e alcuni eccessi da crociata di Mapes non vengono taciuti. E lentamente il film delinea l’ambiguità della realtà e quindi della ricerca della verità. Tutto si rivela più complesso ed è rovesciato. Chi indagava finisce sotto accusa e chi era accusato diventa accusatore. È un continuo guardarsi ed esser guardati e poi ancora riguardati negli schermi tv. Le dichiarazioni del padre di Mary Mapes sulla figlia liberal sono il momento più forte, e quando ormai l’intero staff di 60 minutes è messo sotto accusa da quella che pare quasi una nuova forma di maccartismo e si riunisce a casa di Mary Mapes assistiamo invece al momento più sottile.

Il figlio di Mapes, filmato di spalle, guarda fuori della gigantesca finestra. Segue allora un controcampo dall’esterno della stessa finestra: il bimbo osserva le telecamere che assediano la casa, poi è Mary a guardare dalla finestra accompagnata dalla domanda del bambino: “Sono amici vostri?”. In un’alternanza di controcampi esterni e interni, obliqui, a metà tra due finestre-schermo, si arriva a un movimento di camera laterale sull’estrema sinistra a inquadrare l’arrivo di un furgoncino di Fox News. Infine, un ultimo controcampo dall’interno punta su Mary che si butta sul figlio come a proteggerlo da quegli “amici”, tirando subito la tenda, quasi un sipario sul brutto spettacolo, sulla carneficina mediatica di alcuni “eretici”, di paria del sistema dei mezzi d’informazione.

La replica di Dan Rather alle accuse dei blog di destra e delle altre tv quasi stordisce, tale è l’incastonarsi di schermi negli schermi, come specchi che si riflettono all’infinito.

La regia cinematografica esplora e viviseziona il sistema della regia e della produzione televisiva e ne esce fuori una meccanica vuota insieme alla denuncia dell’assenza di padri, o madri, in poche parole sull’assenza di certezze etiche, di punti di riferimento, di collanti per la comunità.

Rather se ne andrà, lascerà 60 minutes e poi anche la Cbs, e a Mary Mapes, spezzata nei sentimenti oltre che professionalmente, parlando al telefono con Rather sfuggirà un “papà”: l’ultima immagine del film è un Rather filmato di spalle che esce di scena, un’immagine visivamente smussata, già nel passato, nel crepuscolo, nell’oblio. È la triste e insieme edificante storia di un fallimento della verità, perché l’inchiesta è molto probabilmente vera nei suoi fondamenti, ma ne esce fuori una piccola grande epopea su dei perdenti che si rivelano vincitori morali. L’informazione deve rinnovarsi, ma senza informazione non ci può essere che disfacimento della democrazia. Coraggio.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it