09 luglio 2021 11:32

Se nel fine settimana a Cannes ci sarà un vero fuoco di titoli, intanto è arrivato il nuovo film di François Ozon, Tout s’est bien passé (È andato tutto bene). Certamente una bella sorpresa del concorso e uno dei migliori lungometraggi dell’autore, da avvicinare a quella parte della sua produzione quantitativamente minore centrata su un registro tematico-narrativo più grave. A titoli, per esempio, come Sotto la sabbia (2000), Franz (2016) o Grazie a Dio (2019), con il quale condivide la compiuta e raffinata unione tra descrizione delle dinamiche e delle interazioni psicologiche delle vittime di pedofilia da parte della chiesa e la denuncia politico-sociale di quanto accaduto.

Stavolta la storia è quella di una donna, Emmanuèle (Sophie Marceau), figlia di un uomo burbero e spesso intrattabile, omosessuale, André Bernheim (interpretato dall’eccellente André Dussolier, si ricorderà forse il capolavoro di Alain Resnais Les herbes folles, 2009), che a 85 anni viene ricoverato per un ictus. Insieme all’altra sorella Pascale (Géraldine Pailhas), Emmanuèle dovrà conciliare il forte amore filiale, tanto più pesante per lei che è in qualche modo la prediletta del padre, e la fatica abnorme di star dietro a un uomo con un carattere impossibile che si trova praticamente immobilizzato.

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Anche perché ben presto il padre, stremato da quella situazione in sedia a rotelle, le chiederà di aiutarlo a farla finita. E non è di aiuto la madre Claude (Charlotte Rampling), anche lei con problemi di salute e gelidamente chiusa in un silenzio quasi totale. Il peso sulle spalle di Emmanuèle è enorme, e quando si affaccia la possibilità di un ricovero in Svizzera, tramite un’associazione che pare seria, ci vorranno mesi e tutto dovrà esser fatto in gran segreto per evitare problemi con la giustizia francese.

Se riveliamo alcuni aspetti della parte iniziale della trama è anche perché l’interesse del film, la sua notevole forza, sta tutta nella sottigliezza della regia e della sceneggiatura, nella grande bravura degli interpreti, primi tra tutti Dussolier e soprattutto la davvero splendida Sophie Marceau, che trasmette al film la sua presenza luminosa malgrado la gravità della situazione. Marceau, che molti di noi ricordano per teen-movie come il Tempo delle mele o per la sua partecipazione a grandi produzioni hollywoodiane come Braveheart di Mel Gibson, ha lavorato anche con grandi registi come Maurice Pialat e Andrzej Żuławski.

Il diritto al lutto
Gran film d’amore tra un padre, figli e nipoti, secondo logiche del tutto inconsuete, Ozon adatta il romanzo dal sapore autobiografico di Emmanuèle Bernheim (la scrittrice, già collaboratrice alla sceneggiatura di altre opere del regista, come si intuisce anche dal film, è stata la compagna di Serge Toubiana, ex direttore del mensile Cahiers du Cinéma ed ex direttore della prestigiosa Cinémathèque française) realizzando un intenso film psicologico e di chiara denuncia sociale sul diritto di darsi la propria morte. Il regista sembra dire che questo diritto dovrebbe essere garantito dalla società.

Al contrario dei titoli della cosiddetta trilogia del lutto (costituita da Sotto la sabbia del 2000, Il tempo che resta del 2005 e infine da Il rifugio del 2009) qui è tutto rovesciato: per il diretto interessato, il lutto sta nel proseguire la vita a tutti i costi, mentre per chi resta sta nella lunga elaborazione anticipata rispetto alla morte effettiva. Un film che provoca nello spettatore un profondo cambiamento nella percezione dei processi canonici del dolore legati alla perdita di un proprio caro.

La Quinzaine des réalisateurs, invece, è stata inaugurata con un altro film molto interessante con protagonista una donna scrittrice e in cui, di nuovo, in qualche modo tutto viene invertito. Ouistreham è il nuovo lungometraggio dello scrittore Emmanuel Carrère, un libero adattamento del romanzo Quai de Ouistreham di Florence Aubenas. Teodora Film lo porterà nelle sale italiane.

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Marianne Winckler, nota scrittrice, vuole immergersi a 360 gradi nella realtà delle donne delle pulizie, quelle che nei bagni pubblici devono mettere le mani nella sporcizia che lasciamo. Per loro diventa quasi un sollievo passare a pulire le cabine di un traghetto. Qui, la sporcizia nella quale sono continuamente immerse è direttamente proporzionale all’intensità del rapporto umano che si crea tra la scrittrice, capace di creare una forte empatia, e due ragazze caratterialmente non facili. Marianne, interpretata da una Juliette Binoche al meglio della sua forma forse perché in buona parte è all’origine del progetto, a un dato momento viene però scoperta. Si crea allora una voragine incolmabile tra lei e le due ragazze che sono ormai delle amiche dalle quali non vorrebbe più separarsi ma che si sentono invece pesantemente ferite e tradite.

Carrère firma un film di denuncia facendo scivolare lo spettatore sotto la pelle di queste lavoratrici invisibili che si trovano nel gradino più basso del mondo del lavoro, non di rado precarie. Al contempo, proprio come nel film di Ozon, è un’opera artistica che descrive con finezza psicologie e dinamiche interpersonali all’interno di un ben preciso contesto sociale senza cadere nel compitino didascalico come certo cinema di oggi. Ma la cesura tra i due mondi resta netta, malgrado gli sforzi di Marianne.

E tuttavia è forse questa la cosa più interessante: il risentimento delle classi meno abbienti – che vedono sottrarsi decenni di conquiste sociali che sembravano acquisite – verso l’abbandono che hanno subìto e subiscono da parte delle classi più agiate, oltre che dal potere politico, pare ormai incolmabile a meno di uno sforzo davvero eccezionale.

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