14 aprile 2022 13:55

Arriva in sala un film avvolgente e leggero nei toni ma profondo nei contenuti, rivelatore per il pubblico spettatore occidentale e non solo. Si tratta di Una madre, una figlia di Mahamat-Saleh Haroun, figura di primo piano del cinema africano, nato in Ciad, che ha presentato questo lungometraggio in concorso all’ultimo festival di Cannes.

E trova corrispondenze, oppure rovesciamenti come in uno specchio, con due titoli giunti da poco in sala e anch’essi presentati a Cannes. Con Tra due mondi (Ouistreham), il nuovo lungometraggio dello scrittore Emmanuel Carrère con Juliette Binoche, due donne delle pulizie dei mezzi di trasporto ci portano in situazioni al limite. Ne abbiamo scritto da Cannes. Mentre con Parigi, 13Arr. (Les Olympiades) Jacques Audiard, realizzando un film interetnico sulle nuove generazioni, crea un assioma tra relazioni sociali, intime e sessuali. E anche qui rimandiamo alla cronaca da Cannes.

Netto cambio di registro
Ma torniamo in Africa. È la storia – ambientata a N’Djamena, capitale del Ciad – di una giovane, Maria, che rimane incinta, in una realtà musulmana, e del suo complesso legame con la giovane madre, Amina. Amina è infatti una ragazza-madre e in quanto tale mal vista: quando recita le preghiere nella confraternita dell’imam resta isolata dagli altri, nell’ombra. La avvicina solo l’imam medesimo il quale le fa la ramanzina per non aver partecipato alla preghiera del mattino. E Maria si fa subito ribelle rispetto alle tradizioni, alla religione, perché decide di abortire facendo impazzire Amina: “Me ne frego! È nel mio corpo, è il mio ventre!”. Le rigide regole religiose, la cultura patriarcale oppressiva, il desiderio di emancipazione e libertà (sessualità compresa), l’escissione, la violenza sessuale, l’aborto. Tante tematiche in un film breve, tematiche oltretutto serie, gravi. Eppure emerge qualcos’altro.

La quiete. Il tono, anzi la tonalità del film. Fin dal suo inizio, dove vediamo Amina camminare sullo sfondo costeggiando da un lato le palazzine e dall’altro l’erba verde chiaro. In primo piano lo scorrere dell’acqua di un piccolo fiume e il suo rumore delicato. S’indovina facilmente che siamo nei quartieri periferici di una grande città come N’Djamena. Poi la donna giunge su degli ampi stradoni con sopraelevata dove la gente cammina liberamente tutt’intorno, in una gradevole anarchia: i rumori di auto e motorini prendono il sopravvento. E anche quando arriva a un capannone per rivendere i suoi oggetti udiamo, oltre al vago rumore di qualche motorino che sfreccia veloce, un costante ed indefinito vociare, che rammenta la dimensione quasi onirica che raggiungiamo stendendoci sulla spiaggia e chiudendo gli occhi.

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Più avanti vedremo la madre seguire di nascosto la figlia: dal piccolo e delizioso dedalo di casette circondate dall’erba dove fa capolino il canto di un gallo segue l’improvvisa inquadratura sul volto di Amina che sbuca dall’angolo di un muro: è sincronico al netto cambio di registro sonoro e si sussulta al ritorno, più aggressivo stavolta, dei rumori quasi tumultuosi emanati dalle grandi arterie cittadine. In realtà non vi è nulla di terribile. È più una questione di percezione. Se il cinema è sguardo sul mondo, qui lo è più che mai e per giunta in perfetta sincronia con il sonoro. Inteso come le sonorità della vita, anzi come la vita stessa.

Mahamat-Saleh Haroun, che ha al suo attivo diversi lungometraggi importanti quasi tutti presentati a Cannes – fatta eccezione per Daratt, la stagione del perdono presentato a Venezia nel 2006 dove ha ottenuto il Premio speciale della giuria – racconta spesso il collettivo sotto il prisma dei singoli e dell’intimo. E con toni per così dire sommessi, delicati. Non è da meno questo film con cui si cimenta per la prima volta nel raccontare dei personaggi femminili sui quali incentra l’intera narrazione. Una madre e sua figlia, appunto. Ma se i toni sono delicati, se c’è il piacere della rappresentazione della quiete, a tratti perfino della contemplazione, se la camera leggera quasi plana nello scrutare gli ambienti, le questioni sono nondimeno pesanti, gravi. Il dramma dietro l’angolo.

Una società immobilista
Il patriarcato dominante e la religione islamica che lo impone sono entrambi considerati dal regista come importati in un corpo sociale e culturale a loro prima estraneo e per Haroun hanno finito con il generare una “società immobilista”. Allora, il dedalo grazioso di stradine può diventare anche un labirinto claustrofobico dove perdere la propria anima magari compiendo qualche azione inconsulta; la tranquillità, la quiete, possono essere sinonimo di palude, di una staticità quasi prossima alla morte. La questione sembra essere però l’equilibrio delle cose. È davvero notevole come il regista riesca a dare vita ai suoi personaggi femminili, non solo Amina e Maria: la freschezza e la genuinità della recitazione si alleano in maniera perfetta all’espressione dei sentimenti più sofferti, sempre con un certo pudore, senza ostentazione. Eppure la sofferenza pare grande. Le istituzioni, per una ragione o per un’altra, sono tutte ostili: l’imam, la scuola che caccia Maria, l’ospedale dove praticare l’aborto: come rompere il movimento dell’ineluttabile predestinazione senza incorrere in terribili sanzioni? Come interrompere questo falso movimento? Falso movimento perché in realtà circolare e che riconduce immancabilmente chi l’asseconda alla casella iniziale, come nel gioco dell’oca. Ecco il dilemma.

Ma, sotterraneo, c’è un altro mondo. È un mondo antico fatto di solidarietà, reciprocità, mutuo soccorso: è il lingui della tradizione e che dà il titolo originale al film. Una tradizione che viene qui reinventata, adattata alle nuove esigenze, fatta di piccole cose dette e non dette, di piccole azioni quasi invisibili ma che accumulate creano un movimento sotterraneo di possibile cambiamento. Dietro la quiete, dietro il pelo dell’acqua appena smosso. Una madre e sua figlia, il cui rapporto pacatamente ma fermamente ribelle in crescendo prende presto in parallelo una dimensione paritaria: sono un po’ sorella maggiore e sorella minore, litigano, ma l’amore che le unisce non viene mai meno, nemmeno quando le parole possono ferire pesantemente: “Non voglio diventare come te. Nessuno ti rispetta. Non voglio questa vita”. Anzi, i legami che Amina tesse riescono al contempo a costruirne di nuovi – il bel personaggio della dottoressa che cerca di praticare aborti clandestini con oculatezza – e a ricostruire quelli vecchi, come con la sorella di Amina, che a suo tempo ebbe paura di essere cacciata dal padre.

Questo film sostanzialmente di donne e sulle donne illustra le dinamiche sociali per mezzo delle dinamiche relazionali tra gli esseri umani ma senza didascalismo, senza pesantezze retoriche, e coglie la vita nella sua naturalezza, come un flusso, come l’acqua di un fiume che scorre, nel suo “mentre”. E di conseguenza la trama è importante e al contempo non lo è. È il suo farsi che importa, a incantare e a catturare lo spettatore.

Mahamat-Saleh Haroun confessa che il film è anche il frutto del ricordo molto vivo della nonna che lo ha cresciuto, una donna libera e forte abbandonata dal marito. Ed è un ritratto di donne di oggi del suo paese, anche laureate e che occupano posti di una certa importanza, ma spesso mal viste perché indipendenti e non sposate. E poi ci sono donne ben meno ricche e ugualmente senza marito, perché vedove, divorziate o abbandonate, come quelle raccontate. Donne che non rifuggono da un uso sia pratico sia “femminista” degli strumenti offerti dalla modernità, come i telefonini. Qui, al contrario che in molti film del grande regista cinese Jia Zhang-ke, non c’è alcuna alienazione della comunità veicolata dall’acquisto compulsivo di oggetti connotati quasi come status symbol. La modernità trova il suo giusto equilibrio con l’antico, le radici, l’autenticità. Con il lingui. Questo sono una madre e una figlia: un organismo unico nel sociale, un solo flusso senza soluzione di continuità tra l’antico e il moderno.

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