16 agosto 2022 16:35

La settantacinquesima edizione del Locarno film festival si è conclusa con un film che è al contempo una visione incantata e opera politica e di denuncia. È Hikayat elbeit elorjowani. Tales of the purple house del regista franco-iracheno Abbas Fahdel, girato in Libano e con protagonista sua moglie Nour Ballouk, libanese e pittrice. E con un palmarès discutibile anche se ha consegnato il secondo riconoscimento, per ordine di importanza in scala gerarchica, all’eccellente film italiano Gigi la legge di Alessandro Comodin di cui abbiamo scritto nella precedente cronaca dal festival.

Ma cominciamo con lo straordinario film di Abbas Fahdel, tra i più importanti degli ultimi anni. È stata l’unica opera lunga sia del concorso internazionale sia della sezione registi del presente, la principale sezione parallela. Della durata di poco più di tre ore, all’interno di una selezione che ha privilegiato le durate nella norma o brevi, come Skazka. Fairytales di Alexander Sokurov (78 minuti), ogni millimetro del film ha senso e densità, catturando anche il pubblico che ha infatti applaudito con forza alla prima proiezione alla quale abbiamo assistito.

Osmosi totale
Per Fahdel è un nuovo exploit artistico dopo il documentario-capolavoro Homeland. Iraq year zero (2015) e il film di fiction Yara, perla presentata in concorso a Locarno nel 2018 e di cui avevamo scritto con emozione, un film in cui il regista riprendeva in qualche modo la lezione neorealista come già l’indiano Satyajit Ray e poi l’iraniano Abbas Kiarostami, ma incentrando la narrazione invece che su di un bambino su di una bambina, Yara appunto, e ambientato nella valle di Qadisha, nel nord del Libano, dal 1998 iscritta nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco.

Fahdel ritrae e trasmette l’energia positiva che pervade la popolazione di cui sono la riprova i canti frequentemente filmati

Tales of the purple house rende un fatto naturale la coabitazione degli opposti: così come il documentario e la fiction sono qui indistinguibili, lo sono anche la natura reale e quella riprodotta (dal cinema come dalla pittura), l’arte dall’arte (il cinema che riproduce la pittura), l’intimo e il collettivo, il bello e il brutto, la gravità della guerra e della situazione economica con il senso poetico e umano nel rapportarsi tanto alla quotidianità quanto alla natura, l’azione con la contemplazione. Sono due gambe di uno stesso corpo, l’osmosi è totale. E ne rispecchia in fondo il piano politico.

Filmando le grandi manifestazioni contro la corruzione del potere, non solo documenta con pertinenza, ma ritrae e trasmette l’energia positiva che pervade la popolazione di cui sono la riprova i canti frequentemente filmati: gioiosi e combattivi, apparentemente un po’ retorici, sono privi di riferimenti alle fazioni religiose contrapposte, si parla solo di popolo libanese. Con insistenza è tutto il popolo, un popolo unico, che si sente oppresso e offeso. È chiaro però che il potere, e ne sembrano complici i governi democratici al di là delle dichiarazioni e posizioni ufficiali, stia giocando sulla stanchezza della popolazione, cercando di svuotare questa energia rendendo ogni gesto quotidiano faticoso per la sopravvivenza. Mentre un piano serio internazionale sarebbe oggi un’occasione unica per stabilizzare quel paese e in parte quell’area, colpita in particolare dalla guerra in Siria.

Le immagini dei bombardamenti israeliani del 2006 e delle innumerevoli vittime nella popolazione civile, soprattutto tra i bambini, si succedono come quelle del terribile incendio seguito all’esplosione devastatrice del 4 agosto 2020 al porto di Beirut e dell’indignazione popolare che ne è seguita. In mezzo, tanti frammenti di realtà bellissima e coraggio quotidiano. Si succedono i raduni collettivi sulla cima di una montagna dove si profilano i tramonti più belli del mondo, di un rosso talmente intenso e avvolgente che se non fossero realtà sembrerebbero eccessi estetizzanti, o il verde chiaro delle vallate e dei campi agricoli, un verde naturale così vibrante da sembrare quasi psichedelico, inquadrati a più riprese.

Il film è incorniciato e pervaso continuamente dall’arte, dal senso del vedere come strumento fondante per ritrovare il senso profondo delle cose

E poi il quotidiano, con Nour – voce narrante e guida del film mentre Abbas è presente ma sempre fuori campo – che stringe amicizia con un bambino il cui padre ha difficoltà economiche crescenti, bambino che torna regolarmente nel film, per esempio in un orticello con la sorellina, oppure quando Nour lo accompagna in un campo di rifugiati siriani che vengono ascoltati a lungo, o ancora quando fanno visita a un uomo che si prende cura di cani abbandonati. A esser messo in evidenza è sempre uno sguardo umano, intriso di empatia.

E poi, quasi dei siparietti, il quotidiano dei gatti della coppia, numerosi, intenti a fare con grande rigore il loro lavoro, se così si può dire, di gatti: star dietro a qualsiasi cosa si muova, controllare bene tutta l’area circostante è un lavoro che trova sempre il suo giusto riposo come quando dormono abbracciati similmente a due bambini l’uno con l’altro mentre il terzo gioca con la folta coda di uno degli altri due buttandola da una parte come dall’altra. Sono importanti gli animali in questo film dominato peraltro dalle restrizioni della pandemia, sono dei fratelli degli umani.

Il tutto incorniciato e pervaso continuamente dall’arte, dal senso del vedere come strumento fondante per ritrovare il senso profondo delle cose: i quadri di Nour, sovente incentrati su elementi della natura, si incrociano con il cinema creando sottili epifanie grazie a degli estratti inseriti con sapienza, dal grande poeta della vita colta nel minimale, Yasujirō Ozu, al poeta della bellezza della natura colta fin nella sua luce e nei suoi interstizi più reconditi, Victor Erice, passando per il poeta della metafisica fin nella decomposizione del mondo Andrej Tarkovskij, e diversi altri. Ma questa interrogazione sulla vita e sulla visione, che comprende la fotografia messa in relazione con la fotografia in movimento (il cinema), è forte perché alta, etica ma senza retorica o eccessi di sofisticazione, piuttosto è semplice e umana seppure all’interno di una costruzione raffinata, come lo sono le opere dei veri artisti.

Anche per questo Tales of the purple house, comunque vincitore del premio della giuria ecumenica, è certamente il nostro Pardo d’oro. Ma Abbas Fahdel crediamo abbia fatto l’opera di cui sentivamo il forte bisogno e che mancava nel festival fino alla sua proiezione negli ultimi giorni: qualcosa di fresco e profondo insieme sul mondo di oggi e sul mondo di sempre, cioè su quel che è perenne. Forse il suo cinema è ormai pronto per altri luoghi del cinema, come la mostra di Venezia, che in questi anni ha dato grande spazio al documentario d’autore spesso mettendolo in concorso, o Cannes, in sezioni come la Quinzaine des réalisateurs, oppure Un certain regard o lo stesso concorso nel caso di una nuova fiction come Yara, visto che il festival di Locarno gli dimostra grande fedeltà ma le giurie non sembrano seguire.

Delude fortemente il palmarès, va detto. Il film vincitore del Pardo d’oro, il brasiliano Regla 34 (Rule 34) di Júlia Murat, qui al suo terzo lungo, ha delle idee originali e davvero anticonformiste, non segue la logica univoca odierna (nella fattispecie: adesione senza condizioni alla questione del genere, o razziale, oppure astio se non odio verso questi temi). E sotto questo aspetto è davvero notevole, anche per come ha saputo delineare personaggi e situazioni. Ma è un film che non si ha voglia di rivedere: visivamente non esiste, non c’è quasi nient’altro da scoprire oltre quello che si è visto. E così è, dispiace dirlo, per gli altri titoli premiati come il costaricano Tengo sueños eléctricos di Valentina Maurel o la commedia gay De noche los gatos son pardos dello svizzero Valentin Merz. Sono dei film noiosi non perché lenti, ma perché ovvi e si fermano all’enunciato oppure ancora superficiali e falsamente provocatori anche quando si lasciano vedere (il film gay).

Non sappiamo se il politicamente corretto abbia giocato, ma c’erano film meravigliosi e intensi da premiare come l’azero Balıqlara Xütbə (Sermon to the fish) di Hilal Baydarov o il portoghese Nação valente di Carlos Conceição – di cui abbiamo scritto nella prima cronaca – grande film sul colonialismo o ancora, andando più sul classico, l’ottima commedia francese sugli adolescenti Stella est amoureuse di Sylvie Verheyde o infine l’italiano Il pataffio di Francesco Lagi, imperfetta ma divertente e originale farsa in costume nelle sale dal 18 agosto. Tra i tanti film di qualità, quest’anno Locarno ha avuto una caduta sui film al femminile, siano fatti da donne o meno: ma dopo averlo fatto per anni in maniera eccelsa rispetto a tanti altri festival è un cedimento che si può anche permettere.

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