09 giugno 2020 13:10

La mattina del 30 maggio Iyad Halaq è uscito di casa verso le sei. La sua famiglia racconta che era di buon umore. Il video di una telecamera di sicurezza non distante da casa sua lo mostra mentre cammina con un sacchetto della spazzatura in mano. Portava sempre fuori l’immondizia, quando usciva di casa al mattino.

Halaq stava andando verso il centro di assistenza che frequentava ogni mattina da sei anni. È entrato nella città vecchia di Gerusalemme dalla Porta dei leoni, poi ha proseguito per via re Faisal, dove comincia la via Dolorosa. Era diretto al centro Elwyn el Quds per persone con bisogni speciali, a poche centinaia di metri dalla Porta dei leoni, vicino all’ingresso del piazzale della moschea Al Aqsa.

Ma quel giorno Halaq non è mai arrivato a destinazione. La polizia di frontiera israeliana ha cominciato a inseguirlo gridando “Terrorista! Terrorista!”. Il motivo non è chiaro. Gli hanno sparato, colpendolo alla gamba. In preda al panico, Halaq è scappato in un locale per la raccolta dei rifiuti al lato della strada, cercando di nascondersi. Anche una delle operatrici del centro Elwyn, Warda Abu Hadid, che stava andando verso la struttura, ha cercato riparo dalla polizia nel deposito dei rifiuti.

Quando la vittima è un palestinese, quasi tutto è concesso

Tre agenti della polizia di frontiera sono subito arrivati all’ingresso del locale. Halaq era sdraiato a terra sul pavimento sudicio. L’operatrice ha notato che la sua gamba sanguinava. I tre poliziotti erano lì in piedi, armi in pugno, e urlavano ad Halaq “Dov’è il fucile? Dov’è il fucile?”.

Abu Hadid gli gridava in arabo e in ebraico “È disabile! È disabile!”, mentre Halaq gridava “Sto con lei! Sto con lei!”. È andata avanti così per cinque minuti, fino a quando uno degli agenti ha sparato con il suo fucile d’assalto M-16 da distanza ravvicinata. Un proiettile ha colpito Halaq all’altezza della vita e gli ha centrato la spina dorsale, danneggiando nel tragitto diversi organi interni, e uccidendolo sul colpo.

Così è finita la breve vita di Iyad Halaq, un giovane palestinese con autismo e con un volto da angelo. Aveva 32 anni ed era la gioia dei suoi genitori. Per tutti questi anni se n’erano presi cura con molta dedizione, e ora il loro mondo gli è crollato addosso.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se un palestinese avesse ucciso in modo simile un israeliano disabile. Ma quando la vittima è un palestinese, quasi tutto è concesso.

Il vero motivo
Negli ultimi anni almeno altri quattro palestinesi con disabilità simili sono stati uccisi dai proiettili dei soldati o della polizia. Un paio di settimane prima della morte di Halaq le forze di sicurezza israeliane avevano ucciso Mustafa Younis, cittadino palestinese di Israele con un disturbo psichico, all’ingresso del centro medico Sheba, uno dei più grandi ospedali israeliani, dopo che lui aveva accoltellato una guardia della sicurezza.

Younis avrebbe potuto essere arrestato, ma l’approccio importato dai Territori occupati in Israele impone che sparare sia la prima opzione delle forze di sicurezza, anziché essere l’ultima risorsa.

Ma sia chiaro: il punto non è che queste persone avevano una disabilità mentale. Non sono state uccise perché disabili; sono state uccise perché palestinesi.

I giornali e le tv israeliani insabbiano tutte le uccisioni ingiuste

Decine di palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nel corso dell’ultimo anno, uno dei più calmi nella storia del sanguinoso conflitto. In quasi tutti i casi, queste persone non rappresentavano una minaccia per nessuno; quasi tutti potevano essere arrestati, o al massimo feriti, invece che uccisi.

Due giorni dopo l’uccisione di Halaq, il padre mi ha detto che quando l’hanno informato che il figlio era stato ferito, sapeva già che era morto. “L’esercito e la polizia israeliani non feriscono mai, uccidono soltanto”, ha detto il padre durante il rituale funebre celebrato nel quartiere di Wadi Joz.

Tra i palestinesi uccisi nei Territori occupati negli ultimi mesi ci sono giovani donne che avevano tentato di usare delle forbici per attaccare membri delle forze di sicurezza ai posti di blocco; giovani uomini che avevano provato ad accoltellare un soldato ma erano riusciti a malapena a graffiarlo; persone che con l’automobile avevano danneggiato dei veicoli militari, forse accidentalmente, forse intenzionalmente; ragazzi che avevano lanciato pietre e a volte bottiglie molotov che non avevano ferito nessuno né causato danni; manifestanti disarmati e gente che cercava di entrare in Israele, e persone che non avevano fatto niente né avevano intenzione di fare niente, come Iyad Halaq, il giovane che la madre chiamava angelo.

Niente da raccontare
Non è un caso che in Israele quasi tutte le persone erroneamente prese di mira dalla polizia israeliana – che di anno in anno diventa sempre più violenta – sono cittadini palestinesi. A volte sono ebrei etiopi. Ogni volta che un ladro di automobili o un manifestante o qualcuno che ha un comportamento ritenuto sospetto o qualsiasi altra persona viene uccisa dalla polizia, quasi sempre si scopre che la vittima è araba.

Qui non si tratta di occupazione né di terrorismo. Qui la questione è il grilletto facilissimo quando il bersaglio è un palestinese. Oggi in Israele le vite dei palestinesi valgono meno di qualsiasi altra cosa.

I mezzi d’informazione sono i complici più spregevoli dell’occupazione e del razzismo in Israele. I giornali e le tv israeliani insabbiano tutte le uccisioni ingiuste, le minimizzano, le giustificano purché la vittima sia palestinese. La copertura mediatica di questi eventi è minima. Il messaggio è: un arabo morto, non c’è niente da raccontare, niente di interessante o niente di importante o entrambe le cose.

Anche nel caso di un’esecuzione sconvolgente come quella di Halaq, il racconto mediatico è completamente inadeguato. La storia è generalmente marginalizzata o semplicemente ignorata. Gli israeliani non vogliono sentirne parlare, e i mezzi d’informazione preferiscono non turbarli. Gli stessi mezzi d’informazione però ingigantiscono con grande clamore ogni circostanza in cui è un ebreo a essere ferito, facendone un racconto epico dell’apocalisse, amplificato a un livello difficile da immaginare.

Lavaggio del cervello
Poi ovviamente c’è la questione della punizione. Quando i palestinesi vengono uccisi dalle forze israeliane generalmente l’inchiesta o non viene neppure avviata oppure viene annunciata ma poi s’insabbia o si conclude senza esito. Il messaggio rivolto a soldati e poliziotti è chiaro: uccideteli pure, non vi accadrà nulla.

Intanto in Israele c’è l’onnipresente lavaggio del cervello, che comprende la disumanizzazione e la demonizzazione dei palestinesi. Ogni palestinese rappresenta, fino a prova contraria, un’imminente esplosione terroristica. Ogni palestinese ucciso è ucciso legittimamente, e i suoi carnefici erano davanti a una minaccia mortale.

Anche il linguaggio che descrive queste morti nei mezzi d’informazione israeliani racconta una storia diversa a seconda che la vittima sia un ebreo o un palestinese. Un palestinese non è mai “assassinato” da un soldato o da un colono. Un ebreo ucciso da un palestinese è sempre “assassinato”, anche quando si tratta di un soldato che fa irruzione nel mezzo della notte senza motivo nella casa di una famiglia.

Questa copertura fornita dalla collaborazione e dal lavaggio del cervello dei mezzi d’informazione, associata all’assenza di punizioni e ai valori razzisti così profondamente impressi nella coscienza israeliana, genera una situazione in cui la vita umana diventa senza valore.

Se domani un soldato o un poliziotto israeliano sparasse a un cane quasi certamente sarebbe punito più duramente che se avesse sparato a un palestinese. Anche nei mezzi d’informazione la morte di un cane randagio di solito è una storia più rilevante della morte di un palestinese.

Sparare a qualunque essere vivente, ovviamente, è sempre proibito. Ma quando un cane ucciso fa più scalpore della morte di un palestinese, c’è qualcosa di gravemente sbagliato.

Forse qui sta il nodo cruciale, la chiave per il cambiamento, la cui prospettiva continua ad allontanarsi sempre di più: finché le vite dei palestinesi avranno così poco valore per gli israeliani, che allo stesso tempo hanno giurato di proteggere la sacralità delle vite ebraiche, nessuna soluzione politica avrà successo, se mai un giorno si riuscisse a raggiungerne una.

Se ci sono valori che tengono la vita in così poco conto, che disumanizzano “l’altro”, e ne giustificano ciecamente l’uccisione ignorandone la persecuzione, non può esserci uguaglianza nelle coscienze. E senza uguaglianza non ci sarà mai la pace.

È questa la cosa fondamentale: che loro e noi siamo esseri umani uguali, con diritti uguali. E che questa visione oggi suona distante e irrealistica.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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