22 giugno 2018 10:12

Non esiste alcuna possibilità di un lieto fine per le elezioni di domenica prossima in Turchia. Quasi la metà esatta della popolazione adora il presidente Recep Tayyip Erdoğan, al potere dal 2002, mentre l’altra metà lo odia e ritiene che la sua vittoria significhi la morte della democrazia nel paese. Potrebbe effettivamente essere così, ma ciò non toglie che vincerà.

Erdoğan fa parte del gruppo dei nazionalisti saliti al potere nei paesi che, dopo la fine della guerra fredda, aspiravano alla democrazia. Da Vladimir Putin in Russia a Viktor Orbán in Ungheria, passando per Rodrigo Duterte nelle Filippine, questi uomini – dei populisti, come vengono definiti – rispettano le regole democratiche fino a quando non devono necessariamente barare.

Ma preferiscono vincere elezioni libere soffiando sul fuoco dell’odio verso le minoranze e gli stranieri, controllando la stampa con pugno di ferro. Di solito funziona. Per Putin, Orbán e Duterte, il nazionalismo più l’immagine di “uomo forte” producono vittorie elettorali senza alcun bisogno di truccare le elezioni, ma la Turchia è un osso più duro.

Circa la metà degli elettori turchi desidera ancora lo stato laico che aveva in passato

Se Erdoğan non si fosse presentato come il difensore dell’islam oltre che di valori etnico-nazionalisti, non avrebbe probabilmente mai vinto le elezioni in Turchia, e una maggioranza del 75-80 per cento, come quella di cui gode Putin, è comunque decisamente inarrivabile per lui. Il suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) non ha mai ottenuto neanche il 50 per cento dei voti alle elezioni politiche, e stavolta si presenta in coalizione con un altro partito ultranazionalista ma laico.

Circa la metà degli elettori turchi desidera ancora lo stato laico che aveva in passato, il che significa che lo zelo religioso di Erdoğan e l’aperta promozione dell’islam politico gli valgono l’antipatia di un numero di elettori quasi pari a quello dei suoi sostenitori. I suoi margini di vittoria si sono ridotti quando l’islamismo è diventato più visibile, e nelle ultime due elezioni l’Akp ha ottenuto solo il 40 per cento circa dei voti.

In un sistema pluripartitico che esclude dal parlamento tutti i partiti che ottengono meno del 10 per cento dei voti su scala nazionale, questo è bastato per dare all’Akp una maggioranza parlamentare, ma la cosa non sarebbe dovuta essere sufficiente a dargli una solida base per una dittatura elettiva.

Anche nel referendum costituzionale dello scorso anno, nel quale il consueto caos multipartitico era ridotto a una semplice opzione sì/no, Erdoğan ha ottenuto solo il 51,4 per cento dei voti. Sfortunatamente è stato abbastanza per permettere al referendum di avallare la proposta di Erdoğan di far passare la Turchia da un sistema di governo parlamentare a uno presidenziale.

Il referendum ha indebolito il parlamento, attribuendo al presidente poteri così forti da renderlo, in pratica, un dittatore eletto. Si è trattato di un cambiamento costituzionale al servizio delle ambizioni di un singolo uomo.

Per rendere effettivo questo cambiamento, tuttavia, servivano nuove elezioni presidenziali e parlamentari, in realtà previste solo per la fine del 2019. Percependo un imminente crollo del boom economico che ha sostenuto politicamente il suo partito per così tanto tempo (la lira turca ha perso quasi un quinto del suo valore negli ultimi due mesi), Erdoğan ha anticipato le elezioni. E il 24 giugno vincerà ancora.

Per essere più precisi, potrebbe ottenere la maggioranza al primo turno e vincere subito, ma in presenza di tre oppositori che attirano elettori molti diversi, è più probabile che debba ricorrere a un ballottaggio presidenziale l’8 luglio. Ciononostante, il senso è che un uomo che gode del sostegno di appena la metà degli elettori sta probabilmente per diventare, attraverso un processo formalmente democratico, il dittatore di fatto della Turchia. Come è possibile che accada una cosa del genere?

Accade perché il fallito colpo di stato del 2016 ha permesso a Erdoğan di dichiarare lo stato d’emergenza, d’incarcerare decine di migliaia di persone con fragili pretesti e d’imbavagliare la maggior parte dei mezzi di stampa liberi.

Sta accedendo perché Erdoğan ha riaperto la guerra contro la minoranza curda della Turchia nel 2015, ed è oggi libero di mettere in pratica politiche di soppressione degli elettori nel sudest del paese, dove i curdi sono la maggioranza della popolazione.

Accadrà perché l’invasione della Siria settentrionale da parte della Turchia, lo scorso gennaio, ha scatenato un’orgia di autocompiacimento nazionalistico nella stampa controllata dai mezzi d’informazione.

Ma resta il fatto che l’uomo forte turco non ha mai avuto il sostegno di più di metà della popolazione, e che l’altra metà lo odia profondamente. Oggi appare inarrestabile, ma i turchi sono più informati e più politicamente sofisticati di qualsiasi altro elettorato della regione.

L’inflazione è già in doppia cifra e l’economia è diretta verso il baratro, ma Erdoğan sarà probabilmente in grado di allontanare il malcontento per un po’ facendo leva su sentimenti nazionalisti e islamisti (in pratica è possibile fare entrambe le cose contemporaneamente, anche se in teoria la cosa dovrebbe essere quasi impossibile).

Il rovesciamento della promettente giovane democrazia turca da parte di Erdoğan è una tragedia. Ma non è necessariamente irreversibile.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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