14 marzo 2021 10:11

Hong Kong è tornata sotto controllo cinese da meno di ventiquattro anni. Questo, si direbbe, è stato il tempo massimo di semidemocrazia che la Cina ha potuto tollerare. Quando Hong Kong era una colonia, non c’era la democrazia, ma nel momento in cui passò dal Regno Unito alla Cina, nel 1997, aveva una stampa e un’editoria dinamiche e affamate di notizie. Le organizzazioni della società civile erano già numerose e forti (da allora si sono rafforzate ulteriormente). Le biblioteche dell’università erano una tappa obbligata per ogni studioso e le scuole, malgrado le critiche per l’eccessiva enfasi sulle lezioni da imparare a memoria, non indottrinavano i cittadini ad amare la patria, l’inno e la bandiera.

Hong Kong, una società di rifugiati, si era rivelata generosa ogni volta che la Cina era stata travolta da terremoti o inondazioni, ma anche da catastrofi umanitarie, come il massacro di piazza Tiananmen. La sua anarchia e la sua capacità di arrangiarsi ispiravano film strampalati in grado di portare le arti marziali nel mondo. E il suo attaccamento a una lingua minoritaria, il cantonese, sbugiardava chiunque dicesse che la Cina era una e unitaria. Se il cantonese inventa caratteri per trascrivere nuovi concetti, o ne ripesca di antichi per rispolverare espressioni tornate di moda, a Pechino i burocrati della lingua insistono nel dire che esiste una sola lingua cinese, quella parlata a nord, una sola serie di caratteri, e che tutto il resto è dialetto. Prima ancora che Taiwan riscoprisse la dignità delle sue lingue, Hong Kong usava giochi di parole incomprensibili a chi non voleva accettare la dimensione multiculturale della Cina.

Hong Kong vuole solo essere indipendente e avere libertà di esprimersi. E Pechino è stufa

Non è un necrologio, anche se può sembrarlo. Ma una riflessione esistenziale. Come si vive in un luogo che sta perdendo le sue libertà? O meglio: com’è giusto vivere in un luogo che sta perdendo la libertà?

Dalle proteste del 2019 a Hong Kong è tutto in bilico. I manifestanti hanno usato la loro energia, la loro rabbia e i loro corpi avvelenati da gas lacrimogeni e spray urticante per reclamare più forte possibile quello che gli era stato promesso e che pensano di meritarsi: un vero suffragio universale, la capacità di avere voce in capitolo sulla gestione pubblica di Hong Kong. Per Pechino questo è intollerabile. Soprattutto nell’era di Xi Jinping, l’uomo che per accentrare il potere su di sé e i suoi più fedeli alleati ha scompaginato tutto quello che era stato costruito da Deng Xiaoping in poi, in modo che niente possa metterlo in pericolo. Hong Kong è una zanzara molesta che tiene svegli di notte, di quelle che sembra di aver schiacciato e invece niente, ricominciano a ronzare nell’orecchio. Ma a differenza delle zanzare, Hong Kong non vuole succhiare sangue, vuole solo essere indipendente e avere libertà di esprimersi. E Pechino è stufa.

Il 6 gennaio 53 persone sono state arrestate con l’accusa di aver infranto la nuova e liberticida legge sulla sicurezza nazionale. Liberate su cauzione, 47 di loro sono tornate in prigione il 28 febbraio, e portate in tribunale per stabilire se possono attendere il processo in libertà (sembra di no). Fra loro, Gwyneth Ho, una giornalista presa a bastonate durante un’aggressione di sconosciuti contro i manifestanti, che ha continuato la diretta streaming anche da terra; Eddie Chu Hoi Dick, ambientalista che ha sfidato lo strapotere degli immobiliaristi, solidarizzando con i contadini espropriati delle loro terre; Lester Shum e Joshua Wong, leader delle manifestazioni del 2014; Jeffrey Andrews, il primo appartenente alla minoranza etnica ad aver cercato di candidarsi alle elezioni; Jimmy Sham, uno dei più rispettati attivisti per i diritti lgbt. Sono finiti sotto accusa per aver partecipato alle primarie di luglio in vista delle elezioni legislative, poi annullate.

Xia Baolong, del Partito comunista, ha annunciato che solo i patrioti, cioè chi ama la Cina e ama il partito, potranno candidarsi alle elezioni. Questa è la logica che sta dietro agli arresti: il partito ammette solo amici o nemici, come scrisse Carl Schmitt, uno degli ideologi e giuristi di Adolf Hitler oggi tanto apprezzato in Cina. Non ci sono vie di mezzo. Il potere è nelle mani del partito, e Hong Kong non può considerarsi un’eccezione. Le promesse fatte negli anni scorsi sono secondarie rispetto al concetto di sovranità assoluta, schmittiano anche quello. Nella visione della politica di Pechino, l’unica soluzione accettabile sono questi arresti e lo stravolgimento della legge elettorale, in modo che possano presentarsi alle elezioni solo i candidati approvati dalla Cina.

Quindi: come vivere, ora? La risposta che gira negli ultimi giorni sui social network è una lista di consigli: restare solidali; essere professionali; leggere molto; imparare un’attività artigianale; fare esercizio fisico; fare figli; studiare la storia mondiale; stringere amicizie con altre persone nel mondo; difendere la verità.

Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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