11 dicembre 2020 11:27

Esiste ancora un futuro per le istituzioni democratiche di Hong Kong? Ci sarà spazio per i partiti che si battono per la democrazia, come Demosisto, fondato nel 2016 da Joshua Wong e dagli altri leader del movimento degli ombrelli e recentemente sciolto? Sarà possibile organizzare imponenti manifestazioni di protesta come quelle del 2003, capaci di spingere le autorità a ritirare un disegno di legge anti-sedizione, o come quelle dell’anno scorso, cominciate con la lotta contro un’altra proposta di legge sgradita?

Queste domande sul destino della democrazia a Hong Kong non sono nuove, ma di recente sono diventate più urgenti.

Lo scorso giugno, dopo aver concesso per anni l’autorizzazione a organizzare veglie per ricordare il massacro di piazza Tiananmen del 1989, le autorità di Hong Kong hanno ribadito che qualsiasi manifestazione per commemorare quell’evento sarebbe stata illegale. Il 1 luglio Pechino ha imposto alla città una legge per le sicurezza nazionale ancora più dura rispetto a quella ritirata nel 2003 dopo le proteste. Nelle settimane successive la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha posticipato le elezioni del Consiglio legislativo (il parlamento locale) in programma per settembre, mentre Benny Tai, leader moderato del movimento degli ombrelli, è stato licenziato dal suo incarico all’università di Hong Kong. Il veterano di Demosisto Nathan Law, eletto al Consiglio legislativo e poi espulso per motivi politici, ha scelto la via dell’esilio a Londra. Tre attivisti con cui Law aveva collaborato ai tempi del movimento degli ombrelli – Joshua Wong, Ivan Lam e Agnes Chow – sono stati condannati il 2 dicembre per un atto di disobbedienza civile organizzato nel 2019. E la lista va avanti.

Alla luce di tutto questo è difficile dare una risposta ottimistica agli interrogativi sul futuro della democrazia, molto più difficile di quanto non sia mai stato dopo la “riconsegna” del 1997, che cambiò lo status di Hong Kong da colonia della corona britannica (che pur non essendo una democrazia poteva almeno contare su un solido stato di diritto, su una buona dose di indipendenza giudiziaria e su una totale libertà di espressione e associazione) a Regione amministrativa speciale (Sar) della Repubblica popolare cinese.

La città ha prodotto periodicamente movimenti di massa che hanno ottenuto vittorie importanti

Nei primi vent’anni dopo il 1997, Hong Kong ha continuato a non essere una democrazia, ma almeno c’erano tre motivi per essere prudentemente ottimisti. Il primo era la Legge fondamentale (la minicostituzione), che conteneva le linee guida per il governo di Hong Kong fino al 2047, quando è prevista la fine dello status speciale della città, e stabiliva che Pechino avrebbe garantito alla città le libertà di cui godeva e avrebbe concesso alla popolazione un peso sempre maggiore sulla gestione della città. In secondo luogo il Consiglio legislativo, anche se costruito in modo da assicurare la maggioranza alle forze vicine a Pechino, è stato comunque teatro di accesi dibattiti, e il blocco filodemocratico ha potuto fermare o rallentare l’introduzione di misure illiberali. Infine, la città ha prodotto periodicamente movimenti di massa che hanno ottenuto vittorie importanti.

Mentre il 2020 si avvia alla conclusione, quei tre motivi di ottimismo sono stati spazzati via. La Legge fondamentale appare inutile, perché i capi dell’esecutivo vengono scelti attraverso un processo pilotato in cui una piccola percentuale della popolazione ha la possibilità di scegliere tra candidati precedentemente “approvati” dall’alto. Inoltre, anche se la legge stabilisce che le normative sulla sedizione debbano essere decise a livello locale, Pechino ha preso l’iniziativa cercando di imporre una legge.

Il Consiglio legislativo è stato neutralizzato, non solo con il rinvio delle elezioni ma anche da una serie di espulsioni su basi politiche e dalle dimissioni in massa di tutti i parlamentari dell’opposizione (tranne due) in segno di protesta contro la trasformazione del parlamento in un’istituzione asservita a Pechino. Per quanto riguarda le manifestazioni, le autorità hanno respinto qualsiasi richiesta di organizzare raduni di protesta.

Il passato di Hong Kong dimostra quanto sia sbagliato escludere la possibilità di una svolta sorprendente

Anche se oggi è difficile trovare un motivo per essere ottimisti rispetto al futuro politico di Hong Kong, ci sono tre elementi che possono quanto meno non farci abbandonare la speranza. Il primo è dato dalle convinzioni religiose che confortano l’animo di Joshua Wong, Benny Tai e altri oppositori il cui attivismo si accompagna a una fede profonda. Wong, il cui nome è stato scelto dai genitori per onorare un eroe della Bibbia che non si è mai arreso alle difficoltà, inserisce spesso riferimenti biblici nei suoi interventi sui social network, mescolandoli ad allusioni alla cultura popolare che raccontano il trionfo inatteso di personaggi sfavoriti, come i film della saga di Star Wars, probabilmente per rivolgersi anche a chi non condivide il suo orientamento religioso.

Da non credente, penso che esistano altri due motivi per conservare la speranza. Uno è radicato nella storia delle lotte nei contesti coloniali, dall’India all’Irlanda e al Sudafrica, spesso vittoriose nonostante tutte le strategie sembrassero non avere alcun effetto. La Polonia ai tempi della legge marziale del 1981 e Taiwan all’epoca del terrore bianco imposto dal Kuomintang nel 1947 forniscono due analogie calzanti rispetto alla situazione attuale di Hong Kong. In entrambi i casi l’attivismo ha prodotto grandi risultati, anche se a Taiwan sono passati decenni prima dell’arrivo della democrazia.

Il secondo elemento incoraggiante per Hong Kong è specificamente legato alla città. Hong Kong ha una lunga tradizione nel sovvertire le previsioni, come ho sottolineato nel libro Vigil, Hong Kong on the brink, in cui ho elencato una serie di esempi a partire dal 1841, quando il ministro degli esteri britannico si convinse che l’isola, appena ottenuta dopo la Guerra dell’oppio, non sarebbe mai stata un grande polo commerciale. Quando vengo sopraffatto dal pessimismo cerco di ricordarmi che il passato di Hong Kong dimostra quanto sia sbagliato escludere la possibilità di una svolta sorprendente.

Un sedicenne nella storia
Quando penso alle previsioni sbagliate, mi viene in mente proprio Joshua Wong. L’ho incontrato in tre occasioni, e ogni volta ho pensato di sapere qualcosa sul suo futuro o su quello della sua città. Ma poi puntualmente sono accadute cose impreviste. Ho conosciuto Wong nel 2013. Aveva 16 anni e l’anno prima aveva guidato un movimento capace di bloccare una riforma scolastica patriottica in stile cinese, e in cui Agnes Chow e Ivan Lam avevano ricoperto un ruolo di primo piano. Ci siamo incontrati in un albergo insieme ai suoi genitori e a un mio amico docente di storia locale che per il ragazzo era una sorta di mentore. Il professore pensava che per Wong sarebbe stata una buona idea studiare in un’università californiana, e i
suoi genitori erano disposti ad ascoltare le possibili opzioni.

Alla fine della nostra conversazione feci una previsione che si rivelò sbagliata. Anche se il suo attivismo gli aveva regalato una certa notorietà, pensai che non sarebbe stato mai più così famoso. L’anno successivo, invece, Wong conquistò la copertina di Time come volto del movimento degli ombrelli.

L’ho poi ritrovato nel 2016, studiava all’università e aveva fondato un partito. Ci siamo incontrati in un caffè di Hong Kong insieme a due studenti, uno locale e l’altro statunitense. Durante la chiacchierata, lo studente americano ha invitato Wong a un grande evento sulla politica internazionale organizzato dalla sua università. Quel giorno credevamo che la sua presenza sarebbe dipesa dalle date degli esami primaverili. E invece la decisone fu presa da un tribunale. Ad aprile, infatti, il ragazzo era in attesa di una sentenza per la sua partecipazione ad alcuni atti di disobbedienza civile, e i giudici non gli permisero di lasciare la città.

L’ultima volta che ho visto Joshua Wong è stata nel 2018. Aveva 22 anni ed era in una fase della vita segnata dall’alternanza tra l’attivismo e il carcere. Abbiamo chiacchierato davanti a un museo dov’era appena finita una piccola manifestazione. La partecipazione era stata molto ridotta rispetto alle previsioni, e gli attivisti erano delusi. Mentre camminavo verso il mio albergo pensai che sicuramente ci sarebbero state altre manifestazioni più grandi di quella, che tra l’altro era stata annunciata solo il giorno prima. Ma ero anche convinto che difficilmente avrei assistito a una protesta paragonabile al movimento degli ombrelli. Mi sbagliavo.

Sette mesi dopo, il 9 giugno del 2019, una delle manifestazioni più partecipate nella storia di Hong Kong ha portato nelle strade della città più di un milione di persone contrarie alla legge sull’estradizione. Una settimana più tardi, le persone in piazza erano due milioni. La protesta del 16 giugno non è stata solo la più colossale che Hong Kong avesse mai visto, ma anche una delle più imponenti nella storia dell’umanità. Inoltre le manifestazioni del 2019 sono durate più a lungo rispetto ai 79 giorni di vita del movimento degli ombrelli.

Dall’era dell’impero Qing ai giorni nostri, in cui la Repubblica popolare cinese è saldamente nelle mani di Xi Jinping, Hong Kong ha sempre avuto la capacità di stupire. Questo non significa che il futuro sarà necessariamente roseo, ma di sicuro vale la pena fare attenzione a ciò che accade nell’ex colonia britannica e alle persone come Joshua Wong, che continuano a combattere una battaglia apparentemente proibitiva.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale Time.

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