13 aprile 2016 20:18

Spesso mi chiedono cosa penso del femminismo delle celebrità. In particolare, quando parlo con i giovani, mi chiedono cosa penso delle varie donne famose e dei loro fan che hanno adottato la parola che comincia per f da quando questa cosa è diventata di moda qualche anno fa. Nei giorni scorsi mi hanno chiesto di esprimere un giudizio su Emma Watson, Beyoncé e Kesha, la pop star che ha raccolto un enorme sostegno in rete dopo essersi scontrata con la sua casa discografica per avere il diritto di non fare musica con l’uomo che accusa di averla stuprata.

Pensavo che la missione del femminismo fosse sostenere le donne che combattono la misoginia strutturale in tutti i settori. A quanto pare mi sbagliavo. A quanto pare la missione del femminismo è determinare quali donne sono politicamente più pure e stilare un’apposita classifica, dopo averle giudicate in base al loro taglio di capelli e al loro orientamento sessuale.

Il femminismo ha invaso prepotentemente il mainstream, scatenando una sorta di crisi d’identità. Possiamo ancora essere radicali in un’epoca in cui le pop star usano con orgoglio la parola che comincia con la f? Possiamo ancora lottare per cose poco glamour come il congedo parentale e il diritto all’aborto quando Chanel fa marciare la sue modelle vestite da femministe? Si può continuare a criticare il patriarcato capitalista dopo aver acquistato una t-shirt con uno slogan femminista?

Le femministe vip sono vittime fin troppo facili della nostra intransigenza, perché sbagliano sempre. In parte sbagliano perché sono quasi tutte donne giovani e creative che vivono sotto la pressione costante dell’opinione pubblica. L’ultima a combinare un mezzo disastro in pubblico è stata Emma Watson, la giovane attrice e ambasciatrice dell’Onu conosciuta per aver interpretato Hermione Granger, “la strega più brillante della sua generazione” nei film di Harry Potter.

Diciamo le cose come stanno: Watson ha commesso un grave errore prestando il suo volto a una crema per schiarire la pelle nel 2013. A parte il fatto che una persona che ha a cuore l’uguaglianza non dovrebbe vendersi all’industria della bellezza, è stato un comportamento poco degno di Hermione. Tutta la faccenda è stata un passo falso, anche perché ha permesso a una penna malevola (la mia) di scrivere che Watson era la “strega più chiara della sua generazione”.

In quell’occasione sono stata cattiva e non ne vado orgogliosa, e tutto questo non è certo servito a combattere il patriarcato. Vorrei chiedere scusa a Emma Watson. Mi ricordo quando la vedevo a Oxford, seduta alla fermata dell’autobus da sola. Probabilmente oggi non può più prendere l’autobus, perché quando non viene perseguitata da orde di fotografi sessisti o dai pervertiti che la seguono da quando era adolescente, deve affrontare le femministe snob come me che si sentono tanto superiori perché leggevano libri di teoria mentre lei era occupata a fare la bambina-star.

Solo perché ero femminista quando il femminismo non andava ancora di moda non significa che posso permettermi di fare la spocchiosa. Penso che l’analisi di Watson sia un po’ superficiale, ma in questo mondo allo sbando bisogna pure che qualcuno si metta un abito elegante e dichiari che le donne sono esseri umani, in modo che noialtre possiamo continuare a dedicarci a mettere in discussione la divisione di genere e la disuguaglianza di reddito. Cercare di sviluppare la propria politica sotto i riflettori è come essere costretti a suonare a prima vista uno spartito davanti a migliaia di spettatori, metà dei quali ti gridano insulti da ogni parte.

Anche le donne famose vivono in un sistema le cui regole non sono state scritte da loro

Certo, Watson ha sbagliato. Ma poi si è giustamente scusata per aver promosso la vendita di prodotti “che non sempre riflettono la diversa bellezza di tutte le donne”.

Ma se questi sono gli Hunger games del femminismo, non dobbiamo dimenticarci chi è il vero nemico: le aziende che fanno soldi a palate dicendoci che dobbiamo essere più magre, più belle e più bianche. Certo, mi piacerebbe che Watson facesse qualcosa di più. Mi piacerebbe che Lena Dunham facesse qualcosa di più. Mi piacerebbe poter fare di più anch’io. Tutte potremmo fare qualcosa di più, ma non ci riusciremo mai se pensiamo che la caccia alle streghe faccia parte della nostra attività politica e se ci giudichiamo troppo severamente quando indossiamo un abito o prendiamo una decisione che non sembra “appropriatamente femminista”. È la stessa logica sbagliata secondo cui chi ha uno smartphone o in un momento di debolezza ha permesso a una goccia di cappuccino imperialista di Starbucks di insinuarsi tra sue labbra non può essere anticapitalista.

E poi c’è Kesha.

Io impazzisco per Kesha. Kesha è una donna allo sbando, stramba e sexy che scrive il suo nome con il simbolo del dollaro, canta canzoni che parlano di sbronzarsi e fare festa tutta la notte e piange continuamente in pubblico. Nessuno penserebbe mai a Kesha come a un’icona femminista, ed è proprio per questo che è fantastica.

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Per il femminismo non è importante chi siamo, ma cosa facciamo. In questo momento Kesha è una femminista nel modo più coraggioso e importante che ci possa essere: è una femminista perché si rifiuta di salvare la sua carriera ritirando le accuse contro il suo produttore. Con questo semplice atto di coraggio sta ispirando un’intera categoria e milioni di donne a ribellarsi contro gli abusi. Non importa se Kesha si considera o meno una femminista. Non importa se ha letto Il secondo sesso. Non importa se è ricca e famosa e si veste come una spogliarellista pazza. In realtà il suo abbigliamento aiuta.

Anche le donne famose vivono sotto il patriarcato, devono fare compromessi per sopravvivere e lavorano in un sistema le cui regole non sono state scritte da loro. Molte di loro sono giovani e vulnerabili. La battaglia di Kesha in tribunale ci ricorda in che mondo viviamo.

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Il patriarcato impone alle donne standard irraggiungibili e le umilia quando non riescono a raggiungerli. Il femminismo deve evitare di fare lo stesso. E se “femminismo pop” significa che una giovane donna può lottare contro la cultura dello stupro, sfidare la disuguaglianza di un’intera industria e pretendere di essere creduta, allora io sono con lei. Tu canta che io ballo. #FreeKesha.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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