15 giugno 2016 19:59

Sono stati giorni difficili. I titoli di giornale erano già abbastanza deprimenti prima di domenica mattina, quando abbiamo scoperto che 49 persone erano state massacrate in un locale gay di Orlando. Quella mattina sono stata svegliata dai singhiozzi della mia coinquilina.

Era terrorizzata e furiosa. In quel momento nessuno sapeva chi fosse l’attentatore: sapevamo solo che era probabilmente un uomo e che odiava i gay abbastanza da entrare in un locale notturno con un fucile d’assalto e mettersi a falciare le persone. Poi abbiamo scoperto che era un musulmano misogino che picchiava la moglie. È passato un altro po’ di tempo e abbiamo scoperto che era un omosessuale quasi dichiarato che contattava altri uomini sui siti d’incontri e frequentava regolarmente il Pulse, il locale della strage. Vergogna, fanatismo, disprezzo per se stessi. Una cultura della paura che risponde al progresso con l’intolleranza. È da qui che viene la violenza. Anche da qui.

Ho messo su un tè e ascoltato la mia coinquilina che piangeva per i morti di Orlando, per la consapevolezza del fatto che non siamo così al sicuro come la nostra comunità a volte ci permette di credere e anche per se stessa. Lei ha dichiarato la sua omosessualità da poco, dopo essere riuscita a fuggire dalla versione del futuro in cui avrebbe sposato un uomo, avrebbe cresciuto un paio di figli in periferia e sarebbe stata lentamente schiacciata dal peso di una vita non vissuta. Piangeva di sollievo, rimpianto, rabbia e dolore, mentre io l’abbracciavo e dicevo “lo so, lo so”. Io non piangevo. Non piango davanti agli altri. Le lacrime mi si bloccano nel cuore e devo isolarmi per tirarle fuori.

Ho aperto Twitter e ho visto una marea d’amore e lutto scontrarsi con le ondate del pregiudizio e della violenza. Ho twittato il mio dolore per le vittime. Ho parlato brevemente del mio rifiuto, simile a quello di milioni di persone lgbt di tutto il mondo, di trattare questa tragedia come un’occasione per produrre altro odio. Per qualche ora mi hanno detto che merito di morire e che ho le mani sporche di sangue perché mi rifiuto di dare la colpa all’“islam radicale” per questo crimine d’odio omofobo.

C’è omofobia in Afghanistan come negli Stati Uniti, nell’islam come nella cristianità e nell’ateismo

Le minacce di morte e gli abusi che ho ricevuto e continuo a ricevere, come migliaia di giornalisti gay e antirazzisti, non possono essere paragonati alla tragedia di perdere la propria vita o quella di una persona amata a causa della violenza omofoba. E queste aggressioni non sono certo rare. Fanno parte della nostra vita quotidiana in una società che tollera il pregiudizio violento. E per le persone di colore è ancora più dura. I musulmani gay, in particolare, si stanno sentendo dire che non dovrebbero esistere o non esistono e subiscono l’intolleranza di tutti gli schieramenti.

C’è omofobia in Afghanistan come negli Stati Uniti, nell’islam come nella cristianità e nell’ateismo. C’è omofobia nei media tradizionali e su internet, sul posto di lavoro e a casa. Tutta questa omofobia è intollerabile e distrugge vite umane. A volte può distruggere una vita nel giro di pochi secondi. Un colpo in testa, uno sparo nel buio, l’orrore. Altre volte distrugge una vita poco a poco, isolando e consumando fino a quando non resta altro che vergogna e autodistruzione.

Un anno fa la comunità lgbt globale celebrava un grande risultato: gli Stati Uniti avevano finalmente garantito il diritto al matrimonio omosessuale. Quest’anno invece le manifestazioni del gay pride saranno funestate dall’ombra del peggior massacro di omosessuali da quando abbiamo memoria, e ci diranno che dobbiamo rispondere con l’odio.

Per tutto il giorno la rabbia ha scavato dentro di me come un’ulcera. Cinquanta persone uccise e i fascisti che usano i loro corpi ancora caldi per costruire odio contro gli immigrati e gli emarginati. L’ipocrisia di una cultura che tollera il fanatismo religioso contro i transessuali e gli omosessuali finché è il tipo giusto di fanatismo religioso. Apologeti di una società in cui vengono messe le bombe nei locali che osano permettere ai trans di utilizzare il bagno, convinti che l’omofobia non appartenga a questa società.

Persone eterosessuali che per anni hanno tormentato i trans e i gay e ora decidono che hanno il diritto di parlare per i gay morti sfruttando la tragedia a fini politici. È quello che si definisce “pinkwashing”. E poi lo spettacolo del giornalista gay Owen Jones che ha abbandonato un dibattito televisivo quando gli altri ospiti si sono rifiutati di ammettere che la strage di Orlando aveva a che fare con l’omofobia. L’insopportabile faccia tosta di chi ha passato anni a tormentare i gay e improvvisamente decide di avere a cuore le persone lgbt e di sapere meglio di noi qual è il significato di questo attacco e come dovremmo rispondere.

L’uso e abuso del lutto lgbt al servizio dell’odio. Bisogna proprio che lo dica: penso che ci siano un sacco di brutte persone a cui non dispiace affatto che 49 persone siano state uccise in locale gay. Attaccare i musulmani è già il passatempo preferito dei neocon e dei fanatici di tutto il mondo, quindi dev’essere fantastico poterlo fare quando le vittime sono persone che non hai mai considerato davvero umane.

In questa lotta la sopravvivenza non è un’opzione. La sopravvivenza è la lotta

Non riuscivo a smettere di pensarci. Così sono andata a Soho, il cuore della comunità gay di Londra, per una veglia di solidarietà. Sono arrivata con un’ora di anticipo e ho trovato una folla di gente in Old Compton Street. Non avevo mai visto quella strada così affollata e così silenzioso. È la stessa Old Compton Street dove ho passato il tempo con i miei amici lgbt seduti sul marciapiede a bere e fumare, a condividere i traumi personali che ci hanno portati a questo punto, ad ascoltare storie di quanto fosse difficile un tempo e di come la gente riusciva a tirare avanti.

Ecco qualcosa a proposito della comunità gay che non è scontato per chi ne vive al di fuori: siamo abituati a sopravvivere. Sopravvivere, aiutarci tra noi e consolarci nella tragedia e nella violenza sono tutte cose che fanno parte della nostra lotta. È proprio questo la lotta.

Una donna reggeva un cartello con su scritto “tutte le vite contano: gay, neri, musulmani, latini”. Era stanca di tenerlo e un bellissimo ragazzo si è offerto di farle da bracciolo. Poi è cominciato il silenzio. Migliaia di anime ammassate in pochi metri di strada, e il silenzio più totale, come il respiro prima della pioggia. Il calore e la gloria di quel silenzio. Uno striscione sopra la folla: “l’amore vince”.

Da qualche parte qualcuno ha cominciato a cantare, in armonia, con forza. La canzone era Bridge over troubled water, e la cantava un coro lgbt che aveva provato per ore in vista del momento in cui le voci si sarebbero innalzate nella folla silenziosa facendo scorrere le lacrime. La canzone era azzeccatissima. Una canzone che tutti conoscono ma nessuno ricorda bene, una canzone in cui tutti si accodano su “I will lay me down”.

Accanto a me c’era un uomo bianco sulla quarantina con un cartello: “Sono gay e religioso, fatevene una ragione”. Accanto a lui c’erano un ragazzo con un copricapo islamicoe una ragazza. “Il mio amico è musulmano”, ha detto lei rivolgendosi all’uomo. “Possiamo reggere il tuo cartello e farci una foto?” L’uomo ha passato il cartello tra la folla. “Sia ringraziato il cielo”, ha detto.

Il silenzio di Old Compton Street è stato interrotto dalle esultanze quando i palloncini color arcobaleno sono saliti nel cielo grigio. Corpi pressati contro di me, sopra di me, mani che si stringevano, persone che si baciavano. Sono alta un metro e cinquantacinque, e in quella folla mi sentivo circondata da una fitta giungla di umanità. Questa volta la folla era più arrabbiata, più orgogliosa e ben vestita di altre volte.

Ho guardato i palloncini alzarsi in cielo e ho sentito la rabbia che mi aveva tormentato tutto il giorno abbandonarmi. L’orrore. Se n’è andato via, è salito in cielo sopra la città, la convinzione che il mondo sia un luogo oscuro, quel dolore senza speranza. Ma in quel luogo ho trovato un orgoglio silenzioso, un amore silenzioso.

E allora ho pianto. In quel momento kitsch e meraviglioso, da sola nella folla, mi sono portata le mani al volto e ho pianto. Un estraneo mi ha stretto il braccio. Ho dato una pacca sulla spalla di qualcuno. Poco lontano, qualcuno che conosco e che in una giornata qualunque mi avrebbe fatto solo un cenno di saluto, ha richiamato la mia attenzione in modo spasmodico e ci siamo abbracciati senza dire niente.

Ci ho messo mezz’ora a percorrere i trenta metri che mi separavano dalla mia coinquilina. Ci siamo abbracciate e lei ha detto “Va bene essere come siamo, è ok”. Io ho risposto “Lo so”. Se non avete mai avuto difficoltà a dire una cosa del genere a causa di chi siete o della persone che amate o di qual è il vostro aspetto, per il momento potete tenervi per voi le vostre fottute opinioni.

Le vittime del Pulse sono state massacrate perché erano gay o perché erano in compagnia di gay o perché servivano da bere ai gay. Ma il risultato del gesto di quel vigliacco che picchiava la moglie sarà solo più amore, più solidarietà, la dimostrazione che i gay di tutto il mondo continueranno ad aiutarsi tra loro, perché in questa lotta la sopravvivenza non è un’opzione. La sopravvivenza è la lotta. L’amore vince quando meno te l’aspetti.

Quest’amore che vince è qualcosa di più che un amore tra individui che casualmente appartengono allo stesso sesso. Quest’amore che vince è l’amore che i gay di tutto il mondo provano gli uni per gli altri quando arriva la tempesta. Più intenso dell’odio e della violenza, più forte di ciascuno di noi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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