19 settembre 2017 10:23

Dicono che il mondo non sia mai stato così vicino alla distruzione come quel giorno. Era il 26 settembre 1983 e il presidente Ronald Reagan stava facendo un’arringa alle Nazioni Unite contro i comunisti, la Francia continuava a porre il veto all’ingresso della Spagna in Europa, i dittatori argentini si autoconcedevano un’amnistia e Simon & Garfunkel si separavano per sempre. Quel giorno, in Spagna, un centro commerciale stava per essere inaugurato a La Vaguada e si temevano attacchi terroristici; la nuova legge sull’istruzione voluta dai socialisti, che diminuiva il peso della religione nelle scuole, era al centro degli attacchi dei vescovi e dei politici dell’Alianza popular.

Quel giorno, Stanislav Petrov aveva 44 anni ed era un tenente colonnello dell’esercito sovietico responsabile del centro di rilevamento di attacchi nucleari dell’Unione Sovietica. Da quel bunker gestiva l’immensa rete di radar, satelliti, tecnici e analisti che cercavano di proteggere il loro territorio dai missili atomici statunitensi. Alla mezzanotte di quel giorno, nel centro scattò l’allarme: i computer avevano rilevato un missile in volo verso la Russia a 24mila chilometri all’ora. Petrov chiese conferma; i computer insistevano, ma i satelliti non vedevano il missile. Petrov credette (erano altri tempi) che le macchine e gli algoritmi potessero sbagliarsi. Decise di aspettare: nei cinque minuti successivi scattarono altri quattro allarmi. Uno solo di quei missili aveva il doppio del potere esplosivo di tutte le bombe della seconda guerra mondiale.

Dev’essere così strano sapere che se si prende la decisione sbagliata a pagare sarà l’umanità

Dev’essere così strano pensare di avere il destino del mondo nelle proprie mani. Se Petrov avesse seguito il protocollo e avesse avvertito i suoi superiori, nel giro di pochi minuti centinaia di missili russi sarebbero stati lanciati verso il territorio americano. In un’ora la guerra nucleare avrebbe ucciso decine di milioni di persone. Petrov aspettò. I computer ratificavano i dati, ma non c’era una conferma visiva. Dev’essere così strano sapere che se si prende la decisione sbagliata a pagare sarà l’umanità.

Stanislav Petrov era nato a Vladivostok nel 1939; non gli piaceva fare il soldato, ma per lui era stato sempre un lavoro facile. Salvo in quel momento: non c’era spazio per i dubbi. Decise che l’allarme doveva essere un errore: non era ragionevole che gli americani lanciassero solo cinque missili e non, come tutti prevedevano, centinaia. Alcuni minuti dopo il radar confermò che non era in corso nessun attacco.

Petrov aveva appena salvato il mondo. Il mondo non lo seppe, e tirò dritto come se niente fosse. I militari russi mantennero il segreto: il loro sistema di difesa aveva dimostrato una falla troppo grossa per parlarne apertamente, e per questo l’abbiamo saputo solo vent’anni dopo. Per una strana ragione venire a sapere di queste cose non ci spinge a domandarci quante altre ne ignoriamo: a chiederci cosa succede oggi che sapremo, forse, un giorno.

Le bombe sono ancora lì
Stanislav Petrov non durò molto di più nell’esercito. Sua moglie morì e lui chiese di andare in pensione. È diventato un vecchio collerico, fumatore, noioso, chiuso in un piccolo appartamento nei dintorni di Mosca, stufo del fatto che tutti vogliano parlare solo di quel quarto d’ora. Inoltre non sembra avere molto più da raccontare oltre a quel quarto d’ora, quando la sua felicissima scelta fu non fare niente; quando decise che l’inazione era la migliore azione possibile. Fu un caso che fosse lui il responsabile; forse un’altra persona avrebbe seguito alla lettera il protocollo, forse il mondo non esisterebbe più. La sua vita è quel quarto d’ora, ma quel quarto d’ora salvò il mondo: sono poche le vite – così piene, così vuote – che hanno deciso così tanto.

Le bombe sono ancora lì: gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia, il Regno Unito, l’India, il Pakistan e la Corea del Nord hanno migliaia di bombe in grado di distruggere tutto. Ma per qualche ragione sembra che la cosa non ci preoccupi più. Eppure siamo, come sempre, in mano a un caso sconosciuto.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine domenicale del quotidiano spagnolo El País il 31 agosto 2017. Il 9 settembre il quotidiano tedesco Westdeutsche Allgemeine Zeitung ha dato la notizia che Stanislav Petrov era morto il 19 maggio 2017.

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