22 maggio 2018 10:10

Di questi tempi, una cosa di cui quasi tutti sembrano assolutamente certi – lo so, è un po’ contraddittorio – è che è sbagliato essere assolutisti. Pretendere qualcosa dal mondo per poi arrabbiarsi se non soddisfa perfettamente le nostre richieste non è un modo per vivere felici. Come non lo è vedere tutto in bianco e nero o rifiutare l’amicizia di chiunque non condivida punto per punto le nostre opinioni.

L’assolutismo non è sano neanche quando è rivolto verso noi stessi e si manifesta come perfezionismo. Eppure, per semplicità, tutti tendiamo a pensare in modo assolutistico: siamo quello che gli psicologi chiamano “avari cognitivi”, cioè ci aggrappiamo a regole semplici per affrontare quello che altrimenti sarebbe un mondo eccessivamente complesso.

Questo spiega perché i bambini piccoli, che stanno ancora cercando di trovare il loro posto nel mondo, sono così conservatori – “I maschi non giocano con le bambole!”. O, se è per questo, spiega anche il motivo per cui probabilmente per farmi leggere un libro fantasy si dovrebbe usare la forza fisica. Non è che io sia convinto che tutte le opere di quel genere siano insopportabili, è solo che nessuno di noi potrebbe sopravvivere senza un intero arsenale di queste scorciatoie cognitive.

Purtroppo però, quando è spinto all’estremo, questo atteggiamento così comune comincia a impedirci di funzionare: è sempre più dimostrato che il pensiero assolutista potrebbe essere una delle cause della depressione. Almeno è quanto sostiene un recente studio condotto dagli psicologi dell’università di Reading, Mohammed al Mosaiwi e Tom Johnston, i quali hanno analizzato il linguaggio usato da 6.400 persone in vari forum online in cui si parla di salute mentale e hanno scoperto che, rispetto ai gruppi di controllo, l’uso di parole come “tutto”, “completamente”, “nulla” e “costantemente” era il 50 per cento più frequente nei forum sull’ansia e la depressione, e l’80 per cento più frequente in quelli sulle intenzioni suicide (è anche stato rilevato che le persone depresse usano più pronomi personali come “io” e “me”, ma la presenza del linguaggio assolutista era più rilevante).

Ovviamente, correlazione non significa per forza causalità. Però hanno riscontrato che perfino persone al momento non depresse ma che lo sono state in passato usano più spesso quelle parole. Il che fa pensare che l’assolutismo sia un tratto persistente, che rende vulnerabili alla depressione, più che un atteggiamento in cui si cade solo quando si è depressi.

È facile capire perché l’assolutismo può renderci infelici: più la nostra mappa del mondo è rigida – su come sono le cose, come dovrebbero essere, quanto dovremmo essere bravi, come dovrebbero trattarci gli altri – più possibilità ci sono che non coincida con il caos della realtà. Il che ci fa capire molte cose non solo sulla depressione, ma sull’attuale situazione politica, dominata com’è da personaggi che sembrano assolutamente sicuri di se stessi.

È naturale desiderare leader che abbiano un progetto chiaro. Ma come dice l’economista radicale Charles Eisenstein, quando “la società ha raggiunto un punto in cui i soliti piani e le solite risposte non funzionano”, questa chiarezza diventa un punto debole. “Un leader che pensa di sapere quello che deve fare, ma in realtà vuole semplicemente ripetere il passato non è di grande utilità. Forse avremmo davvero bisogno di qualcuno che dica ‘Non so cosa fare’”.

Quando la nostra mappa del mondo ci porta regolarmente fuori strada, la prima cosa da fare è gettarla via.

Da ascoltare
Sarebbe meglio se i nostri leader politici ammettessero di non sapere cosa fare? Charles Eisenstein ne discute nel suo intervento intitolato The fertile ground of bewilderment.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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