20 novembre 2018 13:07

Se vogliamo che il nostro matrimonio sia felice dovremmo prima convivere? Una domanda interessante, forse, per chiunque sia dotato di chiaroveggenza o avesse letto questo articolo negli anni settanta. Ma di questi tempi è una scelta piuttosto comune, se si escludono le persone particolarmente religiose, per le quali probabilmente il problema non si pone neanche.

Eppure, secondo un gran numero di ricerche, compreso uno studio pubblicato lo scorso settembre, chi ha convissuto corre di più il rischio di divorziare. Ovviamente ci sono anche studi che sostengono l’esatto contrario, tra cui uno uscito in ottobre che, incredibilmente, usa gli stessi dati di quello di settembre. Lungi dall’aver trovato un accordo, sembra che i ricercatori si guardino in cagnesco da una parte all’altra del salotto chiedendosi se vogliono veramente passare i prossimi quarant’anni della loro vita a sentir dire queste sciocchezze.

Uno dei motivi di questa discrepanza non ha niente a che vedere con la convivenza, ma piuttosto con il tipo di persone che siamo quando decidiamo se andare o meno a convivere. Chi è molto religioso ha meno probabilità di fare questa scelta e di separarsi se le cose non vanno bene, mentre chi è più anticonformista e si diverte a scandalizzare gli anziani della famiglia andando a convivere, di sicuro sarà anche più disposto a contemplare l’idea del divorzio.

Quella di convivere sembra la scelta più facile, meno impegnativa, spesso legata a una necessità economica

Questo spiega in parte perché la combinazione convivenza-divorzio sembra sempre meno frequente che in passato: oggi, grazie al cambiamento delle norme sociali, gli anticonformisti, per loro natura più aperti all’idea del divorzio, non sono più gli unici a convivere prima del matrimonio. E comunque, da altri studi è emerso che il fattore cruciale non è né il matrimonio né la convivenza, ma l’età: qualunque forma di “sistemazione” scegliamo, è meno probabile che funzioni se prendiamo la decisione da molto giovani.

Se c’è un collegamento diretto tra convivenza e fallimento del matrimonio, probabilmente è dovuto al nostro atteggiamento mentale nei confronti dell’impegno. Quella di convivere sembra la scelta più facile, meno impegnativa, spesso legata a una necessità economica.

Solo una prova?
Ma da questo nascono due problemi. Uno è la questione dei costi irrecuperabili: una volta fatta la cosa più facile per anni, non abbiamo il coraggio di gettare via tutto quell’investimento di tempo, anche se dovremmo farlo. L’altro, come sostengono alcuni analisti, è che la convivenza non è una buona prova di matrimonio, perché ogni volta che si crea un motivo di tensione non ci sembra necessario affrontarlo di petto. Ci diciamo, più o meno consciamente, che in fondo è solo una prova, e che possiamo smettere in qualsiasi momento, quindi non cerchiamo di capire se siamo veramente compatibili, e rischiamo di sposare la persona sbagliata.

Per fortuna, come dice Alain De Botton in un suo saggio giustamente apprezzato, sposeremmo comunque la persona sbagliata, che rifiuterà di conformarsi alla visione ideale che abbiamo di lui o di lei o di difenderci dalla nostra stessa follia, frustrerà i nostri progetti di vita, non per cattiveria, ma semplicemente perché, come noi, è un essere umano (a meno che non lo faccia davvero per cattiveria, nel qual caso è meglio liberarsene). “Scegliere a chi affidare la nostra vita consiste semplicemente nel capire quale particolare tipo di sofferenza siamo più disposti ad accettare”, conclude de Botton. E uno dei momenti più illuminanti della vita adulta, aggiungerei, è quello in cui ci rendiamo conto di quanto è vero.

Consigli di lettura
Attached, di Amir Levine e Rachel Heller, osserva i rapporti di coppia attraverso la lente della “teoria dell’attaccamento”, sostenendo che capire qual è il nostro stile affettivo – sicuro, ansioso, sfuggente – è l’unica chiave per un matrimonio felice.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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