30 aprile 2019 13:13

Avete sentito parlare delle nuove startup che stanno rivoluzionando l’industria dei matrimoni? Probabilmente no, in realtà, perché come ha riferito il sito statunitense Vox qualche giorno fa, l’industria dei matrimoni ha dimostrato quanto siano frustranti i tentativi di rivoluzionarla.

A prima vista la cosa appare sconcertante: come è possibile non fare soldi in un settore che ha un giro d’affari annuale di quasi 200 miliardi di euro e che abbonda di coppie innamorate e senza preoccupazioni di spesa?

Eppure non esiste ancora una “Uber per i matrimoni”. Il motivo è illuminante, e il modo migliore per capire come la moderna economia tecnologica ci sta cambiando, sul piano psicologico, è osservarne i fallimenti.

Due inconvenienti
Dal punto di vista della Silicon valley i matrimoni presentano due grossi inconvenienti. Il primo è che avvengono in luoghi fisici (e le persone vogliono davvero che questo elemento funzioni: la cornice dell’evento rappresenta di solito, e di gran lunga, la singola spesa più alta). Non possono quindi essere ingannate con qualche esperienza virtuale alternativa, in cui i margini di profitto sono più alti, come Amazon, per esempio, che riduce i costi rinunciando ai negozi reali.

Il secondo, e ancor più decisivo, inconveniente, è che la maggior parte delle persone si sposa solo una volta, magari due. Non può esistere quindi una fidelizzazione dei clienti. Come ha dichiarato a Vox il disilluso fondatore di una startup per matrimoni: “Non bisogna dimenticarsi che i clienti se ne vanno dopo un anno e che bisogna procurarsene di nuovi”.

All’economia digitale servono clienti dipendenti dai suoi servizi, e di solito il matrimonio non crea dipendenza

Cosa ci dice questo a proposito di tutte quelle situazioni in cui la tecnologia digitale regola le nostre vite? Questo: che per trionfare, le aziende devono alimentare la compulsività dei loro utenti. Facebook ha bisogno di rendervi dipendenti, perché il suo modello d’affari si basa sul vendere la vostra attenzione ai suoi inserzionisti. Per Uber è fondamentale che siate dipendenti dalla convenienza dei prezzi (in modo da preferirla a una normale azienda di taxi), ma anche che vi sembri sempre più necessario prendere un taxi.

Nell’economia digitale ipercompetitiva, alimentata da investitori che cercano guadagni mirabolanti rispetto al denaro speso, non basta più creare un prodotto allettante e avere delle persone che di tanto in tanto lo acquistino (è questo il modello d’affari tradizionale, tra gli altri, dell’industria tradizionale dei matrimoni). A questa economia servono persone dipendenti dai loro servizi. Ma se è possibile spingere le persone a usare i social network compulsivamente, in modo che ogni sera facciano un ordine con Deliveroo e smettano solo per chiamare un’auto di Uber che le porti al pub, la dipendenza da matrimoni rimane una rarità.

Esiste un altro settore nel quale è utile analizzare le difficoltà della Silicon valley: i sex toy. I sex toy “intelligenti” collegati a internet non sono stati un fiasco totale. Ma non è stato facilissimo venderli, perché gli utenti si sono resi conto all’improvviso di non poter ignorare che i loro dispositivi monitorano le loro azioni e raccolgono informazioni sul loro conto. Certo, lo fanno anche Gmail, Uber, Spotify. Ma finché i dati intimi raccolti non sono davvero i più intimi che esistano è possibile non pensarci.

La morale non è che la tecnologia digitale è malvagia. Semmai, bisogna tener conto che quando ricevete un’offerta che sembra vantaggiosa (un social network gratuito, taxi a buon mercato e così via) è quasi certo che stiate comunque pagando con una dipendenza, un servizio peggiore o la perdita della vostra privacy. A quanto pare, nei matrimoni e nel sesso le persone non sono ancora disposte ad accettare questo genere di accordo. Almeno per adesso.

Da leggere
In un episodio del podcast Recode di Kara Swisher, Roger McNamee, un ex mentore di Mark Zuckerberg, sostiene che noi consumatori siamo il “carburante” dei giganti della tecnologia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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