07 gennaio 2020 13:19

La domanda implicita nelle riflessioni che molte persone fanno all’inizio di gennaio è: come intendo – o come dovremmo collettivamente – usare il prossimo anno? Potreste rispondere: per rimetterci in forma, trovare l’anima gemella o guadagnare un milione di dollari vendendo online agli idioti snack virtuali al cavolo riccio. Oppure potete pensare di dedicarvi all’attivismo, o semplicemente a tirare avanti rimanendo moderatamente sani di mente in questi tempi difficili.

Vale però la pena osservare che tutti questi diversi obiettivi partono dallo stesso presupposto, talmente basilare da sfuggirci: e cioè che il modo migliore di affrontare il tempo sia quello di considerarlo come qualcosa da usare.

Ma è davvero così? Il problema è che se affrontiamo il tempo solo come qualcosa da usare, finiamo per vivere permanentemente concentrati sul futuro. Più cerchiamo di tirar fuori qualcosa dalla vita, più siamo impegnati emotivamente ad aspettare il momento in cui raggiungeremo quell’obiettivo che, necessariamente, non è mai adesso. In altre parole, più ci sforziamo di rendere significativa la vita, più diventa impossibile trarre un senso dal presente.

Fallace e illusoria immortalità
John Maynard Keynes l’ha spiegato bene in un famoso saggio del 1930 (nel quale, va detto, sosteneva anche che a quel punto della storia si sarebbe dovuto lavorare solo 15 ore alla settimana). “L’uomo concentrato su un obiettivo”, scriveva, “cerca sempre di assicurare una fallace e illusoria immortalità alle sue azioni proiettando il suo interesse avanti nel tempo. Non ama la sua gatta, ma i gattini che partorirà; anzi, a dire il vero, neanche i gattini, ma i gattini dei gattini, e così via all’infinito”.

Se il lato positivo di questo atteggiamento è che sentiamo di avere più controllo sulla nostra vita, quello negativo è che non ce la godiamo veramente mai.

Certi maestri spirituali, che aderiscono alla filosofia delle “non-dualità” andrebbero oltre. Direbbero che l’idea stessa di “usare il tempo” si basa sull’illusoria separazione tra “noi” e il tempo che stiamo cercando di usare.

Dal punto di vista individuale, tutto quello che esiste in un determinato momento è solo quello che stiamo vivendo: un formicolio nella gamba, la vista del tavolo della cucina, l’allarme che è scattato per strada, una vaga irritazione se qualcuno ci chiede di prendere in considerazione queste bizzarre idee new age. E allora non è un po’ strano decidere che alcune di queste percezioni siamo noi, e quindi dobbiamo adoperare le altre, in qualche modo, per usare bene il tempo? Perché non mettere da parte questa idea stressante?

Nel suo libro (dal titolo perfetto) sulla non-dualità Radically condensed instructions for being just as you are (Istruzioni estremamente condensate su come essere esattamente come siamo), Jay Jennifer Matthews non ci gira intorno: “Non possiamo ottenere niente dalla vita. Non c’è un esterno dove possiamo portare questa cosa. Non c’è una piccola tasca situata al di fuori della vita, a cui potremmo rubare le provviste e metterle da parte. La vita di questo momento non ha fuori”.

In parte, confesso, questo mi piace perché mi ricorda la battuta del comico Steven Wright: “Non puoi avere tutto. Dove lo metteresti?”. Ma è anche una chiara indicazione del fatto che, in fondo, l’unico scopo di qualsiasi cosa, è la cosa in sé.

Consigli di lettura
Nel suo libro del 2017, Why buddhism is true, Robert Wright esplora la possibilità che l’io individuale sia un’illusione.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it