28 gennaio 2020 12:25

Uno dei misteri meno esplorati della psicologia umana riguarda il numero di attività quotidiane che non ci sembrano noiose. Se ci piace un pub o una passeggiata in campagna o tendiamo ad ascoltare certe canzoni venti volte di seguito, possiamo dare l’impressione di violare il principio dell’adattamento edonico, secondo il quale quando un piacere ci diventa familiare non ci dà più gioia.

Dopotutto l’evoluzione ci ha plasmati in modo tale da farci restare affascinati dalle novità – nella savana preistorica, le cose nuove erano più pericolose ma offrivano anche più opportunità delle vecchie – e l’economia moderna sfrutta incessantemente questo principio.

Le persone che preferiscono ripetere sempre le stesse esperienze rischiano di essere disprezzate. Forse è comprensibile se, viste le ultime notizie, di recente leggo (rileggo) Sherlock Holmes invece dell’attualità, o i romanzi all’ultima moda, ma probabilmente non mi approverete. In fondo, sembra una fuga dalla realtà.

Le sfumature sfuggite
Perciò sono stato contento di imbattermi in una nuova ricerca di Ed O’Brien dell’università di Chicago, che potrebbe stimolare un ripensamento su questo tema. O’Brien ha esposto i soggetti del suo esperimento a nuove esperienze (film, musei, videogame) per poi chiedere ad alcuni di loro di prevedere quanto gli sarebbe piaciuto rivederli e ad altri di rivederli direttamente.

Per farla breve: alle persone piace ripetere le stesse esperienze più di quanto immaginano. E non perché usano quella ripetizione per entrare in una confortevole trance, ma perché scoprono nuovi dettagli che la prima volta gli erano sfuggiti. Per citare O’Brien: “Vedere una cosa una volta può provocare in noi l’errata impressione di averla ormai ‘vista’, mentre in realtà ci sono sfumature che ci sono sfuggite e delle quali potremmo ancora godere”. Non è tanto questione di amare quello che ci è familiare, quindi, quanto di scoprire che dopotutto non ci era così familiare.

Questo non dovrebbe sorprenderci se pensiamo allo sfasamento tra le informazioni che bombardano il nostro cervello in qualsiasi momento e la minima quantità di input che la nostra mente cosciente è in grado di elaborare (secondo una stima, circa lo 0,0003 per cento del totale), il che significa che quasi tutto il resto viene escluso. Se a questo aggiungiamo la nostra naturale tendenza a distrarci, e la probabilità che di questi tempi siamo più inclini che mai a farlo, è chiaro che nessuna esperienza sarà mai la stessa due volte. Non abbiamo problemi ad ammettere che le opere di Shakespeare o di Jane Austen richiedono più di una lettura ma, viste le nostre capacità limitate, questo vale anche, in una certa misura, per un film giallo o un reality show televisivo.

Se pensiamo alla vita quotidiana in questi termini, cominciamo a capire quello che intende lo scrittore Sam Harris quando dice che “la noia è solo mancanza di attenzione”. C’è sempre qualcosa di più da scoprire in qualsiasi esperienza, e la noia interviene solo quando, per impazienza o distrazione, smettiamo di cercarlo (o come ha scritto GK Chesterton: “Non esistono argomenti non interessanti, esistono solo persone non interessate”).

Harris attribuisce questa scoperta alla meditazione, il che in fondo è sensato: chiunque mediti per un certo periodo di tempo arriva a scoprire l’intenso fascino che può esercitare qualcosa di apparentemente banale e ripetitivo come il respiro. E se respirare può essere interessante ogni volta che lo facciamo, non si capisce perché andare a piedi al negozio all’angolo, o fare una passeggiata sulle colline, non dovrebbe sembrarci il viaggio di una vita.

Consigli di lettura
Nel suo nuovo libro The tao of ordinariness, lo psicologo Robert J. Wicks sostiene che in un mondo incentrato su tutto quello che è nuovo e speciale, ci vuole una grande determinazione anche solo per essere quello che siamo veramente.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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