29 settembre 2018 10:14

Fin dal diciottesimo secolo Venezia si presenta al visitatore come la città della libertà, del piacere e del gioco. Una città dominata da un taglio verticale e teatrale che separa le facciate dagli interni, il palcoscenico dalle quinte. Ed è proprio questa impossibilità di accesso al dietro le quinte che fa del viaggiatore un turista. Consumatore della facciata ed eterno pubblico del palcoscenico, il viaggiatore conosce male il funzionamento politico ed economico della città.

Proprio per questo motivo tra le centinaia di luoghi espositivi sparsi per la città il palazzo delle Prigioni è uno dei più interessanti. È qui che dal sedicesimo secolo al 1920 è stato rinchiuso chi era ritenuto un criminale.

Lo spostamento della prigione verso la periferia e la trasformazione di alcuni di questi ex istituti di reclusione in enclave dell’industria turistica (due processi tipici del capitalismo cognitivo) spiegano l’attribuzione di una parte del palazzo al padiglione di Taiwan, e qui nel maggio 2019 sarà esposta l’artista Shu Lea Cheang.

Seguiamo la pista dei prigionieri. L’architettura di palazzo Ducale, uno degli edifici più emblematici di Venezia, ci permette di capire qual era la struttura del potere fino alla conquista di Napoleone. Le stanze che affacciano sulla laguna e sulla piazza erano sale dove si riunivano giudici e governatori, e saloni riccamente decorati. Collegate con porte nascoste nei muri, da queste stesse stanze si possono raggiungere i Piombi, una prigione con i muri e il tetto ricoperti di piombo.

Nel cuore di ogni stato si trova una prigione invisibile, il cui battito silenzioso ci ricorda che non c’è potere senza esercizio della violenza

Il cuore del palazzo è una prigione con spazi per interrogatori e torture, con celle umide e oscure, da cui i prigionieri avevano ben poche possibilità di uscire vivi o ancora in possesso delle loro facoltà mentali. Per lo più destinati ai prigionieri politici, i Piombi oggi sono famosi per via di Casanova. Da qui infatti l’agile Giacomo scappò nel 1756, dopo essere stato rinchiuso senza sapere di cosa era accusato.

Dal sedicesimo secolo la prigione del palazzo era collegata alle Prigioni nuove dal ponte dei Sospiri. Sospiri che non erano gemiti romantici, ma le grida dei condannati. Nel cuore di ogni stato si trova una prigione invisibile, il cui battito silenzioso ci ricorda che non c’è potere senza esercizio della violenza.

Continuiamo a seguire la strada dei rinchiusi. Attraversiamo in barca la laguna, da San Marco verso l’isola di San Servolo. Dal diciottesimo secolo l’intera isola fu trasformata in ospedale psichiatrico, dove “gli altri veneziani” erano rinchiusi in condizioni non molto diverse da quelli che capitavano ai Piombi. Per gli abitanti di San Servolo non c’era sesso, gioco o carnevale.

Dopo l’approvazione nel 1978 della legge Basaglia e la chiusura degli ospedali psichiatrici, il complesso di San Servolo è stato prima svuotato e poi trasformato in museo, centro culturale e sala per le mostre. Una guida ci accompagna nel reparto psichiatrico e ci mostra una sala di anatomia dove sono conservati i crani e i cervelli plastificati dei pazienti morti qui: pazzi, melancolici, frenetici, epilettici. C’è un tavolo per l’autopsia che somiglia a un grande lavandino ovale in marmo, con un buco al centro per far scorrere via i fluidi dei corpi sezionati. Ma perché i crani dei miei fratelli sono rimasti qui? Non meritavano forse un funerale?

Quando la guida si allontana per aprire la porta di una cappella che si trova accanto alla sala di anatomia, sento una pulsione travolgente, un appello dei miei antenati. Così salto sul tavolo per l’autopsia e mi ci stendo sopra. Spero che la guida non si volti: probabilmente penserebbe che sono molto più vicino ai pazzi che hanno abitato in queste mura rispetto a quel curatore di mostre che dovrei incarnare. E avrebbe ragione. In un’altra epoca – e anche oggi, in un altro luogo – potrei essere uno di loro. Sono uno di loro. Forse perché il mio corpo si adatta precisamente alle dimensioni del tavolo. Un centimetro in più e i miei piedi o la mia testa sporgerebbero. Ma il loro corpo è uguale al mio.

Finché l’ultima prigione non sarà chiusa, finché l’ultimo ospedale psichiatrico non sarà cancellato, non potremo parlare di una società libera. Aprite bene le orecchie per sentire la voce di coloro che sono stati rinchiusi. Le loro parole non sono su internet. I rinchiusi non hanno né una pagina Facebook né un profilo su Instagram, non mandano email e non partecipano ai forum su internet. Seguite la strada dei pazzi. Trovate la strada dei dissidenti, dei nemici dello stato e di coloro che hanno attraversato la frontiera. E continuate a camminare fin dove le loro tracce si cancellano. È lì che comincia il regno invisibile e silenzioso della prigione.

(Traduzione Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Libération.

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