22 dicembre 2018 10:13

Vado nella prigione taiwanese di Chiayi per rendere visita al professore Senza Nome. Prima di poterlo vedere aspettiamo più di un’ora in una stanza dove l’acqua è servita in bicchieri assemblati usando alcuni piccoli fogli di carta piegata.

Non è una misura ecologica – nella difesa dell’ambiente i bicchieri di carta hanno lo stesso effetto dell’aumento del prezzo del carburante in Francia. Fuori della prigione alcune ciminiere sputano nuvole nere, che tanta importanza hanno nel pil nazionale. I bicchieri di carta sono una restrizione pratica, una misura supplementare per evitare d’introdurre oggetti contundenti in prigione. Il gesto di bere in un bicchiere di carta sottile richiede delicatezza e rapidità, come se la fragilità di una vita dovesse trasferirsi da questo bicchiere alla bocca. In un istante tutto può cadere o essere raccolto.

Hans, l’attivista queer che mi accompagna, è nervoso, gli tremano le mani, non riesce a tenere il bicchiere di carta senza far cadere l’acqua. Beve dalle sue mani. Attraverso l’università abbiamo chiesto un permesso di visita, che ci è stato accordato. Perché? Dicono che il professore Senza Nome non riceve mai visite: nessuno, assolutamente nessuno è venuto a trovarlo da due anni a questa parte. Le persone sieropositive a Taiwan non hanno una madre? Oppure lo stato distrugge anche il cuore delle madri delle persone sieropositive?

Un mondo senza legge
I nostri passaporti vengono ispezionati e conservati fino alla nostra partenza. Lasciare i propri documenti e superare la prima porta di metallo significa sentirsi totalmente indifesi. Paradossalmente entrare in prigione significa accedere a un mondo senza legge.

Attraversiamo un’altra porta di metallo, poi un’altra ancora, dotata di scanner, poi ci perquisiscono. Dall’altra parte delle sbarre, in una piccola sala per le visite, si trova il professore Senza Nome. Sono sorpreso che un ufficiale di polizia assista al nostro colloquio. Ci spiega che non ci è permesso rimanere soli con lui e che tutte le conversazioni saranno registrate. Perché siamo venuti qui? Che cosa potrà dire? Il professore Senza Nome è giovane, molto più giovane di quanto avessi immaginato. Sorride, molto più di quanto avessi immaginato. Forse siamo venuti per vedere il suo viso da gatto manga o il suo sorriso appena accennato. Mi sembra impossibile che lui sia l’accusato e che noi siamo i visitatori. Improvvisamente mi sento stordito. Sono sicuro che lui sia solo un bambino e che i prigionieri siamo noi.

Lui dice di sapere di essere stato punito perché è un insegnante omosessuale. È il suo stile di vita che è stato punito

Parliamo del progetto dell’artista Shu Lea Cheang per la prossima Biennale d’arte contemporanea di Venezia. La parola Venezia sembra oscena o semplicemente fittizia tra queste mura. Parlo in inglese, con frasi corte. Niente di quello che avevo pensato di dire ha più senso. Hans traduce. Ma per molti minuti non c’è alcuna traduzione: parlano semplicemente cinese. Ogni tanto Shu Lea mi mormora all’orecchio: dice che in quanto detenuto sieropositivo, vive solo con altri tre prigionieri colpiti dal virus. Sono totalmente separati dagli altri detenuti. Dice che il suo stato di salute sta peggiorando. Che qui non può prendersi cura di sé. E di nuovo entriamo nella lingua cinese, come qualcuno che s’immerga sott’acqua per poi riemergere qualche minuto dopo: ora dice che le visite sessuali per i prigionieri omosessuali non sono più possibili. Gli danno riviste pornografiche eterosessuali. Il professore Senza Nome dice che non può neppure masturbarsi, perché è costantemente sorvegliato da una telecamera.

Nessuna promessa
Dal momento che non capisco il cinese, i miei sensi si affinano: osservo le sue mani, il movimento della sua bocca quando parla. Sono sorpreso nel vedere che ride quasi a ogni frase. I suoi occhi si fermano del tutto quando parla. È molto più calmo di noi. Hans suda. A volte si colpisce le articolazioni di una mano contro l’altra. In una lunga discussione in cinese, capisco alcune parole pronunciate dal professore Senza Nome in un inglese perfetto: “Crystal meth”, “fuck”, “I wanted to have fun”, “party”, “sex”, “aids”. Shu Lea mi traduce ancora: dice che prima viveva una doppia vita. Di giorno era insegnante alle scuole superiori. Di notte usciva per drogarsi e scopare. Hans gli spiega che sarebbe necessario far presente il fatto che il ritenerlo responsabile di aver infettato altre persone si basa su un errore scientifico: se all’epoca seguiva il trattamento, il suo sperma non poteva contaminare nessuno. Lui dice di sapere di essere stato punito perché è un insegnante omosessuale. È il suo stile di vita che è stato punito.

Se niente cambierà, potrebbe passare altri dieci anni in questa prigione di Chiayi. Getto uno sguardo discreto al responsabile della prigione: prende appunti su un grande quaderno a quadretti. Sembra assurdo parlare di farsi scopare e di volersi masturbare davanti a un ufficiale di polizia e davanti a un registratore sul quale lampeggia una spia rossa. Forse non dovremmo essere qui, non dovremmo parlarne. Quanto gli costerà la nostra visita? Forse non dovrei neanche scriverne ora.

Ma se tutto è registrato è preferibile far entrare internet in questa prigione di Chiayi. Che chiunque possa dare un’occhiata a questo quaderno. Gli chiedo in inglese che cosa lo mantenga in vita. Nessuno traduce la mia domanda. “Non puoi chiedere una cosa del genere”, mi dice all’orecchio Shu Lea. A che serve chiederglielo? Puoi forse promettergli qualcosa?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.

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