02 marzo 2017 18:06

Vi presento Toni Erdmann è una commedia tedesca. Di per sé questa definizione potrebbe scoraggiare qualche spettatore. Altri, spaventati dal fatto che il film dura più di due ore e mezza, potrebbero scegliere qualcosa di più breve e, sulla carta, abbordabile. Sarebbe un peccato, perché quello di Maren Ade è un film meraviglioso. Winfried è un professore di musica in pensione, ma prima ancora di apprendere questa cosa risulta chiarissimo che Winfried è un buontempone. Nella primissima sequenza del film è reso molto evidente che il suo è un umorismo spiazzante, innocuo ma anche inesorabile. Non lascia scampo. Winfried ha una figlia, Ines, dirigente di una grande azienda a Bucarest, che non sembra condividere per nulla la filosofia di vita del padre.

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Winfried, convinto che nella vita della figlia ci sia qualcosa che non torna, va a trovarla a Bucarest. A molti sarà capitato, soprattutto nella prima adolescenza, di aver provato imbarazzo a causa dei propri genitori, soprattutto quando entrano in contatto con il mondo al di fuori della famiglia, per esempio quello degli amici. È una cosa che a un certo punto di solito si supera. Ma, almeno all’inizio del film, Ines non l’ha superato e l’invasione pacifica di Winfried nel mondo che lei si è costruita a Bucarest le crea parecchio imbarazzo. In più il padre ci va giù abbastanza pesante, con tanto di parrucche, denti finti e balle stratosferiche.

Quello che davvero non lascia scampo dell’umorismo di Winfried è che prima o poi costringe a fare i conti con la realtà. Per una lettura sociale e politica più approfondita e seria vi rimando alla recensione del film scritta da Francesco Boille. Per quanto mi riguarda, mi limito a dire che ci sono due scene, che già da sole varrebbero tutto il film, in cui Ines… No vabbe’ non sarebbe giusto fare spoiler, ma sono due scene che come fanno le migliori commedie riassumono tanti aspetti di singoli individui, di interi popoli e alla fine di tutta l’umanità. Vi presento Toni Erdmann è un film che riempie molti vuoti, interpretato da un eccezionale duo di attori (Sandra Hüller e Peter Simonischek).

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Rimaniamo in Europa. In poche selezionate sale del regno è possibile vedere Passeri, scritto e diretto dall’islandese Rúnar Rúnarsson, e interamente ambientato nella fredda Islanda. Ari vive con la madre a Reykjavik. Quando lei parte con il suo nuovo compagno per una missione di qualche tipo in Africa, Ari è costretto ad andare a vivere con il padre, un pescatore semi fallito, semi alcolizzato che abita in una desolata provincia nel nord dell’isola. Uno dei pregi di Passeri è di mostrare un’Islanda tutt’altro che stereotipata o idilliaca.

D’estate non scende mai la notte, ma questo non significa che la bella stagione sia un lungo pomeriggio assolato. Per niente. Anche se sono tutti praticamente parenti, gli islandesi non vivono in una grande e solidale famiglia allargata. La promiscuità è più una specie di condanna. Per passare il tempo bevono alcol direttamente da bottiglie di plastica, che fanno pensare immediatamente all’antigelo. I paesaggi desolati hanno più punti in comune con quelli di Leviathan che con i boschi e i laghi della Scandinavia. E anche se Passeri è una sorta di romanzo di formazione del giovane Ari, non vi illudete che per diventare uomini lassù sia sufficiente una battuta di caccia alla foca con papà o uscire finalmente con la graziosa ragazzina della porta accanto con cui avete passato una gioiosa infanzia.

Insomma il coro di voci angeliche che apre il film, proprio come il Pachelbel’s canon che apre Gente comune, accompagnato da meravigliose immagini del New England, è ingannevole. Ma quello che conta in contesti così gelidi (come in Gente comune e al contrario di Leviathan) è riuscire a trovare l’umanità da qualche parte. E Rúnarsson, alla fine, ci dà un po’ di speranza.

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Wolverine è un gran bel personaggio. La sua declinazione Logan/Hugh Jackman, poi, è particolarmente riuscita. Nella lunga saga degli X-Men, forse solo Magneto/Eric/Michael Fassbender può competere con Logan/Wolverine/Hugh Jackman. Riguardando X-Men, il primo film della serie, quello del 2000 diretto da Bryan Singer, con Patrick Stewart, Ian McKellen e Famke Janssen ci si accorge che di tempo ne è passato (per tutti tranne forse che per Halle Berry, almeno a giudicare dall’ultima notte degli Oscar dove ha sfoggiato quella permanente da pazza). E il tempo passa anche per Wolverine. Non è possibile perdersi Logan di James Mangold, probabilmente l’ultimo film in cui Jackman vestirà i panni del mutante.

Ambientato nel 2029, Logan ci mostra un Logan/Wolverine/Jackman invecchiato, stanco, sempre meno supereroe e sempre più umano (perfetta la sottolineatura fornita da Hurt di Johnny Cash nella colonna sonora) che vive in un posto orrendo dove si prende cura di un Charles Xavier (ritorna Patrick Stewart) totalmente senile e ancora più malmesso di Logan. Il mondo marcio e cadente in cui i nostri eroi si devono avventurare per un’ultima volta è l’ennesima e perfetta dimostrazione di quanto sia immortale l’universo della Marvel, capace di invecchiare, ringiovanire, marcire e rigenerarsi all’infinito. E ci fa pensare che magari con Logan, Jackman e Patrick Stewart abbiamo dato, ma che con Wolverine i conti sono tutt’altro che chiusi.

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Nel weekend tornano alcuni pesi massimi: Ferzan Özpetek con Rosso Istanbul, Maccio Capatonda con Omicidio all’italiana e Ben Affleck con La legge della notte, saga criminale ambientata nella Boston degli anni venti, accolta molto tiepidamente dalla stampa statunitense, compresa quella del New England: “Ben Affleck ha diretto alcuni ottimi film. La legge della notte non è uno di quelli”, ha sentenziato Ty Burr sul Boston Globe.

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