07 febbraio 2018 13:06

Con il massacro di Katyń, all’inizio della seconda guerra mondiale, la Polonia ha subìto una delle più grandi operazioni di manipolazione storica del ventesimo secolo. Un episodio che rende ancora più misterioso e inaccettabile il tentativo dei suoi dirigenti attuali di prescrivere, per legge, una versione della storia nazionale rivista e corretta.

La strage di Katyń, alla quale il grande regista polacco Andrzej Wajda aveva dedicato un affresco monumentale nel 2007, sarebbe dovuta essere l’antidoto assoluto alla menzogna storica.

Katyń è la storia dell’eliminazione compiuta dall’esercito sovietico di migliaia di ufficiali polacchi fatti prigionieri dopo la firma del patto tedesco-sovietico (patto Molotov-Ribbentrop) e lo smembramento della Polonia deciso da Hitler e da Stalin. Le fosse comuni con i resti di questi uomini furono scoperte nel 1943 nella foresta di Katyń dall’esercito nazista, ma per decenni Mosca ha affermato che erano stati uccisi dai tedeschi e non dai sovietici.

Storia clandestina
Per tutto il periodo comunista, quando la Polonia era saldamente ancorata allo schieramento sovietico, fu vietato dubitare della versione ufficiale, anche se la realtà storica si trasmetteva nelle famiglie grazie alla chiesa cattolica o ai corsi di storia paralleli organizzati clandestinamente.

Il trauma di Katyń, il fatto di sapere che l’élite della società polacca precedente alla guerra fosse stata sterminata da quelli che erano costretti a chiamare i “grandi fratelli” sovietici, avrebbe dovuto lasciare un segno indelebile nel patrimonio genetico polacco. Un segno rappresentato dal culto della verità storica a ogni costo.

E invece abbiamo il governo del Partito diritto e giustizia (PiS), la formazione di destra populista al potere a Varsavia, impegnato in un tentativo di scrittura della storia attraverso la legge che suscita polemiche e divisioni.

Un’allerta era già arrivata con l’apertura del museo della seconda guerra mondiale di Danzica, decisa ai tempo della presidenza liberale di Donald Tusk – oggi presidente del consiglio europeo: i successori del PiS hanno licenziato il direttore e cambiato la sua missione e visione storica. L’obiettivo ormai è quello di concentrarsi sull‘“esperienza polacca”, e non più di collocarla nel campo più vasto del conflitto mondiale, della sua epoca e dei suoi interessi.

In Polonia gli esempi di antisemitismo sono tanti e il negarlo non rende merito a chi aiutò gli ebrei condannati allo sterminio

La nuova legge, adottata dal parlamento e firmata dal presidente Andrzej Duda, rende illegale qualunque affermazione di partecipazione polacca all’olocausto e ai crimini di guerra compiuti durante l’occupazione tedesca.

Il testo della legge punisce con una pena fino a tre anni di reclusione qualunque persona che “accusi pubblicamente e contro i fatti la nazione o lo stato polacco di essere responsabile o complice dei crimini nazisti compiuti dal terzo reich tedesco”. Ma come si chiede il New York Times in un editoriale, “che cosa costituisce un’accusa? Chi determina i fatti? Chi correrà il rischio di passare tre anni in prigione per cercare la verità storica?”.

Il “sangue puro”
I polacchi hanno ragione a trovare ingiusta l’espressione “campi di sterminio polacchi” regolarmente utilizzata a proposito dei campi di concentramento nazisti presenti sul territorio polacco. Ma anche se ci sono stati molti casi di polacchi impegnati nella protezione degli ebrei diretti allo sterminio, ci sono in Polonia molti esempio di antisemitismo, di pogrom contro gli ebrei, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Negare i secondi non rende merito ai primi.

Questo nuovo episodio si inserisce nella guerra culturale avviata in Polonia dalla destra populista. Una forza politica che vuole “lavare” la nazione polacca, una nazione il cui sangue è “puro” – come affermavano decine di migliaia di manifestanti per le strade di Varsavia nel novembre scorso – e privo di qualunque responsabilità nei crimini compiuti nel ventesimo secolo.

Diventando una vittima in qualunque circostanza, che si tratti del nazismo o del comunismo, la Polonia è chiamata a riunirsi dietro la sua bandiera e i suoi dirigenti di fronte alle nuove aggressioni, che stavolta sono quelle di Bruxelles.

Come scrive sul New York Times il professore Marci Shore dell’università di Yale, “il rifiuto dell’universalismo – l’insistenza sul carattere eccezionale di questo paese – è al centro della ‘politica storica’ della Polonia, che mira a controllare la versione del ventesimo secolo in un senso che glorifica ed esonera i polacchi da qualunque colpa”.

La Polonia è diventata la peggiore nemica di se stessa

Di fatto la riscrittura della storia è frutto dell’illiberalismo, la deriva autoritaria di diverse democrazie liberali dell’Europa centrale e orientale. I primi obiettivi sono stati la libertà di stampa e l’indipendenza della giustizia, il controllo del passato, della memoria e della storia con la s maiuscola.

Questa deriva fa della Polonia di oggi un paria nel continente, nonostante i suoi successi economici e il ruolo centrale che avrebbe potuto occupare nella costruzione europea. Chi si ricorda del “triangolo di Weimar”, il tentativo di coordinamento franco-tedesco-polacco lanciato nel 1991 dopo la caduta del muro di Berlino e l’unificazione tedesca? Varsavia si era vista offrire un ruolo centrale nella cabina di pilotaggio dell’Unione.

L’aiuto dell’Europa
Per assistere a un’evoluzione della posizione di Varsavia ci vorrà probabilmente del tempo, molta convinzione e probabilmente delle misure di protezione da parte dell’Unione europea, che non può continuare a tollerare che uno o diversi paesi stravolgano fino a questo punto lo spirito e la lettera della carta europea dei diritti fondamentali alla quale aderiscono.

Nel frattempo la Polonia è diventata la peggiore nemica di se stessa. La legge sulla memoria rischia di attirare l’attenzione su quello che vuole nascondere, e alimentare i peggiori pregiudizi che accompagnano storicamente la Polonia.

Un ricordo personale. Nei turbolenti anni postcomunisti della Polonia, all’inizio degli anni novanta, con Solidarność uscito dalla clandestinità e le speranze di democrazia ancora fragili, il primo ministro israeliano dell’epoca, Yitzhak Shamir, si trovava a Parigi e aveva deciso di incontrare alcuni responsabili del quotidiano Libération, tra cui il sottoscritto.

Il corrispondente di Libération a Varsavia, Andrzej Wojciechowski (alias Pierre Vodnik), un ebreo polacco vicino a Solidarność, si trovava a Parigi ed era venuto al nostro incontro con Shamir e il suo portavoce (e futuro ambasciatore a Parigi) Avi Pazner, entrambi di origini polacche. Il nostro giornalista aveva cercato di illustrare a Shamir la complessità della situazione in Polonia, che non tutto era bianco o nero, soprattutto per quanto riguardava l’antisemitismo.

Durante la discussione Shamir lo aveva interrotto e guardando Pazner aveva detto al nostro corrispondente: “Non è a noi che dovete insegnare che cos’è l’antisemitismo polacco”.

Questa idea ben radicata non si combatte con la legge, ma attraverso la pratica. Le leggi sulla memoria, in Polonia come altrove, permettono di riscrivere la storia ma non di convincere o di cancellare gli stereotipi. Bisogna evitarle.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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