27 luglio 2018 12:18

Per la prima volta dall’indipendenza del paese, ottenuta nel 1980, gli elettori dello Zimbabwe non vedranno il nome di Robert Mugabe sulle schede elettorali alle elezioni presidenziali e legislative del prossimo 30 luglio.

I despoti di solito lasciano il potere solo da morti o se costretti con la forza. È questo il caso di Robert Mugabe, liberatore dell’ex Rhodesia dopo una lunga guerra e diventato un presidente autoritario aggrappato al potere come se ne andasse di mezzo la sua stessa sopravvivenza.

È stato l’esercito a porre fine a quasi quarant’anni di regno nel 2017, quando l’anziano autocrate di 93 anni ha dovuto cedere il posto a uno dei suoi più fidati collaboratori caduto in disgrazia, l’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa.

Personalità invadenti
Anche se gli eventi del 2017 non hanno rappresentato un cambio di regime, hanno consentito un “dopo Mugabe” impensabile finché l’anziano leader era in carica. E indubbiamente i militari avrebbero atteso la sua morte se Mugabe non avesse puntato a lasciare il potere alla sua seconda moglie, Grace, la cui assenza di legittimazione storica e la cui volubilità risultavano intollerabili per gli ex combattenti della guerra di liberazione.

Queste prime elezioni del “dopo Mugabe” si inseriscono perciò in un contesto particolare, con un sistema che continua a essere segnato dal despota ma privo della sua personalità invadente.

Emmerson Mnangagwa, che ne ha preso il posto alla guida del partito al potere, lo Zanu-Pf, tenta di legittimarsi attraverso le urne, sfidato dal Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), storico partito di opposizione. Nelson Chamisa guida l’Mdc da febbraio, dopo la morte del leader fondatore Morgan Tsvangirai, il sindacalista che per lungo tempo ha cercato di contrastare il potere di Mugabe per vie democratiche.

Lo Zimbabwe, dunque, potrebbe uscire dalla sua lunga agonia a prescindere dai risultati di uno scrutinio a cui parteciperanno migliaia di osservatori stranieri per verificarne la correttezza. Emmerson Mnangagwa ha 75 anni e in caso di vittoria non potrebbe comunque ambire a restare al potere e a esercitarlo in modo assoluto come è stato il caso del suo mentore. E se vincerà l’opposizione, l’era Mugabe sarà finita una volta per tutte.

Oltre a Mugabe, anche Paul Biya, in Camerun, può vantare un potere quarantennale

Quarant’anni al potere… Sono rari i leader nel mondo che possono vantare una simile longevità. Ne esiste tuttavia un altro, sempre nel continente africano, che si avvicina a questo traguardo, e addirittura lo supera, se ai 36 anni di presidenza si aggiungono i sette anni nel ruolo di primo ministro: Paul Biya, presidente del Camerun dal 1982 che, a 85 anni, ha appena annunciato con un tweet in stile Trump la sua candidatura per un nuovo mandato alle prossime elezioni presidenziali previste per il mese di ottobre: “Cari compatrioti del Camerun e della diaspora, consapevole delle sfide che dovremo affrontare insieme per avere un Camerun ancora più unito, stabile e prospero, accetto di rispondere positivamente ai vostri appelli pressanti. Sarò il vostro candidato alle prossime elezioni presidenziali”.

Vacanze europee
In questo caso si potrebbe fare l’elogio della stabilità e gli incensatori del regime di Paul Biya lo faranno sicuramente sui mezzi d’informazione assoldati, a colpi di pagine di propaganda acquistate a caro prezzo. Peccato però che al mondo non esista un esempio in cui una tale longevità sia stata segno di buon governo e di benessere condiviso.

Il Camerun non fa eccezione e deve affrontare numerosi problemi ai quali l’anziano presidente, per buona parte dell’anno in vacanza in Europa e che molto raramente riunisce il suo governo, non offre alcuna soluzione. Uno tra i tanti: la rivolta della regione anglofona del Camerun, che si sente esclusa in un paese a maggioranza francofona.

Mentre Paul Biya organizza la perpetuazione del suo regime, tutti distolgono lo sguardo e tacciono. Una compiacenza che può essere spiegata in parte dalla minaccia terroristica di Boko haram, proveniente dalla Nigeria ma estesa a tutta la regione che comprende anche il Camerun del nord. E che continuerà finché qualcuno, avendone la possibilità, non vi metterà fine, come in Zimbabwe.

Paesi diversi devono affrontare lo stesso problema: uomini un tempo “provvidenziali” aggrappati al potere

Ancora più a nord troviamo Abdelaziz Bouteflika, 81 anni, al potere in Algeria dal 1999 e già rieletto nel 2014 ormai malato e su una sedia a rotelle dall’anno prima. Potrebbe essere infatti ancora lui il candidato alle elezioni previste per la primavera del 2019, a meno che l’esercito, arbitro di eleganza politica in Algeria, alla fine non scelga un altro candidato.

Zimbabwe, Camerun, Algeria. Questi tre paesi africani dai contesti storici, politici ed economici molto diversi, devono affrontare lo stesso problema: la natura del potere a cui si aggrappano uomini che sono stati un tempo “provvidenziali”. Mugabe è stato il principale liberatore dello Zimbabwe, il Fronte di liberazione nazionale algerino di Bouteflika ha guidato la guerra per l’indipendenza dell’Algeria, mentre Paul Biya era stato accolto come una garanzia di modernità e di buon governo quando ha “gentilmente” scacciato il suo predecessore Ahmadou Ahdjo.

L’eccessiva longevità al potere e l’alternanza possibile solo grazie alla forza, però, generano nepotismo, corruzione e soprattutto immobilismo, amano a mano che aumenta l’età del capitano. Inoltre, la natura stessa dei mezzi usati per chiudere questi interminabili finali di regno consente solo cattive soluzioni.

Lo Zimbabwe, paese che meritava di meglio dopo una crudele guerra di liberazione, ha forse la possibilità di ripartire, a condizione che il vincitore delle elezioni del 30 luglio sia disposto a imparare dai fallimenti degli ultimi quarant’anni.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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