24 marzo 2021 09:50

Se le elezioni legislative israeliane fossero state un referendum sulla campagna vaccinale, Netanyahu avrebbe ottenuto un successo schiacciante. Israele, infatti, detiene il record mondiale per la percentuale della popolazione già vaccinata. E invece il quarto voto in meno di due anni è stato ancora una volta incentrato esclusivamente sulla personalità polarizzante di questo primo ministro eccezionalmente longevo.

Gli exit poll pubblicati la sera del 23 marzo indicano un leggero vantaggio per lo schieramento di Netanyahu, che potrebbe essere nelle condizioni di formare una coalizione con un margine di uno o due seggi. Ma il risultato è troppo incerto per affidarsi alle proiezioni.

Il primo ministro uscente ha ancora una possibilità di vincere la sua scommessa, malgrado le accuse di corruzione, il desiderio di cambiamento di buona parte della popolazione e le alleanze discutibili strette per conservare il potere. Tuttavia le elezioni non sono state decisive come sperava. Il ritorno alla vita in Israele grazie ai vaccini non è bastato.

Nessuna via di mezzo
L’unica certezza è che le trattative per formare una coalizione prenderanno tempo. Israele ci ha fatto l’abitudine. Gli interessi e le personalità da far coesistere sono molteplici.

Il voto ha confermato ancora una volta l’estrema polarizzazione della società israeliana, ma diversamente dal passato la linea di frattura non è tra destra e sinistra e nemmeno sul tema della pace con i vicini palestinesi o sui rapporti con i nuovi partner della penisola arabica.

Gli oppositori di Netanyahu, da destra a sinistra, hanno in comune solo l’ostilità nei suoi confronti

La scelta che si presentava agli elettori era pro o contro Bibi. Chi lo adora gli perdona tutto, chi lo detesta lo considera l’incarnazione del male. Non esiste una via di mezzo. In ognuno dei due schieramenti si formano bizzarre intese, a volte contro natura.

I partiti anti Netanyahu, da destra a sinistra, hanno in comune solo il fatto di essere ostili alla personalità schiacciante del primo ministro, mentre quelli che potrebbero governare con lui dovranno tollerare la presenza della sfera kahanista, un movimento di estrema destra razzista e omofoba in passato considerato infrequentabile ma che Netanyahu ha aiutato a entrare in parlamento.

Dietro queste battaglie si trova un paese spaccato in due: da un lato una popolazione liberale, laica, urbana e istruita, dall’altro gli israeliani ultraortodossi che vivono nelle zone periferiche e sono meno “europei”. Due Israele diversi che non riescono a trovare un’intesa.

Molti israeliani temono che Netanyahu e la sua futura coalizione possano attaccare le istituzioni garanti della democrazia israeliana, dal sistema giudiziario alla corte suprema.

Questa evoluzione “illiberale” è già cominciata. Secondo Samy Cohen, ricercatore di Ceri/Sciences Po e autore di un libro appena pubblicato in Francia e intitolato Israël, une démocratie fragile (Israele, una democrazia fragile), “l’erosione dei valori liberali in Israele avanza a piccoli passi, in modo quasi impercettibile […]. È la minaccia più grave che aleggia” sullo stato ebraico, ben più dei “missili di Hezbollah e dei tunnel di Hamas”.

Israele è un paese dai molti volti: a un’ora di viaggio da Tel Aviv, dall’innovazione tecnologica e da una società vibrante si trovano Gerusalemme, con il suo mondo sempre più religioso, o Hebron, in Cisgiordania, con il suo apartheid e i suoi coloni. Netanyahu ha dimostrato per l’ennesima volta di essere il più abile a sfruttare queste contraddizioni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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