03 giugno 2021 09:50

Israele ha senza dubbio vissuto una delle giornate politiche più folli della sua storia. Una giornata di trattative che si è conclusa pochi minuti prima della mezzanotte, la scadenza concessa all’opposizione per formare una maggioranza.

Il risultato è storico: salvo nuovi colpi di scena (che non sono da escludere) Benjamin Netanyahu perderà il potere dopo dodici anni consecutivi e una presenza complessiva alla guida del paese più lunga di quella del fondatore dello stato, David Ben Gurion. L’ostilità verso Netanyahu è l’elemento che unisce l’incredibile coalizione dei suoi avversari, che hanno come parola d’ordine “chiunque tranne Bibi”, il soprannome con cui è conosciuto nel paese.

Questa coalizione spazia dall’estrema destra che sostiene le colonie alla sinistra pacifista, e conta perfino sul sostegno (senza precedenti) di un partito islamista eletto dai palestinesi di Israele. L’unico elemento che accomuna queste forze politiche è l’ardente desiderio di liberarsi di Netanyahu, della sua presenza divisiva e dei suoi guai giudiziari.

Quale può essere il programma di una simile coalizione? Voltare pagina dopo Netanyahu è la principale ambizione di questo governo, sulla cui durata peraltro è difficile scommettere.

Una volta compiuta la catarsi, la coalizione rischia seriamente di ritrovarsi davanti alle proprie contraddizioni, che sono tante

Il problema è che una volta compiuta la catarsi, la coalizione rischia seriamente di ritrovarsi davanti alle proprie contraddizioni, che sono tante. Il mandato di formare un governo, dopo quattro elezioni consecutive senza sbocco, è stato affidato al centrista Yair Lapid, che ha dovuto racimolare appoggi ovunque: per esempio si è rivolto a un ex protetto di Netanyahu, Naftali Bennett, che in cambio della propria defezione ha ottenuto la promessa di ricoprire per primo l’incarico di capo del governo, ruolo in cui, secondo l’accordo, si alternerà con Lapid. Bennett è al contempo un milionario del digitale, un ex leader dei coloni ebrei della Cisgiordania, un esponente dell’estrema destra e un nazionalista-religioso.

Come potrà un uomo con un simile profilo convivere con il Meretz, ultimo sopravvissuto della sinistra laica, favorevole alla pace con i palestinesi? E come si può spiegare il sostegno assegnato al governo dagli islamisti di Mansour Abbas?

L’appoggio di un leader islamista è l’elemento più sconvolgente. Si tratta di una prima assoluta dalla creazione dello stato ebraico. Mansour Abbas ha ricalcato la sua strategia su quella dei partiti religiosi ebrei come il sefardita Shas, pilastro di tutte le coalizioni di governo, che ha negoziato vantaggi economici per sua la comunità. Mansour Abbas ha fatto lo stesso, ottenendo benefici sociali per i cittadini palestinesi di Israele, quelli del 1948.

L’unica certezza, all’indomani di questo accordo inverosimile, è che niente cambierà nel conflitto israelo-palestinese. L’argomento, infatti, non è stato neanche evocato, tanto divide profondamente i partiti che formano la coalizione.

Due settimane dopo la fine della guerra con Hamas a Gaza, il tema è già sparito dall’agenda politica israeliana, come sempre ossessionata dal personaggio di Benjamin Netanyahu. Ci sarà sempre tempo di pensarci quando Bibi avrà fatto le valigie…

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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