22 settembre 2021 10:02

Se il presidente degli Stati Uniti avesse pronunciato il suo discorso del 21 settembre all’inizio del suo mandato, in Europa sarebbe stato applaudito senza riserve. E invece l’intervento davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite è arrivato cinque settimane dopo la caduta di Kabul (con i relativi dubbi sul ruolo e sul metodo degli Stati Uniti) e pochi giorni dopo la vicenda dei sottomarini australiani, che lascia pensare a una mancanza di lealtà nei confronti di un alleato.

Biden era atteso e si è comportato “da Biden”, con un discorso positivo e incline all’offensiva. Il presidente ha pronunciato più di una decina di volte la formula “con i nostri alleati e partner”, ribadendo gli impegni multinazionali degli Stati Uniti per il clima, per la lotta contro il covid-19 e per la difesa della democrazia.

In diversi aspetti questo discorso può sembrare l’antitesi di quelli del suo predecessore Donald Trump, i cui interventi all’Onu sono stati spesso una doccia fredda. Ma dopo Kabul il problema non è più Trump. È Biden stesso.

Evidentemente servirà più di un discorso per rassicurare tutti quelli che nelle ultime settimane hanno osservato con preoccupazione il comportamento degli Stati Uniti. L’abbandono brutale dell’Afghanistan stride con il lirismo sulla democrazia: gli afgani e soprattutto le afgane, nuovamente sotto il giogo dei taliban, ne sono evidentemente esclusi.

Il discorso di Biden è stato un misto di messianismo democratico e volontà di potenza

Allo stesso modo l’insistenza sugli “alleati e i partner” contrasta con ciò che ha vissuto la Francia con la vicenda dei sottomarini australiani: tre paesi hanno negoziato tenendo all’oscuro uno degli alleati più stretti, per escluderlo da un contratto importante e da una grande iniziativa diplomatica. La sensazione di “tradimento” denunciata da Parigi è condivisa chiaramente (dopo un pesante silenzio) dai più alti funzionari europei. Washington dovrà tenerne conto.

Alleati delusi
Il discorso ha inoltre delineato quella che potremmo chiamare la “dottrina Biden” per il mondo, un mix di messianismo democratico e antiautoritario e di volontà di potenza globale da parte di un’America rinvigorita che però non vuole necessariamente ricorrere alla forza militare.

La Cina non è stata nominata direttamente, ma è al centro dell’intervento del presidente degli Stati Uniti. Biden ha affermato di non voler scatenare una nuova “guerra fredda” né creare una politica dei “blocchi”. Resta il fatto che la situazione attuale tende ugualmente verso il conflitto.

Da un lato abbiamo le alleanze create dagli Stati Uniti per il contenimento della potenza cinese: l’Aukus (Australia, Regno Unito, Stati Uniti), annunciata tra il 15 e il 16 settembre, e il Quad (Dialogo quadrilaterale sulla sicurezza) con India, Giappone e Australia, che si riunirà a Washington il 24 settembre. Dall’altro troviamo le iniziative civili: un vasto programma di infrastrutture proposto al resto del mondo sul solco delle “vie della seta” cinesi e soprattuto una sfida della democrazia all’autoritarismo.

La “dottrina Biden” costituisce un programma per rinforzare il campo democratico e permettergli di arginare una Cina assetata di conquista. Tuttavia permangono i dubbi sulla capacità di Washington di realizzare questo programma e ripristinare la fiducia degli alleati delusi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it