All’inizio dell’anno, con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, il recupero dell’accordo sul nucleare con l’Iran sembrava scontato, perché Biden era favorevole e l’Iran aveva tutto l’interesse a trattare a causa dell’impatto delle sanzioni economiche.
E invece il 29 novembre i negoziatori si ritroveranno a Vienna, dopo una pausa di cinque mesi, in un clima piuttosto pessimista. Diversi elementi hanno complicato la situazione dal 2018, quando Donald Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo negoziato da Barack Obama.
L’Iran ha progressivamente ripreso il suo programma di arricchimento dell’uranio, ignorando gli obblighi di trasparenza previsti dall’accordo del 2015. Quest’anno a Teheran si è installato un governo più intransigente, che ha sollevato l’asticella delle pretese.
I diplomatici occidentali, russi, cinesi e iraniani che si incontrano a Vienna non sono più certi di arrivare a una conclusone, con tutti i rischi che un fallimento comporterebbe.
Un fattore aggravante è il sostegno accordato all’Iran dalla Cina, nel contesto delle tensioni con gli Stati Uniti
A complicare il negoziato è soprattutto la scomparsa della fiducia. Gli iraniani pretendono garanzie sul fatto che un avvicendamento a Washington non comporterebbe una nuova uscita dall’accordo simile a quella voluta da Trump, e chiedono risarcimenti per l’impatto delle sanzioni statunitensi introdotte quando l’Iran rispettava i termini dell’accordo.
Gli occidentali, dal canto loro, temono che l’Iran stia tergiversando per consentire ai suoi scienziati di avanzare verso l’acquisizione dell’arma nucleare, in termini sia di quantità e tenore dell’uranio sia di competenze tecniche. Ad alimentare l’inquietudine c’è il fallimento degli sforzi dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aieia) nell’attivazione delle telecamere di sorveglianza in alcune strutture chiave, come previsto dall’accordo.
Un fattore aggravante è il sostegno accordato all’Iran dalla Cina, nel contesto delle tensioni con gli Stati Uniti. Oggi, di fatto, Pechino offre un’alternativa a Teheran.
Sabotaggi informatici
In caso di rottura emergerebbe un rischio reale di conflitto, perché Israele e i suoi nuovi alleati del golfo non intendono permettere all’Iran di acquisire la bomba atomica, un’arma che solo Israele possiede nella regione e che se fosse costruita dall’Iran cambierebbe l’equilibrio strategico.
Israele ha già effettuato diverse operazioni di sabotaggio del programma nucleare iraniano (non rivendicate), tra attacchi informatici, omicidi di scienziati e azioni di disturbo come quella che ha interrotto la distribuzione della benzina nel paese. L’Iran ha risposto con una serie di attacchi informatici in Israele. Queste operazioni, meno appariscenti di un bombardamento delle strutture iraniane, si moltiplicheranno in caso di fallimento del negoziato.
L’altro rischio è quello di un accordo al minimo, che non ristabilirebbe la fiducia e porterebbe, ancora una volta, a una progressione in questa guerra che si svolge nell’ombra. Sarebbe una vittoria a posteriori per Trump e tutti quelli che non hanno mai creduto alla possibilità di un’intesa con l’Iran.
Sono lontani i tempi in cui la folla scendeva per le strade di Teheran, nel 2015, per acclamare i negoziatori iraniani credendo ingenuamente che il paese avrebbe ritrovato il suo posto nel mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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