Non possiamo che essere sollevati davanti alla notizia del cessate il fuoco che è entrato in vigore questa mattina su uno dei fronti che infiammano il Medio Oriente da oltre un anno. Per i libanesi, come per gli abitanti del nord di Israele, l’accordo non significa la pace ma almeno annuncia la fine della guerra. Ed è già tanto.

Fino all’ultimo l’aviazione israeliana ha colpito i propri obiettivi in Libano, e il 26 novembre Beirut è sprofondata nel panico a causa di una pioggia di bombe. Nel frattempo, Benjamin Netanyahu riuniva il suo governo e faceva adottare l’accordo ai suoi alleati di estrema destra, come sempre inclini ad alzare la posta dello scontro.

L’obiezione dei “falchi” del governo è che Hezbollah non è stato eliminato, anche se l’organizzazione è stata considerevolmente indebolita, soprattutto a causa della morte del suo leader Hassan Nasrallah. Hezbollah arretrerà oltre il fiume Litani e non agirà più alla frontiera con Israele, ma potrà comunque tornare a rappresentare una minaccia in futuro. In questo senso il cessate il fuoco non permette a Israele di raggiungere uno degli obiettivi fissati.

Il primo ministro israeliano aveva diversi motivi per accettare il piano in 13 punti presentato dagli Stati Uniti (la Francia, co-negoziatrice, non è molto gradita da Netanyahu dopo che ha dato l’impressione di approvare il mandato d’arresto internazionale spiccato contro di lui).

Alcune ragioni sono state fornite la sera del 26 novembre dallo stesso Netanyahu: possibilità di concentrarsi sull’Iran, dare respiro a un esercito stremato e conservare il diritto di riprendere le ostilità in caso di violazioni dell’accordo da parte di Hezbollah. Netanyahu ha insistito particolarmente su quest’ultimo punto.

Ma ci sono anche altre motivazioni. La prima è il desiderio di dare una soddisfazione ai negoziatori americani, con l’assenso di Donald Trump. In questo modo Israele può evitare tensioni con l’amministrazione Biden – che è ormai in dirittura d’arrivo – nell’attesa di giorni migliori con il prossimo presidente, amico di Israele e soprattutto del suo primo ministro. La seconda ragione è riassumibile in una sola parola: Gaza.

Hezbollah aveva legato i due “fronti”, il Libano e Gaza, ma oggi l’organizzazione sciita accetta di fare un passo indietro su questo punto. Per il primo ministro israeliano si tratta chiaramente di un successo. Soprattutto l’accordo non prevede la fine della guerra nella Striscia, malgrado 44mila morti e la distruzione quasi totale del territorio.

Netanyahu mantiene libertà di azione a Gaza dove, senza tenere alcun conto delle pressioni esterne, procede a quella che somiglia molto a una pulizia etnica della parte nord del territorio. Israele non rivela i propri obiettivi, ma i suoi dirigenti fanno sapere che saranno presenti a Gaza ancora “per anni”.

Alcuni esponenti politici dichiarano apertamente di voler cacciare i palestinesi. Prendendosi una pausa in Libano, Netanyahu guadagna tempo a Gaza.

Per il momento è importante che l’accordo in Libano funzioni, e non è semplice. Nei prossimi sessanta giorni una delicata operazione vedrà l’esercito israeliano lasciare il Libano, mentre Hezbollah si sposterà oltre il fiume Litani e l’esercito libanese occuperà il sud.

Sessanta giorni è il tempo che ci separa dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca: il clima regionale dipenderà dal nuovo presidente americano e dalla sua politica verso l’Iran. La fine dei combattimenti in Libano è soltanto un primo elemento positivo in una situazione molto complessa che resta assolutamente esplosiva.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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