Nel discorso pronunciato il 20 gennaio da Donald Trump in occasione dell’investitura in Campidoglio è mancata una parola: “alleati”. Questo termine, infatti, sembra non fare parte del vocabolario del 47esimo presidente degli Stati Uniti, e la sua assenza dovrebbe preoccupare parecchio gli europei.
Ormai è chiaro che il progetto geopolitico di Trump sia quello di rimodellare l’ordine internazionale basandolo sulla forza di Washington a livello economico, tecnologico, militare e anche psicologico, come dimostrano le minacce che continua a lanciare. È un progetto che contrasta con il mondo che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a costruire, e che hanno governato dopo la seconda guerra mondiale, basato su un tessuto di alleanze, sulle organizzazioni multilaterali e sul diritto, anche se la realtà ha spesso smentito questi princìpi.
Paradossalmente, la volontà di rottura con questo “vecchio mondo” manifestata da Trump lo avvicina ai più feroci rivali degli Stati Uniti, come la Cina e la Russia, e ai paesi emergenti del sud globale, che rivendicano un posto al tavolo delle decisioni.
Solo l’Europa resta ancorata all’ordine internazionale del passato, e lentamente si sta trasformando nel “villaggio di Asterix” del diritto internazionale in un mondo dominato dai rapporti di forza.
Non siamo ancora arrivati a questo punto, ma è la direzione indicata da Trump e dai suoi principali luogotenenti. La prima conseguenza è legata evidentemente alla difesa dell’Unione, con un’immensa incertezza rispetto alle intenzioni del presidente del paese che guida de facto la Nato, e alle guerre commerciali che si avvicinano all’orizzonte.
Dopo l’invasione russa in Ucraina, il leader di un paese nordico a cui avevo rivolto alcune domande sul concetto di autonomia strategica europea mi aveva interrotto bruscamente dichiarando: “Il mio lavoro è fare in modo che gli americani restino in Europa per proteggerci”.
Sono passati due anni dalla conversazione. Cosa starà pensando oggi quel politico, constatando che la visione del presidente degli Stati Uniti è del tutto transazionale e che la garanzia di sicurezza che costituisce un’assicurazione sulla vita per il suo paese ha subìto un’improvvisa svalutazione?
Gli europei parlano da tempo della difesa comune. Dopo il risveglio brutale della guerra in Ucraina è stato fatto molto, ma ancora non basta per bilanciare il cambiamento drammatico in corso a Washington.
Il 22 gennaio, a Parigi, Emmanuel Macron ha ricevuto Olaf Scholz in occasione del 62esimo anniversario della riconciliazione franco-tedesca. I discorsi tenuti si si sono allineati al nuovo contesto segnato dalla presidenza Trump.
Ma la realtà rivela la fragilità europea attuale, a cominciare dalla distanza tra Francia e Germania: Emmanuel Macron ha dato del “voi” a Olaf Scholz, che gli ha risposto invece dandogli del “tu”. In questa dinamica, inoltre, non possiamo dimenticare che il cancelliere perderà certamente le prossime elezioni, in una fase in cui il modello tedesco è in crisi. Quanto alla Francia, la sua voce è smorzata dal caos politico interno.
I 27 paesi dell’Unione si ritroveranno il 3 febbraio a Bruxelles per un vertice informale. La leggenda narra che l’Europa dia il meglio di sé quando si trova con le spalle al muro. E di sicuro oggi lo è, nel ritardo tecnologico, nella debolezza nel campo della sicurezza e nelle divisioni politiche. Per il vecchio continente è proprio arrivato il momento di mostrare le sue capacità di ripresa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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