A volte capita che un pensatore sia capace di dare un nome a un fenomeno che si sviluppa davanti ai nostri occhi. È il caso del politologo statunitense Joseph Nye, che alla fine degli anni ottanta ha inventato l’espressione soft power per descrivere il modo in cui gli stati possono esercitare la loro influenza senza ricorrere alla forza militare o economica.
Per spiegare il suo concetto, Nye sottolineava che un violento ha la capacità di uccidere o terrorizzare, ma non quella di sedurre o convincere. Risiede in questo la differenza tra l’hard power e il soft power.
Nye è morto questa settimana all’età di 88 anni, dopo una vita passata tra l’amministrazione e l’università: stimato professore di Harvard, dove ha diretto la scuola Kennedy, ha formato migliaia di quadri statunitensi e del resto del mondo, ed è sempre rimasto un analista molto apprezzato delle relazioni internazionali.
Nye è morto proprio mentre il soft power sta perdendo importanza sul palcoscenico mondiale, a beneficio dell’hard power. In particolare, Donald Trump sta infliggendo al soft power statunitense il colpo di grazia, basando la sua attività politica sulla coercizione.
Il simbolo più inequivocabile del soft power è senz’altro Hollywood, la fabbrica dei sogni del cinema statunitense, che ha diffuso nel mondo un’immagine invidiabile dello “stile di vita americano”. Si dice che Nikita Chruščëv avesse fatto presente a John Fitzgerald Kennedy che gli Stati Uniti non avevano bisogno di fare propaganda. “Tutto il mondo vorrebbe vivere come nelle cucine e nei salotti dei film statunitensi”, aveva spiegato il leader dell’Unione Sovietica. Aggiungendo ironicamente: “Chi mai vorrebbe vivere come nei film sovietici?”.
In ogni caso, il concetto non riguarda solo gli Stati Uniti. La Francia, con i suoi marchi di lusso, i suoi vini e i monumenti di Parigi mostrati al mondo durante gli ultimi giochi olimpici, dispone di un soft power non indifferente.
Negli anni novanta la Cina, mentre emergeva dal maoismo, si era lasciata ammaliare da questo concetto e aveva invitato Nye ad alcune conferenze. Ma Pechino non è mai riuscita a realizzare il suo sogno, nonostante le grandi risorse. Il soft power, infatti, non si piega alla volontà degli stati o di un’ideologia. Viene dalla società, anche se i governi possono strumentalizzarlo.
Con il passare del tempo Nye aveva sviluppato il suo concetto, cominciando a parlare di sharp power, ovvero di una strategia d’influenza che combinasse alcuni elementi soft e altri hard. Oggi viviamo chiaramente in un’epoca in cui s’impone l’hard power, come dimostra il caso di Trump, che impone dazi, bombarda lo Yemen e minaccia sia gli avversari sia gli alleati.
Il presidente statunitense ha sacrificato diversi elementi del soft power, cancellando ad esempio gli aiuti di Washington per lo sviluppo o costringendo alla chiusura Voice of America (VoA), un’emittente ancora molto seguita nei paesi autoritari.
In un recente articolo pubblicato dal Financial Times, Nye aveva sottolineato come Trump, cresciuto nel settore immobiliare di New York fra trattative e accordi, non fosse in grado di capire i vantaggi del soft power. “I narcisisti come Trump non sono mai davvero realisti. Il soft power avrà vita dura nei prossimi quattro anni”, aveva scritto Nye.
Oggi, a Washington come a Pechino e Mosca, le idee sulla guerra come quelle del cinese Sun Tzu o del prussiano Carl von Clausewitz sembrano più attuali dei concetti di Joseph Nye.
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