20 luglio 2018 10:17

Le leggi ci sono. L’Afghanistan è un paese firmatario della Convenzione per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’articolo 22 della costituzione afgana stabilisce l’uguaglianza tra uomini e donne, la parità di doveri e di trattamento davanti alla legge. Una legge nazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è stata approvata nel 2009. Quest’anno il codice penale del 2018 ha incluso un intero capitolo dedicato all’eliminazione della violenza contro le donne. Ha proibito l’uso delle donne nei casi di badal, quando cioè le famiglie contrapposte da una faida si scambiano le mogli per risolvere una controversia.

Il codice ha eliminato inoltre il provvedimento risalente al 1976 in base al quale gli uomini che uccidono le mogli o le donne o le sorelle con delitti “d’onore” possono essere condannati a non più di due anni di carcere. In base alla nuova legge, questi reati devonro essere puniti come tutti gli altri omicidi.

Il cambiamento tuttavia non si è verificato. Secondo un rapporto pubblicato dalla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), le donne afgane hanno ancora un ridottissimo accesso alla giustizia, spesso non riescono a essere risarcite e i “reati d’onore”, anche se denunciati, raramente sono puniti. Il rapporto dimostra in particolare che meccanismi come la “mediazione” e la pressione a non sporgere una denuncia ufficiale trattano crimini come l’aggressione sessuale, la violenza domestica e il tentato (o compiuto) omicidio alla stregua di “questioni di famiglia”.

La guerra in Afghanistan, a voler credere almeno un po’ alla propaganda che l’ha preceduta, è stata combattuta per queste donne

Le conseguenze sono prevedibilmente pesantissime per le donne. Una dopo l’altra, le donne intervistate per il rapporto hanno raccontato di denunce mai presentate, mediatori esplicitamente schierati a favore degli uomini e di una tendenza generale che continua a sollecitare il ricorso ai meccanismi tradizionali di risoluzione delle dispute, che solo in pochissimi casi prevedono una vera punizione per gli uomini colpevoli.

La guerra in Afghanistan, a voler credere almeno un po’ alla propaganda che l’ha preceduta, è stata combattuta per queste donne. Per riprendere le famose parole usate da Laura Bush dopo l’11 settembre e prima dell’inizio dei bombardamenti, il piano era quello di liberare le donne afgane. I burqa sarebbero spariti e si sarebbe affermata l’uguaglianza di genere. Le migliaia di soldati americani e le migliaia di operatori umanitari americani avrebbero fatto accadere tutto questo.

Forse nei primi mesi è sembrato addirittura che la strategia per l’uguaglianza basata sui soldi e le bombe potesse funzionare. Qualsiasi progetto che coinvolgeva donne afgane riceveva generosi finanziamenti. Esistevano progetti per vendere all’estero quello che producevano, progetti di formazione per questa o quell’attività artigianale, progetti per case di accoglienza delle vittime di violenza domestica, per scuole e per ambulatori.

Stando al numero di questi progetti e agli sforzi per attuare le leggi, il cambiamento sembrava imminente. Alla fine di tutti i supplizi, una volta andati via i taliban afgani e istituito il regno della democrazia, sarebbe nato un nuovo Afghanistan, in cui le donne non sarebbero state più considerate come scarti, da scambiare o torturare secondo i desideri dei loro “proprietari” maschi.

Tutto questo si fondava su un presupposto. L’esercito di operatori umanitari e soldati che avanzava arrancando, cercando di costruire il nuovo Afghanistan, si basava su una separazione cruciale, che giustificava la loro presenza.

La cultura tradizionale afgana, inevitabilmente in mano agli uomini afgani, era intrinsecamente ostile alle donne. Le donne afgane dunque non erano solo vittime di interpretazioni oscurantiste della religione applicate dai taliban, ma anche della loro cultura. Salvare le donne afgane significava riscattarle dalla loro cultura. Le conseguenze di questo assunto emergevano ogni volta che veniva attuato un qualsiasi programma.

L’impatto di questo assunto, “salviamo le donne afgane dalla cultura afgana”, è stato disastroso

Amministratori, finanziatori e ospiti delle case per vittime di violenza domestica per esempio si consideravano come una barriera tra le donne che volevano stare al sicuro ed essere indipendenti e una cultura afgana che pretendeva la loro schiavitù e sottomissione. Le donne afgane dovevano credere al presupposto che i liberatori occidentali (e i loro agenti locali) si sarebbero frapposti tra loro e le pratiche patriarcali della loro cultura.

L’impatto di questo assunto, “salviamo le donne afgane dalla cultura afgana”, è stato disastroso.

Adesso che le potenze occidentali, con gli Stati Uniti in prima fila, si affannano a sistemare le cose lasciate in sospeso, accantonata la pretesa di salvare qualsiasi afgano da qualsiasi cosa, sono lasciate indietro proprio le donne che hanno creduto al falso presupposto.

Le forze culturali che hanno sempre considerato i presunti liberatori degli intrusi sono ancora più intransigenti e ostinate nel loro rifiuto di modificare le pratiche ostili alle donne. Anzi, in alcuni casi le pratiche più patriarcali (quelle più criticate e più misogine) sono diventate simboli del rifiuto degli afgani di piegarsi a chi li ha bombardati. Sono diventate indicatori di “afganità”.

L’errore culturale
I risultati sono evidenti nel rapporto dell’Unama, dove si denuncia la persistenza di “pratiche tradizionali” che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia. La conclusione è giusta: le “pratiche tradizionali”, i “delitti d’onore” e il badal implicano tutti in un modo o nell’altro la sottomissione della donna.

Ma se prima erano viste come essenziali, adesso sono ritenute ancora più importanti, rappresentano le parti di Afghanistan che nessuno è riuscito a cambiare, che nessuno cambierà mai. Il prezzo crudele di tutto questo lo pagheranno le donne afgane, soprattutto quelle che hanno dato fiducia alla promessa di un nuovo Afghanistan. Queste donne lasciate indietro, a cui è stata promessa una cultura diversa, pagheranno il prezzo di un’invasione che non si è mai davvero interessata a loro.

Per trasformare la cultura, in particolare le pratiche misogine al suo interno, è necessario il coinvolgimento di chi ne fa parte. In altre parole, castigare una cultura è un’operazione per sua natura destinata all’insuccesso, del tutto incapace di essere egualitaria o positiva per le donne: una forza dalla quale le donne devono essere “riscattate” non dà alcuno slancio al cambiamento.

Invece di “riscattare” le donne da questa cultura fallimentare e fondata sull’odio nei loro confronti, il progetto di riforma culturale deve rafforzare le donne all’interno della cultura, dare loro la materia prima, il tempo, il sostegno e la capacità finanziaria necessari a mettere in campo il genere di sfide piccole e lente che alla fine possono produrre un vero cambiamento.

In altre parole, l’obiettivo non deve essere “riscattare” le donne dalla loro cultura ma assicurarsi che esse raggiungano il potere al suo interno e intraprendano tutte le rivolte necessarie a dimostrare quanto siano importanti e fondamentali per il futuro del paese, per il suo presente e per il suo passato.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano pachistano Dawn.

Dal 5 al 7 ottobre Rafia Zakaria sarà al festival di Internazionale a Ferrara.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it