19 novembre 2020 17:18

L’effetto di cancellazione storica operato sia in epoca coloniale sia in quella postcoloniale è tale che oggi le ragazze e le donne in Pakistan sanno poco o nulla delle pioniere del femminismo. Le attuali intossicazioni nazionalistiche puntano a dividere tutto in base alle linee di un confine tracciato dai britannici e non corrispondente agli effettivi raggruppamenti delle moltissime identità del subcontinente. Tanto in India quanto in Pakistan persistono i tentativi di leggere le attuali divisioni e delusioni alla luce di un passato storico. Ci troviamo così con una storia piena di buchi, enormi omissioni e vistose cancellature nei punti in cui avremmo dovuto trovare le storie della gente.

Tenuto conto del fatto che quelle di India, Pakistan e Bangladesh sono società patriarcali, ne consegue che le storie di queste terre ripescate dal passato e proposte a popolazioni che non hanno idea del passato siano storie al maschile. Pullulano di eroi, leader, poeti e scrittori, uomini che hanno pronunciato discorsi memorabili e uomini che si sono opposti ai britannici; trovare le storie delle donne è molto più difficile.

Le donne però erano presenti e si davano da fare. Nel suo saggio Feminist inheritance and foremothers: the beginnings of feminism in modern India, la storica Padma Anagol approfondisce la storia delle donne del Maharashtra, in India. È affascinante vedere come queste coraggiose donne di fine ottocento avessero rifiutato di sottomettersi alle società patriarcali in cui vivevano. Il loro attivismo a favore delle riforme era poi oggetto di pesanti critiche da parte dei colonizzatori occidentali, convinti che l’India fosse un luogo arretrato e non civilizzato. Alcune di queste lotte sono avvenute nel contesto più ampio dei movimenti sociali per le riforme a cui hanno partecipato persone di tutte le religioni. Dal punto di vista di Angol, quei contesti riformisti sono stati i precursori dei femminismi attivi oggi nel subcontinente.

La volontà di opporsi
Alla fine degli anni trenta Lakshimibai Tilak fu una delle prime donne indiane a scrivere la sua autobiografia. Tra le storie racconta anche quella del nonno impiccato nel 1857 dopo aver partecipato alle rivolte contro i britannici. Nata nel 1868, Tilak fu data in sposa molto giovane a un poeta di lingua marathi incline a capricci ed eccentricità che lo portavano a fuggire e a non occuparsi del sostentamento della famiglia. Probabilmente proprio per queste vicende personali Tilak si era battuta per l’indipendenza finanziaria ed economica delle donne. Lei stessa cercò di diventare infermiera, un mestiere che purtroppo fu costretta ad abbandonare per prendersi cura della famiglia.

Altrettanto piena di energia è stata Rakhmabai Raut, anche lei diventata presto moglie ma che rifiutò di lasciare la casa di famiglia per andare a vivere con il marito. Anche quando quest’ultimo la trascinò in tribunale, all’età di 19 anni, Rakhmabai si rifiutò di seguirlo, denunciando la sua mancanza di istruzione e la sua vita disonesta. Il tribunale britannico diede ragione a Rakhmabai, stabilendo che lei non era obbligata ad andare a vivere con il marito perché il matrimonio era stato combinato quando lei era una minorenne e non era mai stato consumato. La decisione provocò un’ondata di sdegno in tutta l’India, dove erano frequenti i matrimoni tra minorenni e non si era mai sentito parlare dell’eventualità di chiedere il consenso delle parti. Gli indù si sentirono particolarmente offesi dall’applicazione dei concetti di consenso e consumo delle nozze, perché ai loro occhi un matrimonio è un sacramento valido per l’eternità e non un contratto destinato a durare una sola vita.

Come accade alle femministe di oggi, quelle pioniere del femminismo furono accusate di essere burattini nelle mani dei britannici

Lo sconcerto provocato da questo caso e le proteste delle donne contro gli abusi, la pratica delle spose bambine e altre consuetudini culturali e religiose che degradavano la loro esistenza avevano innescato un acceso dibattito sui mezzi d’informazione in tutta l’India. Uomini e personaggi religiosi pensavano che le donne fossero diventate molto ribelli e avessero superato il limite. Le donne, dal canto loro, erano convinte che tali questioni fossero rimaste troppo a lungo nell’ombra e che era giunta l’ora di parlarne apertamente.

Come accade alle femministe di oggi, quelle pioniere del femminismo furono accusate di essere burattini nelle mani dei britannici. L’emergente movimento nazionalista Quit India contro il dominio britannico finì per unire uomini e donne che lottavano per le riforme. Si dice che sia stata attiva in questi movimenti anche Ruttie Jinnah, moglie di Mohammad Ali Jinnah (uno dei fondatori del Pakistan).

Le donne britanniche che chiedevano a gran voce il diritto di voto nel Regno Unito volevano che le donne indiane si unissero alla loro lotta per il suffragio. Dunque furono colpite dal silenzio sul diritto di voto mantenuto da molte femministe indiane dell’epoca che sostenevano di non voler essere uguali agli uomini indiani perché sia loro sia gli uomini sarebbero stati comunque sotto il giogo coloniale. Quando saremo libere, sostenevano, avremo il diritto di votare nelle nostre nazioni libere. È andata proprio così: al momento della partizione del subcontinente e della creazione dell’India e del Pakistan, nel 1947, le donne indiane e pachistane hanno ottenuto il diritto di voto.

Quel nazionalismo continua a essere un ostacolo. Sia in India sia in Pakistan, donne che dovrebbero essere femministe sono invece catturate da espressioni di “patriottismo” basate su forme di oscurantismo intellettuale e religioso. Sono contente di sventolare bandiere, ma non gli striscioni e sono ansiose di giudicare come donne “cattive” quelle che si organizzano e protestano. È la vecchia ricetta del divide et impera, della definizione di donna “buona”, cioè sottomessa alla mascolinità tossica dello stato e alla violenza domestica, contrapposta alle altre. Sarebbe bello se finisse questo desiderio di controllo delle donne sulle altre operato in nome di accuse ormai superate. Se le donne dell’ottocento sono riuscite a ribellarsi, possono farlo anche le donne del 2020.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano pachistano Dawn.

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