06 febbraio 2020 10:14

Come si racconta la guerra ai figli? Rima al Marei non ne parla quasi mai, non ama ricordare quello che si è lasciata alle spalle il giorno che ha chiuso la sua casa di Homs, in Siria. Ora fatica anche a immaginare quel posto dove ha vissuto per tutta la vita, sa che è stato bombardato, è distrutto, un cumulo di macerie. La casa dove sono nati cinque dei suoi sei figli è solo un ricordo, sempre più sbiadito, una fotografia vecchia di nove anni. La sua famiglia è stata tra le prime, nel 2011, a scappare da quella che è stata la culla della rivoluzione, Homs. Nella città, infatti, si sono svolte le prime imponenti manifestazioni contro Bashar al Assad, seguite da pesanti combattimenti tra esercito governativo e ribelli: l’assedio è durato anni fino a quando la città è tornata sotto il controllo del governo nel 2014.

La televisione è accesa nella tenda dove vive la donna insieme a suo marito, Mohammad Fauzi, e ai loro figli. È sintonizzata su un canale siriano, c’è un generale che parla. Anche se tutti dicono che la guerra è finita, che per i profughi siriani in Libano è tempo di tornare a casa, a Idlib si sta ancora combattendo e mezzo milione di persone stanno lasciando le loro case per sfuggire ai bombardamenti. Un vero e proprio esodo, secondo tutte le organizzazioni umanitarie, uno dei più consistenti dall’inizio del conflitto nel 2011, una guerra che secondo l’Unhcr ha causato 5,5 milioni di profughi e 6,6 milioni di sfollati interni in nove anni.

Fauzi è seduto sul tappeto verde della sua tenda nel campo di “Cheik Mohammed 004”, vicino alla stufa alimentata con il gasolio, guarda la tv circondato dai figli, beve del tè zuccherato e ricorda il giorno che ha lasciato la Siria: “Facevo l’autista, quando è cominciata la guerra ho venduto l’auto per comprare da mangiare, vivevamo barricati in casa durante i combattimenti. Abbiamo deciso di fuggire perché la situazione era troppo pericolosa, abbiamo preso i nostri figli e siamo scappati”.

Il campo profughi autorganizzato Cheik Mohammed 004, Libano, 30 gennaio 2020. (Annalisa Camilli)

Per uscire dal paese hanno preso un taxi, poi hanno continuato a piedi, affidandosi a dei trafficanti. Homs è lontana solo ottanta chilometri, un’ora e mezzo di strada dalla tenda in cui abita ora. Quando sono arrivati in Libano hanno pensato che sarebbe stata una questione di qualche mese e poi sarebbero tornati a casa, invece vivono qui da nove anni. All’inizio avevano affittato una casa, ma poi i risparmi sono finiti e da allora sono costretti a stare in una tenda. L’immagine delle difficoltà economiche della famiglia sono il lucchetto con cui Rima al Marei ha sigillato la dispensa con il cibo, per impedire ai suoi figli di consumare le provviste. “Abbiamo vissuto per anni con i contributi delle Nazioni Unite, in Libano non ci sono lavori che possiamo fare tranne i braccianti agricoli durante la raccolta delle olive”, racconta Fauzi, che al momento però lavora come autista di uno scuolabus. Ogni giorno fa il giro dei campi, prende i bambini e li porta nel doposcuola gestito da un’organizzazione non governativa europea.

Senza documenti
Non è mai stata facile la vita dei profughi siriani in Libano, un paese che porta ancora le ferite di una guerra civile finita nel 1990 e che, dopo la fine del conflitto, è stato occupato dalle truppe siriane fino al 2005, sempre in qualche modo influenzato dalla situazione nei paesi limitrofi, in particolare da Damasco. Anche per questo, l’arrivo massiccio di profughi siriani a partire dal 2011 ha provocato reazioni contrastanti, in parte di rifiuto. Alcune comunità hanno accolto con favore i nuovi arrivati, ma quando è diventato evidente che la guerra in Siria non si sarebbe conclusa nell’immediato, sempre più libanesi hanno considerato i profughi come una minaccia e una fonte d’instabilità.

Nel 2014 il governo libanese ha cominciato ad adottare misure per scoraggiarne l’arrivo: ha vietato la costruzione di campi ufficiali per i siriani e nel 2015 ha imposto all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) di non registrare i nuovi arrivati e inoltre ha quasi completamente vietato ai profughi già registrati di lavorare.

Il Libano è il paese con il più alto numero di profughi pro capite del mondo e non aderisce alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. I profughi, quindi, non possono chiedere asilo, né possono ambire a ottenere lo status di rifugiato, ma anche ottenere un normale permesso di soggiorno è sempre più complicato. Mancano anche le parole: i profughi siriani non sono “rifugiati”, per le autorità sono semplicemente “sfollati”, molti di loro sono senza documenti.

Profughe siriane nel doposcuola dell’ong Relief and reconciliation nel villaggio di Cheik Mohammed, Libano, 30 gennaio 2020. (Annalisa Camilli)

“In campi come questo è difficile l’accesso all’elettricità, all’acqua, la situazione abitativa è terribile, le tende sono fatte con materiale di recupero, inoltre il 74 per cento dei siriani in Libano non ha documenti di residenza”, spiega Simone Scotta, coordinatore del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche (Fcei) in Libano. Le vie legali per lasciare il Libano sono poche: i programmi di reinsediamento delle Nazioni Unite (che però vanno molto a rilento, nel 2019 sono stati trasferiti 7.442 profughi siriani dal Libano) e [i corridoi umanitari verso l’Italia e la Francia](http://Le storie dei rifugiati siriani arrivati in Italia in aereo) che hanno permesso di trasferire tremila persone in quattro anni. “Ma la situazione dei profughi nel paese è sempre più difficile e molti stanno provando ad andarsene in maniera irregolare: ci sono dei flussi verso Cipro, i numeri non sono altissimi. Sono piccole imbarcazioni che partono dalla costa libanese, in particolare da Tripoli”, spiega Scotta.

Demolizioni e deportazioni
Dopo essere stato sgomberato da un primo campo autorganizzato, Mohammad Fauzi e la sua famiglia si sono trasferiti in un nuovo appezzamento di terra, un oliveto, nella periferia di Cheikh Mohammad, a una decina di chilometri dal confine siriano. Hanno preso in affitto la terra da un uomo libanese che vive nella casa a margine del campo, pagano 50mila lire libanesi (30 euro) al mese. Insieme ad altre quaranta famiglie hanno costruito delle tende, delle baracche, con delle latrine all’esterno di ogni costruzione.

Cucinano con dei fornelli a gas, si riscaldano con delle stufe a gasolio e hanno l’acqua potabile grazie alla presenza di un pozzo. Ma vivono con il terrore che l’esercito libanese faccia dei raid e distrugga tutto quello che hanno. In un rapporto pubblicato nel dicembre del 2019, l’associazione Operazione Colomba ha denunciato la demolizione di 5.682 strutture abitative semipermanenti di rifugiati siriani nella valle della Beqaa e nella zona di Arsal, dopo una decisione ufficiale del Consiglio superiore della difesa libanese nell’aprile del 2019.

“Questo campo è molto povero, la maggior parte delle 150 persone che vivono qui non lavora”, spiega Friedrich Bokern, segretario generale dell’ong Relief and reconciliation. “La maggior parte di loro viene da Homs: sono state espulse dalla loro città, quando l’esercito siriano, appoggiato dal movimento sciita libanese Hezbollah, ha conquistato la città. Molti sono fuggiti, a piedi, attraverso le montagne. Prima hanno preso delle case in affitto, ma poi i risparmi sono finiti e sono andati a vivere nelle tende”, continua Bokern.

“Nel campo qui vicino c’è stato un raid dell’esercito cinque mesi fa, hanno buttato giù tutte le tende con i bulldozer e le persone sono state costrette a trovarsi una nuova sistemazione. È vero che il Libano porta un grosso peso sulle sue spalle per quanto riguarda i profughi siriani e palestinesi, ma è anche vero che per ragioni politiche non sta garantendo alcun diritto a queste persone e sta violando il principio di non respingimento”, conclude. Il 13 maggio 2019 la sicurezza generale libanese ha deciso di respingere in Siria tutti i siriani che dall’aprile del 2019 hanno attraversato illegalmente il confine tra Siria e Libano. Secondo l’associazione Operazione Colomba, tra il 21 maggio e il 27 agosto 2019 sono state respinte quasi tremila persone, cioè trenta persone al giorno.

“Nonostante l’ordine di deportazione si riferisca solamente ai siriani entrati in Libano dopo l’aprile del 2019, è stato ampiamente documentato che anche i siriani arrivati prima di quella data hanno subìto lo stesso trattamento”, è scritto nel report dell’organizzazione, molto attiva nel campo di Tel Abbas. “Operazione Colomba ha documentato casi in cui i cittadini siriani sono stati deportati nonostante fossero in possesso di una rappresentanza legale e fossero in Libano dal 2013”. Oltre alle deportazioni, l’associazione ha documentato anche arresti arbitrari, sfratti forzati e numerosi episodi di intimidazioni collettive contro i siriani da parte delle autorità libanesi.

Durante le lezioni del doposcuola per profughi siriani nel villaggio di Cheik Mohammed, Libano, 30 gennaio 2020. (Annalisa Camilli)

Un altro dei problemi è la scolarizzazione dei bambini siriani: Fauzi tutte le mattine fa il giro dei campi informali nei dintorni e li porta nella scuola privata di Cheik Mohammed. Nel doposcuola privato in particolare provano a imparare il francese, indispensabile per seguire le lezioni che frequentano nel pomeriggio, nella scuola pubblica libanese.

Mohammad Talal al Mehbane è uno degli insegnanti della scuola del villaggio di Cheik Mohammed, insegna arabo ed è originario di Homs, in Siria. “La generazione dei bambini siriani nei campi è una generazione persa, a causa dei traumi della guerra, dei continui spostamenti che subiscono, ma anche dei problemi che hanno a frequentare la scuola libanese”, spiega Al Mehbane. “Anche se vengono a scuola i bambini siriani hanno delle grosse lacune. Nelle scuole pubbliche libanesi le lezioni sono in francese, non hanno un sostegno, questo contribuisce a creare dei problemi nell’apprendimento”, continua il professore.

Il governo libanese sta facendo pressione sui profughi siriani, perché tornino in Siria. Ma pochi profughi si convincono davvero a tornare indietro, nonostante le condizioni di vita sempre più difficili nei campi in Libano. “Ritornare a casa per alcuni è molto pericoloso, solo i vecchi possono farlo o quelli che non sono visti come una minaccia dal regime di Assad. I ragazzi che tornano vengono mandati al fronte appena arrivati, per una guerra in cui non credono e in aiuto di un governo che non hanno sostenuto”, spiega Simone Scotta di Mediterranean Hope. Nel 2018 sono tornati in Siria volontariamente 32.272 profughi, nel 2019 sono stati 172mila secondo le autorità libanesi, numeri ancora bassi rispetto al milione di profughi registrati in Libano dall’Unhcr, ma che nella realtà sono molti di più. Il gruppo di attivisti Rete siriana per i diritti umani (Snhr) ha registrato 1.916 casi di persone arrestate dopo aver fatto rientro forzato in Siria, 784 tra loro sarebbero ancora detenute e 638 sono scomparse.

Dal campo tra gli ulivi di Cheikh Mohammad solo due famiglie sono tornate in Siria: ma hanno paura anche quelli che non hanno avuto problemi diretti con il governo e non hanno partecipato alle proteste. “La sicurezza non è garantita, se dovesse succedere qualcosa a me, che ne sarà dei miei figli?”, chiede Mohammad Fauzi, mentre porta alla bocca un bicchierino ricolmo di tè caldo e zuccherato. Sua moglie intanto mi mostra i tappeti della zona in cui dormono, completamente bagnati: la notte precedente la famiglia si è svegliata invasa dall’acqua a causa di un temporale ed è stata costretta a dormire nello scuolabus.

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