14 giugno 2018 13:41

Gentile bibliopatologo,
cosa significa essere un lettore? E poi: lettori si nasce o si diventa?

–Barbara

Cara Barbara,
voglio raccontarti una storia. C’erano una volta due uomini, uno psicanalista e uno scrittore, che passeggiavano un pomeriggio sul molo di Santa Monica, in California. Raggiunsero un punto isolato, là dove le scogliere sono più alte, e si sedettero sulla panchina di un parco davanti all’oceano.

“Abbiamo avuto cent’anni di analisi, la gente diventa sempre più sensibile, e il mondo peggiora sempre di più”, disse lo psicoanalista. “Forse è arrivato il momento di guardare in faccia questa realtà”. Aggiunse che ci siamo abituati a vedere le cose dal punto di vista della psiche, dell’interiorità, delle difficoltà di adattamento della nostra anima al mondo. Ma – e qui fece un ampio gesto con la mano, a indicare la petroliera all’orizzonte, l’insegna del parco imbrattata dai graffiti, la donna senzatetto con le caviglie gonfie e la pelle screpolata addormentata sull’erba – “quello che resta fuori è un mondo che si va deteriorando. Perché la terapia non se n’è accorta?”.

Lo psicanalista era James Hillman, lo scrittore Michael Ventura. Quella che ti ho appena riassunto è la scena iniziale di un libro del 1992 scritto in forma di dialogo, Cent’anni di psicanalisi e il mondo va sempre peggio. Fa decisamente al caso nostro, oggi, perché questa è la puntata numero cento della posta del bibliopatologo, e qualche domanda è venuto il momento di farsela. Forse la stessa domanda di Hillman.

Per due anni, da quella prima lettera del 22 giugno 2016, nel nostro epistolario pubblico abbiamo dato per scontato che il problema fossimo noi, il nostro rapporto nevrotico con i libri, i nostri rituali di lettura ossessivo-compulsivi, le nostre fobie editoriali, le nostre perversioni letterarie, le nostre mille varietà di feticismo bibliofilo. Ma – e qui servirebbe un gesto non meno ampio di quello di Hillman – se il problema fosse al di fuori? Se il panorama editoriale fosse ormai così degradato da costringerci a concludere che le bibliopatologie non sono un segno di malattia ma piuttosto di salute, un flebile conato di resistenza, un ultimo rifugio della vita letteraria offesa?

Non si tratterebbe allora di adattare la psiche a un normale rapporto con i libri, ma di disadattarla ancor di più, di coltivare in laboratorio i bacilli di cui credevamo di doverci liberare. Ma sento che è una risposta moraleggiante, e la scarto.

Alziamoci dalla panchina e facciamo due o tre passi indietro, per abbracciare un panorama più vasto: e se la letteratura stessa fosse la malattia, e l’unico rapporto possibile con i libri fosse, appunto, un rapporto patologico? Si può forse avere un rapporto sano con la tubercolosi? Perché allora Guido Gustavo Gozzano, che di tubercolosi morì, si diceva corroso dalla “tabe letteraria”? Ho appena ripreso in mano il Piccolo dizionario delle malattie letterarie, manualetto diagnostico dello scrittore Marco Rossari. Il panorama del mondo letterario che si lascia osservare dalle sue pagine è quello di un desolato sanatorio Berghof dove avvizziscono degenti afflitti dai mali più strani, dalla Bukowskite (“malaugurata tendenza a credersi scrittori in seguito a una colossale sbornia”) al complesso di Henry Miller (“tendenza a scrivere molto di sesso quando se ne fa poco”), dal disturbo di Eco (“singolare tendenza nel paziente a far parlare tutti i personaggi come un professore di semiotica”) alla Gomorrea (“malattia venerea contraibile con impegno. Sintomi: ipertrofia della prosa, ridondanza retorica, forte propensione all’orazione civile”).

Vien fuori, pensa un po’, che l’unico segno di salute è il blocco dello scrittore. Rossari lo definisce “momentanea fase di rinsavimento”, ma la letteratura è un vaso di Pandora e anche dal blocco, se ci si accanisce a volerlo curare, possono spuntare nuovi mali. Se il narratore impastoiato ha comunque il virus dell’Urgenza di scrivere, ossia la “ingannevole necessità di espellere dal proprio organismo materia imperfetta (talvolta perfino fecale) in forma di parole (‘Ma che ha? È così pallido!’ ‘Eh, l’urgenza di scrivere’)” rischia di produrre un libro che sarà etichettato come Beckettiano, “diagnosi erronea che scambia la mancanza di ispirazione per afasia (‘È beckettiano?’ ‘Più che altro non ha un cazzo da dire’)”. O peggio, sprofonderà nella Crisi del romanzo, “fase di paranoia imputabile a superbia che spinge lo scrittore a proiettare il proprio blocco su tutti gli altri e/o sull’intera civiltà occidentale”.

Mi fermo un istante prima di scrivere una cosa di cui potrei pentirmi, e cioè che il blocco del lettore è l’unica guarigione che mi sento di augurarti, e augurarvi. Vorrei poter dire che lettori si nasce – “e io, modestamente, lo nacqui”. La verità è che lettori si diventa, e una volta contratto il morbo si può solo assistere pazientemente al suo decorso. Cento puntate di bibliopatologo e il mondo va sempre peggio.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Dal 5 al 7 ottobre Guido Vitiello terrà un workshop sull’arte della recensione al festival di Internazionale a Ferrara.

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