20 settembre 2018 15:21

Gentile bibliopatologo,
ogni volta che leggo un libro raggiungo un punto di saturazione e repulsione, intorno alla metà abbondante del volume, che mi impedisce di proseguire e mi spinge a cominciare altri libri, destinati a loro volta a essere lasciati a metà strada. Solo dopo molto tempo, senza un motivo apparente e in ordine sparso, riprendo e completo la lettura delle metà residue, in un alternarsi caotico di inizi e finali che tuttavia non mi provoca confusione. Almeno credo. Di cosa si tratta? Di un innocuo desiderio di variare? O di una coazione incontrollata che ha origini nel mio subconscio?

–Riccardo

Gentile bibliopatologo,
credo di essere affetto da una malattia incurabile di natura ossessiva. Leggo sempre due volte di fila ogni pagina dei libri che più mi piacciono; il problema aumenta quando affronto letture di romanzi sopra le mille pagine! Ma ciò che mi preoccupa di più è che cerco di ritardare la fine del libro leggendo molto lentamente parola per parola, e in quei casi comincio contemporaneamente la lettura di un altro libro. Sono clinicamente disperato, vero?

–Michele

Caro Riccardo, caro Michele,
ho scelto di accoppiare le vostre lettere perché le bibliopatologie di cui mi parlate, che a un primo esame sembrerebbero contrapposte e inconciliabili, si rivelano in fin dei conti come due facce della stessa medaglia o, se preferite, come il recto e il verso di una stessa pagina.

Riccardo, tu sei un lettore claustrofobico: dopo un po’ che ti trovi a indugiare nello stesso romanzo ti senti in trappola, ti manca il respiro, avverti un senso di oppressione al torace, il cuore comincia a battere all’impazzata, ti sale la nausea, il formicolio, le vertigini, hai l’impressione che le pagine si ripieghino su di te come pareti di una stanza, e che ti schiaccino… Devi scappare prima che sia troppo tardi, e respirare l’aria di un nuovo romanzo! Poi però, fatalmente, il problema si ripresenta.

Michele, tu sei un lettore claustrofilico, per usare la formula dello psicoanalista Elvio Fachinelli: fosse per te, non usciresti mai dal libro in cui ti sei rinchiuso, o murato. Fachinelli si riferiva a quei casi in cui il paziente – e spesso anche il terapeuta, senza avvedersene – finisce per vivere l’analisi come una sorta di interminabile “soggiorno intrauterino”. Si era steso sul lettino sognando una rinascita, almeno in origine, ma poi a prevalere è stato il conforto di quel luogo chiuso e intimo – di quel claustrum, appunto.

Come se ne esce? Non è un caso se ho voluto formulare così la domanda, perché si tratta prima di tutto di interrogarsi sulla natura e sulla forma dello spazio in cui tu, Riccardo, ti senti intrappolato, e da cui tu, Michele, preferiresti non uscire mai. Ebbene, se dovessi paragonare il romanzo a un luogo fisico sceglierei senza esitazione il tunnel. Pensateci: non è un luogo chiuso, ha un ingresso e un’uscita segnalati chiaramente, e un tragitto più o meno rettilineo da percorrere per arrivare dall’uno all’altra. Non è un luogo chiuso, e tuttavia lo sembra. I claustrofobici ne hanno un terrore smisurato: e se c’è un crollo? E se scoppia un incendio? E se finisco tumulato sotto le macerie? E se si esaurisce l’ossigeno?

Ma la topologia letteraria non si esaurisce nei romanzi. Esistono i racconti, per esempio, che sono come brevi tratti di galleria dove non si rischia di soffocare. O gli zibaldoni – penso, tra i miei preferiti, alle Note azzurre di Carlo Dossi, al Sacco dell’orco di Giovanni Papini, al Diario romano di Vitaliano Brancati – che sono come locande sempre aperte e sempre arieggiate in cui ristorarsi per il tempo che serve. E anche restando ai romanzi, ce ne sono alcuni che consentono al lettore di cambiare aria e ambiente molto spesso, da Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Riccardo, perché non fai qualche scampagnata in luoghi ameni come questi?

E tu, Michele, che viaggi a venti all’ora e fai continue retromarce, e che pur di non vedere mai la luce cerchi già sulla mappa il traforo successivo in cui infilarti, perché non opti piuttosto per un tunnel circolare, qualcosa che ricordi per la forma l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra? Non dico che tu debba entrare nel Finnegans wake di James Joyce, dal quale raramente si esce vivi; e neppure nei tanti “romanzi circolari”, che sono ormai quasi un cliché letterario. Ma se ti piace leggere lentamente, parola per parola, e leggere due volte ogni pagina, non pensi che il tuo luogo più congeniale sia non il romanzo ma la poesia, non la prosa ma il verso? Versus, ricordava Giorgio Agamben in Il linguaggio e la morte, viene “da verto, atto di volgere, di far ritorno, opposto al prorsus, al procedere dirittamente della prosa”.

Nelle spire della poesia puoi circolare alla velocità che preferisci, anche senza ingranare mai la seconda. Nessuno si spazientirà o ti tormenterà con il clacson. Forse solo Riccardo – ma tranquillo, non rischi di incontrarlo sul tragitto: l’ho mandato a villeggiare altrove.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Dal 5 al 7 ottobre Guido Vitiello terrà un workshop sull’arte della recensione al festival di Internazionale a Ferrara.

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