Ilupi mangiano le alci. Gli squali mangiano i pesci. I falchi mangiano i passeri. Da sempre gli scienziati pensano che i predatori incidono sulle popolazioni delle prede perché le trasformano in pasto. Un recente studio dimostra, però, che i predatori influiscono sulle prede anche quando non le cacciano direttamente.

Gli ecologi Liana Zanette e Michael Clinchy, insieme allo specializzando Marek Allen, tutti della University of western Ontario, in Canada, hanno dimostrato con un esperimento controllato che basta il verso dei predatori per spaventare i passeri canterini al punto da influire sulla loro riproduzione per generazioni. Lo studio rientra in un progetto a lungo termine sui passeri che vivono in cinque isole del parco nazionale Isole del Golfo, nella provincia canadese della British Columbia.

Emanuela Rossi

Per individuare il ruolo che lo spavento causato dai predatori ha sul comportamento dei passeri, i ricercatori hanno aumentato con cautela il fattore paura, senza però mettere in pericolo gli uccelli. Lo strano esperimento consisteva nell’installare degli altoparlanti vicino ai nidi per convincere i passeri – usando una compilation di versi di cornacchie, falchi, procioni e gufi – che c’erano vari predatori in agguato. Per accertarsi che i passeri rispondessero davvero ai versi dei predatori, hanno piazzato vicino ad altri nidi degli altoparlanti che trasmettevano i versi non minacciosi di rane, foche e anatre.

Nonostante la paura, gli uccelli non hanno corso rischi. Per evitare che i piccoli o le uova fossero mangiati, i ricercatori hanno fortificato i nidi con una recinzione elettrica ai lati e una rete in alto da cui potevano passare i passeri, ma non i procioni, le cornacchie e gli altri predatori.

Con gli altoparlanti accesi quattro giorni sì e quattro no per quattro mesi, gli scienziati hanno monitorato la situazione dei nidi, osservando ciascun piccolo dalla schiusa dell’uovo fino al momento in cui moriva o era pronto per accoppiarsi l’anno dopo. Hanno portato avanti l’esperimento per tre stagioni riproduttive seguendo i piccoli per due anni, e questo ha permesso di rilevare grandi differenze. I passeri tormentati dai versi dei predatori hanno subìto un calo riproduttivo del 53 per cento. Le coppie hanno deposto e covato meno uova, e i piccoli hanno avuto più difficoltà ad arrivare all’età adulta. La popolazione dei passeri spaventati è crollata.

Il prezzo transgenerazionale

I piccoli nati in questo clima di paura sono cresciuti con qualche svantaggio. Pur non essendo stati esposti agli altoparlanti, cantavano di meno, facevano meno figli e morivano prima. La paura ha modificato il comportamento di una generazione di passeri e ha esteso i suoi effetti anche alle successive. Lo studio indica che il prezzo transgenerazionale dello spavento è una popolazione dimezzata in appena quattro anni.

“Zanette e Clinchy hanno ideato un sistema davvero ingegnoso”, dice Dan Blumstein, ecologo comportamentale dell’università della California a Los Angeles. “Hanno dimostrato che la paura non incide solo sul comportamento dei singoli esemplari, ma sull’intera popolazione”. Come dice Zanette, “l’impronta ambientale al momento della nascita dura tutta la vita”.

Gli uccelli e i mammiferi spaventati mangiano meno e stanno più attenti ai pericoli. Di conseguenza, i genitori hanno meno tempo per sfamare i piccoli. In un precedente studio in laboratorio, il team di Zanette ha scoperto che il cervello dei passeri con alimentazione ridotta si sviluppa di meno, compromettendo le regioni responsabili dell’apprendimento del canto. Altre ricerche dimostrano che i passeri con un repertorio canoro limitato vivono di meno.

Le esperienze che viviamo nella prima infanzia producono effetti duraturi anche su noi esseri umani, aggiunge Blumstein. Come noi possiamo imparare a convivere con un rischio più elevato legato a una guerra o a una pandemia, forse possono farlo anche gli animali selvatici. “Lo studio dimostra l’esistenza di effetti indiretti della paura, che però potrebbero essere attenuati da processi di apprendimento e adattamento”, conclude Blumstein. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 109. Compra questo numero | Abbonati