Dopo gli scontri a fuoco del 7 dicembre, il conflitto al confine tra Thailandia e Cambogia ha assunto di nuovo una forma preoccupante nei due giorni successivi, con i bombardamenti dell’aviazione tailandese su postazioni militari cambogiane e lanci di razzi dalla Cambogia. Gli F-16 hanno distrutto un casinò vicino al passo di Chong Anma, di fronte alla provincia tailandese di Ubon Ratchathani, che secondo l’esercito di Bangkok ospitava truffe online ma che in quel momento era occupato dai soldati cambogiani. Phnom Penh ha fatto sapere che sono stati uccisi sette civili, mentre Bangkok ha perso tre soldati. Su entrambi i lati del confine sono state evacuate migliaia di persone. Questi nuovi scontri compromettono seriamente il cessate il fuoco del 26 ottobre firmato in Malaysia sotto l’egida del presidente statunitense Donald Trump, dopo l’inedita ondata di violenza che tra il 24 e il 28 luglio aveva causato tra i quaranta e i sessanta morti. I due paesi sono in disaccordo sulla linea della frontiera comune, ereditata dalla colonizzazione francese dell’Indocina, e si accusano reciprocamente di sconfinare nei rispettivi territori.
Bangkok aveva già sospeso unilateralmente il cessate il fuoco il 10 novembre, dopo che un suo soldato era stato ferito da una mina di fabbricazione russa, sostenendo che fosse stata messa lì di recente dai cambogiani. Era il settimo incidente di quel tipo dall’inizio dell’anno. L’accusa della Thailandia era stata poi confermata da una missione di osservatori militari dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean).
Su queste basi il ministro degli esteri tailandese Sihasak Phuangketkeow è intervenuto il 5 dicembre a Ginevra, nel corso una riunione degli stati che fanno parte della Convenzione di Ottawa – che vieta l’uso delle mine e alla quale sia Phnom Penh sia Bangkok aderiscono – per sollecitare una reazione da parte dell’Onu. Mentre l’8 dicembre il ministero della difesa tailandese, presentando quelle che definisce prove inconfutabili dell’uso di nuove mine, ha accusato il governo cambogiano di aver lanciato gli attacchi al confine per “distogliere l’attenzione del mondo” dalle sue azioni e “spostare il dibattito dal piano fattuale a quello emotivo”.
Gli scontri cominciati il 7 dicembre si estendono ormai su gran parte della frontiera. Secondo l’esercito tailandese, la Cambogia avrebbe preso di mira i militari che sorvegliavano i cantieri su una strada nella provincia di Sisaket. La Cambogia accusa la Thailandia di aver attaccato per prima. Il 9 dicembre il ministro della difesa cambogiano ha denunciato un’offensiva tailandese contro una decina di antichi templi khmer, tra cui quello di Ta Krabei, che dopo gli scontri di luglio era sotto il controllo cambogiano. L’esercito tailandese aveva promesso di riconquistarlo.
Retorica marziale
Il contesto politico non favorisce certo una riduzione delle tensioni. In Thailandia l’opinione pubblica è ancora segnata dagli attacchi del 24 luglio: colpi di razzi Bm-21 di fabbricazione russa, attribuiti all’esercito cambogiano, avevano causato 14 morti tra i civili ben oltre le zone contese. In vista delle elezioni previste per l’inizio del 2026 il primo ministro Anutin Charnvirakul ha tutto l’interesse a mostrare un atteggiamento duro: “Alla luce di quello che ci hanno fatto, non ci sarà più nessun negoziato”, ha dichiarato l’8 dicembre. Anutin – i tailandesi chiamano i leader per nome – era stato il candidato conservatore, e quello sostenuto dall’esercito, molto coinvolto nella politica in Thailandia. La retorica è marziale: l’8 dicembre il capo di stato maggiore Chaiyapruek Duangprapat ha promesso di “neutralizzare in modo duraturo le capacità militari della Cambogia, nell’interesse della sicurezza dei loro figli”.
◆ Il 28 maggio 2025 la Cambogia denuncia la morte di un soldato in uno scontro a fuoco con la Thailandia lungo il confine. Il 24 luglio si moltiplicano gli incidenti e i due paesi si accusano a vicenda di aver cominciato il conflitto. Bombardamenti, uso massiccio di artiglieria e lanci di razzi: è lo scontro più grave in più di un decennio, con almeno 48 morti e 300mila sfollati. Il 26 luglio il presidente statunitense Donald Trump invita a un cessate il fuoco, che è accettato e rafforzato il 26 ottobre. La Cambogia propone Trump per il Nobel per la pace. Il 1 novembre cominciano il ritiro delle armi pesanti e le operazioni di sminamento, ma il 10 una mina ferisce un soldato tailandese e i due paesi si accusano a vicenda di voler riprendere la guerra.
D’altro canto, il governo di Anutin si regge solo grazie al sostegno provvisorio dell’opposizione progressista, anch’essa favorevole alla linea dura sulle questioni di confine e sui centri delle truffe online, di cui la Cambogia è accusata di essere uno dei principali hub nel sudest asiatico. Non solo i tailandesi sono le vittime principali di queste frodi, ma gli scandali sul denaro proveniente dalla criminalità informatica cambogiana hanno già infangato diverse figure dell’attuale maggioranza tailandese e della precedente.
A Phnom Penh il regime autoritario del primo ministro Hun Manet, che governa all’ombra del padre Hun Sen, gioca sfacciatamente la carta nazionalista, denunciando un’“aggressione”e un’“invasione” da parte della Thailandia. Il 9 dicembre Hun Sen ha postato su Facebook una lunga tirata, affermando che dopo l’8 dicembre la Cambogia è stata costretta a “rispondere per difendere il proprio territorio”. Rivolgendosi al capo di stato maggiore dell’esercito tailandese, accusato di fare dichiarazioni “ancora più violente di quelle delle grandi potenze”, l’ha messo in guardia: “Non resteremo con le mani in mano”. Ufficialmente presidente del senato – la seconda carica dello stato dopo il re –, Hun Sen era stato onnipresente nel conflitto di luglio, prima di lasciare spazio al figlio per le trattative di pace. Il suo ritorno in prima linea lascia poche speranze su un allentamento delle tensioni. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati