Il valor militare? Mah. È da sempre molto discutibile, ma ancor più lo è diventato con l’avvento delle armi da fuoco. Dov’è il valore – si capì subito – se, a distanza, si fa secco un valentuomo? Ma intanto sono passati i secoli, le armi sono diventate più intelligenti di chi le usa e il valor militare ha ancora una sua eccitata retorica. Anche se – va detto – è sempre più difficile capire cos’è. Mettere a ferro e fuoco città e campagne? Concepire strategie brillanti grazie alle quali versare a fiumi più il sangue di vecchi, donne e bambini senza uniforme, che quello di militi con l’uniforme? Minacciare di premere il bottone fatale e caso mai premerlo davvero? No, forse l’unica medaglia accettabile, in tempi di democrature guerrafondaie, è quella al valor civile. Il valor civile è per sua natura disobbediente e si manifesta, per esempio, in quei russi che – disgraziatamente in pochi, ci vuole gran coraggio – decidono di ficcarsi nei guai perché non tollerano più che Putin l’orribile decida orrori a loro nome. Forse solo il valor civile può giustificare il sempre odioso ma a volte inevitabile ricorso alle armi. Il massimo disvalore, invece, si manifesta – questo lo dico senza forse – quando le masse approvano i crimini del capo e si raccolgono liete in adunate oceaniche. C’è poco da dire “sono costrette, è una democratura”. No, è consenso, è obbedienza incivile.

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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati