Quando ho visitato per la prima volta la Chinatown di Bangkok, a venticinque anni, un odore indescrivibile ha travolto la mia esperienza estetica: pipistrelli, cavallucci marini, ogni genere di mammifero e insetto, tutto ciò che vive lì poteva essere cucinato in un qualche modo, da vivo o da morto, in un pentolone pieno di spezie e con della salsa più o meno piccante. Era un’altra epoca, il covid-19 era lontano, ma qualcosa d’indefinito da un punto di vista morale mi è apparso in mezzo a quella fiera di colori, suoni e discutibili profumi. Siamo fermi a una rigida divisione del mondo in vegetariani e onnivori perché forse non abbiamo ancora trovato le parole per spiegare che la questione non è alimentare, ma elementare: “etica ed estetica”, come disse Ludwig Wittgenstein, “sono tutt’uno”. Gran parte dei problemi che dovremo affrontare come specie umana, dalla crisi climatica alle pandemie, dipende da come gestiremo il nostro rapporto con gli animali non umani e con la natura: dovremo smettere di considerarla una tavola calda in cui riem­pirci il piatto e trattarla come un luogo da tutelare. A Bang­kok, quando avevo venticinque anni, ho visto la specie più intelligente di tutte uccidere le altre per un piatto di spaghetti. Se fossi un alieno arrivato sulla Terra per sapere qualcosa del nostro pianeta, andrei a parlare con uno di quei pipistrelli umiliati e uccisi, non con uno dei cuochi. Perché il destino del mondo è nella sofferenza silenziosa, non nello sfrigolio di un soffritto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1493 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati