30 giugno 2020 12:06

La città di Bunia, che conterà forse 650mila abitanti, si trova nell’Ituri, provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo, e da molto tempo è abituata alla guerra. Dall’inizio dell’anno i ribelli hanno bruciato e raso al suolo decine di villaggi e hanno ucciso centinaia di persone a colpi di machete.

Un gruppo ribelle costituito da aggressori di etnia lendu (agricoltori) ha lanciato una serie di attacchi contro la comunità degli hema (pastori). L’ospedale governativo della città è stracolmo di pazienti. “Abbiamo persone ferite dai machete o da colpi di arma da fuoco, donne con arti amputati, persone con fratture”, dice John Katabuku, un medico che ci lavora. “Quando arrivano gli sfollati ce ne prendiamo carico gratuitamente. È gente che ha perso tutto. Ma è difficile per l’ospedale. Davvero non abbiamo i mezzi”.

Con la guerra arrivano le malattie. L’Ituri si sta ancora riprendendo da un’epidemia di ebola cominciata nel 2018 e che prima di placarsi ha ucciso 2.262 persone nella regione. Ora è arrivato anche il covid-19. Anche se finora nella provincia ci sono solo due casi confermati, si tratta sicuramente di un dato seriamente sottostimato. Se pure la malattia si stesse diffondendo non sarebbe facile capirlo. I test devono essere mandati nella capitale Kinshasa, a 1.800 chilometri di distanza. E poche persone possono essere sottoposte al test. Circa 22 cliniche sono state rase al suolo. Un uomo che abita nella vicina regione di Djugu, anch’essa in guerra, afferma che se ti ammali non c’è alcun posto dove andare: tutti gli ambulatori sono in macerie oppure occupati dai ribelli. A Bunia l’ospedale non ha ventilatori polmonari funzionanti e ha spazio sufficiente a isolare un massimo di dieci persone, nella sezione che era precedentemente usata per i pazienti sospetti portatori di ebola. “Dobbiamo ospedalizzare due o tre bambini sfollati per ogni letto, capisci bene che non abbiamo sotto controllo la prevenzione dell’infezione”, racconta il dottor Katabuku.

Circolo vizioso
Finora il covid-19 ha imposto il suo tributo più pesante ai paesi ricchi e in pace. Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia e Spagna, cinque dei sei più colpiti, nel complesso hanno sofferto oltre la metà delle morti accertate per il virus nel mondo. Ma adesso la malattia si sta diffondendo in luoghi meno stabili. Cosa succederà? Ci sono buoni motivi per temere non solo che i conflitti favoriranno la diffusione del virus, ma anche che la sua diffusione potrebbe peggiorare le guerre. Potrebbero alimentarsi a vicenda, creando un circolo di vizioso difficile da fermare.

All’inizio della guerra del Peloponneso con Sparta, durata dal 431 al 404 a.C., Atene fu devastata da una pestilenza che imperversò in città per tre anni, uccidendo migliaia di soldati e un terzo dei suoi abitanti. “Tale era la sciagura in cui gli ateniesi erano piombati e da cui erano afflitti; e mentre all’interno della città la popolazione moriva, fuori la terra veniva devastata dalla guerra”, scriveva Tucidide, storico e generale greco. L’influenza spagnola del 1918, un’altra pandemia che ha fortemente condizionato il mondo, si inasprì nelle trincee e nelle caserme della prima guerra mondiale uccidendo più persone del conflitto stesso. Oltre 36mila soldati statunitensi morirono ancor prima di raggiungere la Francia, e di questi 12mila morirono nei mezzi per il trasporto truppe. In totale, morirono più soldati, marinai e marines a causa dell’influenza e della polmonite che per i proiettili e le bombe.

I campi di battaglia sono facili prede per il virus. Ma lo aiutano anche a diffondersi

Alcuni sperano ancora che di fronte a uno sterminatore che non fa distinzioni gli esseri umani di ogni fazione possano mettere da parte le armi, almeno per un breve periodo, per affrontare il nemico comune. António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, a marzo ha cominciato a chiedere a gran voce un cessate il fuoco globale. Suscitando buone speranze, sembrava che più di una dozzina di paesi avessero dato ascolto al suo appello. Il 30 marzo l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) colombiano, che da mezzo secolo tenta di “liberare” il paese, ha dichiarato il cessate il fuoco. Lo stesso ha fatto nelle Filippine il New people’s army (Nep), un gruppo guerrigliero comunista operativo dal 1969. L’Arabia Saudita ha tentato di ridurre le sue forze in Yemen e ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale. In Siria, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani con sede a Londra, a maggio sono stati uccisi 71 civili, la cifra più bassa registrata dall’inizio della guerra civile nel 2011.

Consiglio di sicurezza paralizzato
Ma in molti paesi la calma si è dimostrata di breve durata. Alla fine di aprile sia l’Eln colombiano sia il Nep filippino hanno annunciato che non avrebbero prorogato la tregua e avrebbero ripreso le ostilità. Il governo filippino ha sostenuto che il Nep aveva già violato in precedenza il cessate il fuoco e che, dopo che la guerriglia ha ucciso due soldati alla fine di marzo, non avrebbe senso un negoziato di pace. Il Consiglio di sicurezza, la cabina di manovra delle grandi potenze all’Onu, è rimasto paralizzato dalle beghe tra gli Stati Uniti e la Cina, in alcuni casi riguardanti faccende “importanti” come il modo di chiamare il virus. Dall’inizio della pandemia secondo i dati raccolti dall’Armed conflict location & event data project, la violenza politica è aumentata in 43 paesi ed è rimasta costante in altri 45 paesi. Tra gli incrementi più significativi ci sono quelli in Libia, nello Yemen e in Mali, ciascuno dei quali è invischiato in guerre civili con ramificazioni internazionali.

I campi di battaglia sono facili prede per il virus. Ma lo aiutano anche a diffondersi. La guerra mette in fuga i civili, che hanno sistemi immunitari già fiaccati dalla fame, dai traumi e dalla cattiva salute, trasferendo così l’infezione da un luogo all’altro. La fiducia nei governi crolla ai minimi, rendendo ancor più difficile applicare il distanziamento sociale o effettuare le vaccinazioni. E chi normalmente presta soccorso è spinto ad andarsene. Le agenzie umanitarie dell’Onu hanno già ridotto il personale in luoghi come lo Yemen e hanno limitato i luoghi in cui poter viaggiare, fa notare Robert Malley, presidente dell’istituto di ricerca International crisis group.

Nella Repubblica Democratica del Congo circa 480mila persone sono scappate dalle loro case da quando alla fine di marzo le ostilità si sono intensificate. Questa cifra rappresenta il 75 per cento di tutte le persone sfollate nel mondo durante la pandemia. Nei pressi di Bunia più di 27mila persone sfollate vivono in un campo di tende in tela cerata. Charlotte Tabu, 29 anni, dorme in una tenda condivisa con altre nove persone. È fuggita quando i ribelli hanno attaccato il suo villagio. “I ribelli hanno incendiato la mia casa mentre ero a lavorare nei campi”, dice. “Qui soffriamo, non è facile trovare cibo nel campo. Questa guerra deve finire. Io avevo sette figli, due sono rimasti bruciati nella mia casa”.

I sanitari temono la possibile diffusione del virus tramite queste comunità così sventurate, e all’interno di esse. Per esempio a Cox’s Bazar, in Bangladesh, 900mila musulmani rohingya, costretti a lasciare la Birmania, vivono in campi sovraffollati. Nel corso di un sondaggio condotto tra l’11 e il 17 aprile i ricercatori di Yale hanno rilevato che il 25 per cento degli intervistati nei campi aveva avuto almeno un sintomo tipico del covid-19. Molti di loro nella settimana precedente avevano partecipato a una preghiera comunitaria, un contesto in cui il contagio è significativamente probabile. Tanti rifugiati sono già morti.

Nuovi reclutamenti
Quelli che hanno le armi (governi e gruppi ribelli allo stesso modo) stanno sfruttando le opportunità create dal virus e dallo shock che questo ha provocato nella vita economica e sociale. In Siria e in Iraq, da marzo il gruppo Stato islamico (Is) è passato dalle minacce ai civili agli attacchi contro il governo o contro le forze sostenute dal governo. In due giorni di combattimenti ad aprile l’Is ha ucciso più di 30 soldati siriani e per un breve periodo ha preso possesso di Mubarak, una cittadina nella provincia di Diyala a nordest di Baghdad. Ai primi di maggio in Iraq il califfato ha lanciato il suo attacco più imponente da quando nel 2017 la coalizione ne aveva dichiarato la sconfitta, uccidendo dieci combattenti della milizia a prevalenza sciita Hashd al Shaabi.

In Colombia, il ponte Simón Bolívar al confine con il Venezuela è stato chiuso. Questo vuol dire che molti dei 35mila venezuelani che lo attraversavano mediamente ogni giorno ora sono costretti a passare dai valichi illegali controllati dai gruppi armati. Le autorità colombiane temono che questo flusso di persone non sottoposte a test possa scatenare un disastro sanitario. Una situazione che offre inoltre ai ribelli una nuova fonte di reclute tra i venezuelani disperati.

Profughi rohingya in un campo di Ukhia, in Bangladesh, 15 maggio 2020. (Suzauddin Rubel, Afp)

Questo è uno dei tanti modi in cui i gruppi armati colombiani hanno consolidato la loro posizione. Molti hanno colto l’occasione per espandere il loro controllo e instaurare una qualche forma di legittimità imponendo dei cordoni sanitari e misure di confinamento. In alcune aree di Nariño, nel sudovest della Colombia, il Fronte Oliver Sinisterra, un gruppo “dissidente” derivato dalle Farc (organizzazione guerrigliera oggi diventata partito politico) ha minacciato di “sanzionare” (in pratica attaccare) qualunque negozio trovato aperto o farmacia con troppi clienti all’interno. Nel dipartimento di Bolívar, nella Colombia settentrionale, l’Esercito di liberazione nazionale ha dichiarato che potranno stare aperti solo i panifici, i negozi di alimentari e le farmacie. Nella provincia di Arauca, al confine con il Venezuela, l’Eln si è perfino offerto di istruire i figli dei contadini mentre le scuole sono chiuse. Questo genere di indottrinamento potrebbe far crescere una nuova generazione di ribelli.

La crisi ha reso anche più facile per il governo colpire i gruppi rivoltosi e le loro coltivazioni illegali di coca. Dato che il traffico per le strade è ridotto al minimo e l’esercito è stato incaricato di rifornire di cibo i paesi e le città, i veicoli illegali diretti verso i covi dei ribelli spiccano alla vista. Ciò ha permesso al governo di effettuare una serie di attacchi nel dipartimento di Cauca, sulla costa del Pacifico, e di estirpare la coca anche in zone che prima evitava, perché i contadini che altrimenti opporrebbero una strenua resistenza, sono al sicuro in confinamento.

Eserciti vulnerabili
Anche gli eserciti e le flotte sono terreno fertile per il contagio. Le truppe sono ammassate nelle caserme, i marinai su navi affollate. Gli uomini in uniforme si radunano in grandi numeri per l’addestramento e le esercitazioni. Attraversano oceani e confini. Le armate di terra dedite ai saccheggi sono più rare di un tempo, ma molte zone di guerra attraggono spie, soldati e insorti attraverso le frontiere. In Iran, uno dei paesi più colpiti in Medio Oriente con quasi novemila morti, la Mahan Air, compagnia aerea affiliata al corpo delle guardie della rivoluzione islamica, per settimane ha continuato a operare tra la Cina e l’Iran dopo che le altre compagnie avevano sospeso i voli. Diversi comandanti hanno contratto il virus. Anche il movimento di combattenti sciiti finanziati dalle guardie rivoluzionarie tra Iran, Iraq, Siria, Libano, Pakistan e Afghanistan ha diffuso l’infezione. I primi casi documentati in Siria si sono verificati nel santuario sciita di Sayyida Zeinab, nei pressi di Damasco, controllato da gruppi armati appoggiati dai pasdaran.

L’impatto più drammatico è quello sulle flotte della marina

Anche gli eserciti dei paesi ricchi sono stati colpiti in modi che potrebbero avere conseguenze di lunga durata. Negli Stati Uniti oltre ottomila militari sono risultati positivi al covid-19, e tre sono stati i morti (il tasso di letalità per persone che hanno legami con l’ambito militare è dello 0,3 per cento, significativamente più basso di quello riscontrato nel resto della popolazione). I governi stranieri hanno drasticamente ridotto le forze di terra e gli addestratori militari, compresi molti dei 29 partner della coalizione contro il gruppo Stato islamico in Iraq. A marzo gli Stati Uniti si sono ritirati da sei basi in Iraq mentre la Nato ha sospeso il suo programma di addestramento. Defender-20, un’esercitazione militare che avrebbe comportato il più vasto movimento di truppe statunitensi in Europa dai tempi della guerra fredda, è stata bloccata, poco dopo che un generale polacco coinvolto nella sua organizzazione si era ammalato. Contemporaneamente, le forze armate statunitensi, come molte altre, sono state impegnate sul fronte interno, per sostenere a tutto campo, dalla logistica alla somministrazione dei test, le autorità civili sottoposte a enormi pressioni.

L’impatto più drammatico è quello sulle flotte della marina, i cui spazi angusti rappresentano le condizioni ideali per l’infezione. “È un terreno di coltura per i virus”, afferma un ex comandante di un gruppo di assalto di una portaerei. “Non esiste nessun distanziamento sociale per cinquemila persone su un mezzo lungo come tre campi da calcio e largo come uno”. La marina statunitense costituisce un quarto del personale militare del paese, ma rappresenta un terzo di tutti i casi riscontrati tra i militari. La Uss Theodore Roosevelt soprannominata Big Stick, una delle più grandi portaerei statunitensi, a marzo è stata costretta a interrompere le operazioni nel Pacifico e a tornare a Guam dopo l’esplosione di un focolaio di covid-19 che alla fine ha infettato mille persone sulle cinquemila totali dell’equipaggio, incluso il capitano. Solo alla fine di maggio la nave ha faticosamente ripreso il mare. Anche la Charles de Gaulle, unica portaerei francese, molto più piccola di quelle americane, è stata messa fuori uso dal covid-19, con due terzi del suo equipaggio risultati infetti (anche se solo la metà di questi era sintomatica).

Molti paesi temono che questa evidente disfunzione delle loro forze armate dia un’impressione di vulnerabilità. Il 6 maggio il segretario generale dell’Onu Guterres ha avvertito che alcuni “potrebbero vedere delle opportunità, perché l’attenzione dei governi e della comunità internazionale è assorbita dalla crisi sanitaria”. Per questo probabilmente Thomas Modly, all’epoca segretario della marina, ha licenziato in fretta e furia il capitano della Roosevelt, che aveva lanciato l’allarme riguardo alle condizioni sulla nave. In un discorso rivolto al malandato equipaggio della portaerei, Modly ha detto di “essere forti come guerrieri, non deboli come vittime”. La nave, ha affermato, “deve dimostrare ai cittadini a casa che sta avendo un comportamento consono, e che sta battendo il virus, così come batterebbe i cinesi o i nordcoreani o i russi se uno qualunque di questi paesi fosse così stupido da mettersi contro la Big Stick” (tempo dopo lo stesso Modly è stato costretto a dimettersi per i suoi errori di valutazione).

Tensioni inasprite
L’impellenza di sminuire le proprie debolezze e di offrire un’immagine di potenza ha causato delle nervose dimostrazioni di forza che Nick Childs, dell’International institute for strategic studies, definisce “deterrenza da pandemia”. A metà aprile la Cina ha mosso la sua portaerei attraverso lo stretto di Miyako tra Taiwan e il Giappone, un atto “opportunistico… quasi calcolato per fare da contrasto ai guai” della malconcia Roosevelt, osserva Childs. Il 22 maggio gli Stati Uniti hanno apertamente fatto notare di avere in mare sette portaerei su undici, anche se è improbabile che fossero tutte in buona forma. A metà giugno, per la prima volta da tre anni a questa parte, tre di queste sono state inviate nel Pacifico.

Il covid-19 non ha avuto sul potere militare lo stesso devastante impatto che ebbe la febbre spagnola un secolo fa. La sanità moderna è sicuramente migliore. La pandemia attuale, a differenza di quella precedente, per lo più risparmia i giovani adulti che riempiono le file delle forze armate. Ma mentre i governi erano occupati in patria e distratti all’estero il virus ha approfondito le tensioni geopolitiche (soprattutto tra Stati Uniti e Cina) e ha peggiorato un clima internazionale già febbrile. “Alcuni governanti potrebbero… considerare il covid-19 come una copertura per imbarcarsi in destabilizzanti avventure all’estero, o per distogliere l’attenzione dal malcontento interno o perché hanno la sensazione che nel mezzo della crisi sanitaria globale incontrerebbero scarsa resistenza”, avverte l’International crisis group.

Il confine tra deterrenza da pandemia e avventurismo può essere difficile da delineare. Ma alcune manovre geopolitiche hanno già preso una piega violenta. All’inizio di marzo le truppe indiane nel Ladakh, la regione himalayana confinante con la Cina, hanno rinviato la loro esercitazione annuale dopo che alcuni soldati erano stati contagiati dal covid-19, mentre la Cina ha proseguito la sua esercitazione gemella. Ma l’Esercito popolare di liberazione si è staccato dalle esercitazioni e si è precipitato su diverse zone contese del confine montagnoso, trincerandosi in un territorio strategico. L’esercito indiano vi si è imbattuto alla fine di aprile, e in tutta fretta ha deciso di trasferire altre forze verso le aree contese.

L’intreccio tra virus e guerra è condensato in una serie di video e fotografie che ritraggono i soldati dell’esercito cinese al termine di una schermaglia, mentre con le mascherine addosso si chinano su alcuni prigionieri indiani legati e sanguinanti, attenti all’igiene respiratoria perfino durante uno scontro tra potenze nucleari. Un altro combattimento c’è stato il 15 giugno, facendo un gran numero di vittime da entrambe le parti. “Una parte della leadership cinese ritiene che… la pandemia sia una finestra di opportunità per la Cina per espandere la sua influenza regionale e globale”, sosteneva a maggio Shyam Saran, ex diplomatico indiano di primo piano. “La Cina ci ha pugnalato alle spalle”, lamentava un ufficiale indiano parlando al canale televisivo News18. “Nel bel mezzo di una pandemia, non ce lo aspettavamo”.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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