Sostiene la ministra del turismo Daniela Santanchè che le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina del 2026 saranno “una grandissima opportunità”, con “milioni di persone che visiteranno la nostra nazione”. Considerato il suo entusiasmo, c’è da pensare che alla ministra siano sfuggite le polemiche degli ultimi mesi, culminate con le richieste di cancellare le Dolomiti dalla lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, proprio a causa degli eccessi di un turismo sempre più invadente e rovinoso, che da tempo affligge le montagne italiane.

La scorsa estate alcuni albergatori raccolti nel comitato di salvaguardia dei passi dolomitici hanno affermato che “forse è arrivato il momento di rinunciare al riconoscimento Dolomiti Unesco” che ha prodotto “un danno incredibile”, perché ha dato a “un’area geografica facilmente accessibile” una notorietà mondiale “superficiale, di facciata, legata solo all’immagine da cartolina”. Una posizione simile è stata espressa anche da Georg Simeoni, presidente dell’associazione alpinistica Alpenverein Südtirol, secondo il quale il riconoscimento dell’Unesco, accolto come “un marchio di protezione per le montagne”, è diventato invece “un puro strumento di marketing”. E già nel 2024 il presidente generale del Club alpino italiano Antonio Montani aveva proposto di rinunciare al “marchio” Unesco.

Il caso delle Dolomiti non è l’unico a suggerire l’esistenza di alcune criticità nel sistema di tutela che fa capo all’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite nata nel 1945 per sostenere la pace attraverso la cultura. L’Unesco promuove la conservazione, non certo il turismo. Ma quegli stessi luoghi che intende proteggere collocandoli nella lista del patrimonio culturale e naturale dell’umanità paradossalmente finiscono spesso travolti da un turismo che insegue rapinosamente quell’indicazione come si trattasse di un marchio di qualità, spinto in questo da amministrazioni locali e categorie economiche che lo banalizzano, riducendolo a uno strumento di marketing.

Così, secondo uno studio avviato nel 2023 dalla cattedra Unesco dell’Unitelma Sapienza di Roma, gli arrivi nei siti italiani della lista Unesco nel 2024 sono aumentati del 7,3 per cento rispetto all’anno precedente, mentre nei siti non inclusi nella lista sono calati del 3,2. Stesso discorso vale per le presenze: nei siti Unesco si è avuta una crescita del 14,8 per cento rispetto al 2023, negli altri la crescita si è fermata al 2,5.

Inoltre, secondo uno studio del 2024 la presenza di siti inclusi nella lista Unesco ha influenzato le dinamiche del turismo nei paesi dell’Unione europea tra il 2001 e il 2022, incidendo positivamente sul numero dei visitatori, e svolgendo un ruolo considerato cruciale anche nel marketing e nella promozione. Va detto però che il nesso tra appartenenza al sistema Unesco e aumento dei visitatori per alcuni osservatori è difficile da dimostrare.

Colpo di grazia

“Da anni si pubblicano studi e analisi sull’argomento”, spiega Remi Wacogne, ricercatore esperto di patrimonio Unesco. Se un legame tra il turismo e i programmi dell’agenzia è evidente, “le tipologie dei siti e la varietà dei contesti suggeriscono di non semplificare il nesso causa-effetto”. E questo per molte ragioni, spiega Wacogne, come il fatto che “le candidature vengono avanzate dagli stati nel quadro di politiche per lo sviluppo turistico già in atto”. Insomma si può dire che “diventare sito Unesco non cambia la sostanza dei processi, anche se ne ingrandisce la dimensione”.

Enrico Bertacchini, docente nel dipartimento di economia dell’università di Torino, analizzando i punti critici di questo sistema ha ricordato l’esistenza di studi secondo cui “l’ingresso nella lista del patrimonio mondiale aumenta la copertura mediatica dei siti a livello internazionale, ma non porta direttamente a un incremento dei flussi turistici”, anche se poi quegli stessi siti siano comunque tra i più visitati al mondo.

Al di là dei numeri, entrare nel sistema Unesco può però produrre conseguenze anche sul piano culturale. In un saggio significativamente intitolato “Unescocidio”, lo scrittore Marco D’Eramo ha sostenuto per esempio che “essere inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco è il colpo di grazia per una città”, e che “paradossalmente la conseguenza involontaria del tentativo di preservare l’unicità di un luogo è la creazione di un non-luogo”, perché preservare “significa anche fermare il tempo, fissare l’oggetto come farebbe una fotografia, proteggendolo da ogni crescita o cambiamento”.

Secondo D’Eramo, insomma, “nel momento in cui il marchio viene impresso, la vita della città finisce; è pronta per il tassidermista”, tanto che molte città si starebbero trasformando “in scenografie teatrali dove va in scena una pantomima senza vita”.

Firenze, novembre 2025. (Alessandro Calvi)

Senza arrivare a tanto, è indubbio però che quando l’unica risorsa su cui punta una comunità è il turismo, la necessità di compiacere le aspettative dei visitatori produce una inevitabile ristrutturazione dell’economia locale, penalizzando le attività e i servizi per i residenti, e soprattutto avviando una progressiva erosione dell’identità dei luoghi.

Inoltre, il genere di turismo che si è affermato negli ultimi anni, e che ha nei social media e nelle immagini i propri punti di riferimento, usa i luoghi come semplice sfondo per un’autorappresentazione del turista stesso. E questo spinge i visitatori a scegliere destinazioni sempre più simili a stereotipi che a luoghi reali. “Lo sguardo turistico”, ha scritto la ricercatrice Sarah Gainsforth, “è una ricerca del già visto, un modo di guardare socialmente costruito”. E anche questo finisce per nutrire il processo di omologazione e di desertificazione identitaria, culturale ed economica delle mete turistiche.

Mangiarsi le città

Uno degli elementi che più sta contribuendo a questi fenomeni, soprattutto in Italia, è il mangiare, tanto che si può parlare di un particolare tipo di gentrificazione: la foodification. In un recente reportage il New York Times ha raccontato di interi centri storici italiani ormai simili a ristoranti all’aperto, in cui si servono piatti instagrammabili, mentre “dietro le vetrine ci sono donne che stendono le tagliatelle, come in una messa in scena simile a uno zoo delle nonne italiane”.

Qualcuno tra residenti e amministratori locali, scrive ancora il New York Times, teme che gli eccessi possano trasformare “alcune parti d’Italia in una versione caricaturale e anacronistica di se stessa”, ma il governo italiano “ha abbracciato questa ossessione culinaria presentando una candidatura a patrimonio dell’Unesco” della cucina italiana.

Ciò che in realtà l’Italia ha presentato “non è stata la sua storia, ma una cartolina: splendidamente composta, attentamente illuminata, progettata per piacere”, ha sostenuto Alberto Grandi, docente nel dipartimento di scienze economiche dell’università di Parma, intervenendo sul Guardian. “L’idea confortante da brochure turistica di come appare la cucina italiana oscura una storia plasmata dalla fame, dalla migrazione e dall’innovazione”, ha poi riassunto il quotidiano britannico.

L’Unesco alla fine ha ammesso la cucina italiana nella lista dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. Naturalmente, ha riconosciuto un sistema culturale, non una destinazione turistica. E tuttavia le reazioni alla notizia registrate in Italia, concentrate per lo più sul calcolo di quanti turisti in più può valere quella decisione, suggeriscono che i timori espressi dal New York Times e da Grandi non siano infondati.

D’altra parte, questi meccanismi stanno già da tempo interessando molti dei siti italiani inseriti nella lista dell’Unesco, modificandone anche le caratteristiche che l’agenzia dell’Onu aveva inteso proteggere. Succede per esempio in Val d’Orcia, nella Sicilia usata come sfondo per la fiction sul commissario Montalbano e a Roma, città letteralmente stravolta dalla pressione turistica. E succede anche a Firenze. La scorsa estate ne è stata addirittura messa in discussione la permanenza tra i siti patrimonio dell’umanità come è accaduto alle Dolomiti, sebbene per ragioni diverse.

A Firenze tutto ruota attorno al cosiddetto “cubo nero”, un complesso da circa 150 appartamenti, realizzato sull’area un tempo occupata dal teatro comunale. La definizione deriva dal colore scuro della sommità del fabbricato che svetta sui tetti del centro cittadino e che ha suscitato molte proteste.

Si è parlato di una ferita inflitta alla coerenza architettonica del centro di Firenze, che è tra gli elementi oggetto della tutela dell’Unesco. Da qui il rischio – previsto, tra i tanti, anche dall’ex direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt – che Firenze possa perdere il proprio status di patrimonio mondiale dell’umanità, come è successo a Dresda dopo la costruzione di un ponte.

La storia ha occupato a lungo le cronache, ed è finita anche sulle pagine del Times. Ma basta spostare lo sguardo dal cubo nero alle strade della città per rendersi conto che l’impatto di quella costruzione su Firenze è tutto sommato poca cosa rispetto alle condizioni in cui il centro è costretto da tempo a causa del turismo di massa.

Venezia, dicembre 2025. (Alessandro Calvi)

Ce lo dice, tra l’altro, anche la massa di fotografie condivise dai visitatori sui social media. “Con le sue fotografie Martin Parr ci ha raccontato la società dei consumi. Ora siamo al grottesco”, osserva la fotografa Camilla Fatticcioni, che il rapporto tra Firenze e il turismo lo ha raccontato in un recente reportage. “Tutto è diventato una caccia all’immagine, e ci stiamo abituando a un tipo di turista che non ha più nessun interesse neppure per gli Uffizi ma si accontenta di scattarsi una foto con il duomo”, e poi via, a volte senza neppure un’idea di cosa rappresenti lo sfondo usato per raffigurare se stesso.

Tra i banchi del mercato di San Lorenzo, attorno allo storico Mercato centrale che risale all’epoca in cui Firenze fu la capitale del regno d’Italia, raccontano di dover rispondere spesso a chi chiede indicazioni per la torre di Pisa o per ponte Milvio, che è a Roma. In questo modo, dice ancora Fatticcioni, la città viene svuotata, “diventa una bella cartolina. Ma nessuno vuole vivere in una cartolina a misura di turista. E quando mancano i turisti è anche peggio: sembra un parco giochi abbandonato”.

“Il turismo è una risorsa importante, ma andrebbe gestito”, osserva Paolo La Regina, che ha un banco di artigianato su via dell’Ariento e le idee chiare su come “servirebbe qualità, non quantità, mentre ormai tutto si fa in funzione dei turisti”. Più diretta un paio di anni fa era stata Cecilie Hollberg, allora direttrice della Galleria dell’Accademia, che descrisse la città come una “meretrice”.

Secondo La Regina tutto è cominciato con la diffusione dei bed & breakfast. Ma si tratta in realtà di un fenomeno “arrivato su una piazza che già si stava svuotando”, dice Francesco Sani, direttore di FUL Magazine, rivista che ha dedicato spesso attenzione all’analisi di questi fenomeni. “Firenze è sempre stata una città di turismo”, spiega, “ma dopo l’alluvione del 1966, con le immagini della città che fanno il giro del mondo, conosce per la prima volta il turismo di massa. In quegli anni c’è una prima espulsione di fiorentini dal centro, artigiani soprattutto. È invece negli ultimi vent’anni che il fenomeno esplode”, dice ancora Sani, “producendo una gentrificazione che ha trasformato il centro storico in un parco a tema rinascimento, e ha alterato il mercato immobiliare, con una progressiva espulsione di residenti verso le periferie, e poi verso le città satellite”.

“Anni di politiche di gentrificazione e turistizzazione forzata”, si leggeva su FUL Magazine già nel 2021, hanno prodotto lo “smantellamento di buona parte di quel tessuto sociale ed economico” che caratterizzava la città “per permettere l’installazione della monocultura turistica”.

Negli ultimi venticinque anni il centro ha perso più di trentamila abitanti. E ormai, come scrive La Nazione, “ci sono talmente tanti appartamenti ridotti a bed & breakfast, che quando non siamo in piena stagione turistica la città è per lo più un insieme di case che restano chiuse”. Secondo la sindaca Sara Funaro sono 16mila gli appartamenti riservati agli affitti brevi, mentre le case popolari sono solo ottomila, e “se non riusciamo a regolare il fenomeno”, ha affermato, “rischiamo che questo divario aumenti sempre di più e che il mercato salti del tutto”. Così il comune di recente ha stabilito regole più restrittive sulle locazioni. Ma la situazione ormai è tale che la stessa identità cittadina è parzialmente compromessa.

Arretramenti

Se questo è lo stato delle cose, al di là delle polemiche di circostanza sul cubo nero l’idea che la condizione urbana del centro storico di Firenze sia ancora oggi – come si legge sul sito dell’Unesco – “pressoché intatta” meriterebbe un aggiornamento. Tanto più che è la stessa Unesco a segnalare come “molte delle minacce al centro storico siano legate all’impatto del turismo di massa”. Tuttavia, sembra difficile che qualcosa possa cambiare. Lo suggerisce per esempio la storia di Venezia, che per l’Unesco potrebbe essere il punto di non ritorno.

Nel 2011 Italia Nostra scrisse tre lettere all’agenzia dell’Onu. “Chiedevamo che Venezia fosse collocata nella lista dei siti in pericolo, poiché ritenevamo non sussistessero più le condizioni per le quali era stata inserita tra i patrimoni dell’umanità”, ricorda Lidia Fersuoch, all’epoca presidente della sezione veneziana dell’associazione che difende l’ambiente e i beni culturali del paese e poi consigliera nazionale.

Nel 2014 il World heritage committee, l’organo dell’Unesco che si riunisce ogni anno per prendere le decisioni sulla lista, esaminò la questione sollecitando provvedimenti, tra l’altro per vietare le grandi navi in laguna e incoraggiare la residenzialità e un turismo più sostenibile. L’anno successivo l’Unesco dispose un’ispezione in città, come poi anche nel 2020 e nel 2024.

“L’Italia venne presa alla sprovvista”, spiega Fersuoch, anche perché “all’epoca non era presente tra i ventuno paesi che a rotazione formano il World heritage committee”. “Negli anni seguenti però l’Italia rientrò nel committee, che da allora iniziò a retrocedere sulla tutela di Venezia”, dice ancora Fersuoch. E, anzi, da allora sembra che ci sia uno scontro tra le due componenti principali in cui si articola l’Unesco: il World heritage centre, che ha sede a Parigi, ha natura tecnica e si occupa tra l’altro delle ispezioni, e il World heritage committee che, come detto, decide sulle liste ed è formato da rappresentanti degli stati.

Un esempio dell’arretramento lo si è visto sulle grandi navi, come ha sostenuto la stessa Fersuoch in un articolo recente. Negli ultimi dieci anni, ha scritto, c’è stato “un rovesciamento totale”: si è passati dalla richiesta di “estromettere le navi dalla laguna, al plauso per aver spostato il porto ancora più dentro in laguna”, fino all’indifferenza per la “devastazione della laguna stessa”. Così, “il prossimo anno, anche grazie all’Unesco, la laguna sarà diventata un porto diffuso con ben sette (sette!) attracchi per le navi da crociera”.

Su come sia potuto succedere, Fersuoch ha le idee chiare: “C’è un problema politico: le decisioni non vengono prese da esperti ma da ambasciatori dei singoli stati. E contemporaneamente c’è un problema che riguarda le risorse: i finanziamenti stanno diminuendo, anche perché alcuni paesi come gli Stati Uniti lasceranno l’Unesco, mentre le spese aumentano anche perché aumentano i siti nella lista. Il risultato è che l’Unesco non è più un’istituzione autonoma, ma è in balia degli stati che la finanziano”.

Enrico Bertacchini, nel già citato intervento sui problemi del sistema Unesco, ha ricordato un articolo dell’Economist del 2010 secondo cui principi e regole dell’agenzia si stanno “piegando sotto la pressione degli interessi dei paesi membri, per cui le decisioni sull’iscrizione dei siti sono sempre più spesso influenzate da fattori di opportunità politica ed economica”.

Ancora più chiaro, se possibile, è stato Francesco Bandarin, che del World heritage centre è stato direttore tra il 2000 e il 2010. Dopo la riunione del 2019 del World heritage committee, Bandarin si è chiesto se fosse ancora possibile fare qualcosa per far uscire l’organo decisionale dell’Unesco “da questo triste mercato di scambio di favori tra paesi”, lamentando il fatto che il comitato aveva “dato prova di una completa indifferenza per la questione della salvaguardia di Venezia”.

Se è così, sembra difficile sostenere che la turistificazione di massa dei siti Unesco sia ancora soltanto responsabilità della politica locale e degli operatori economici. È vero che questi spesso tendono a usare il lavoro dell’agenzia dell’Onu come strumento di marketing territoriale, come avviene a Firenze, dimenticando che il suo obiettivo non è la promozione turistica ma la tutela di un patrimonio culturale. Tuttavia, l’arretramento dell’Unesco, perfino di fronte al radicale deterioramento delle condizioni di una città come Venezia a causa del turismo, rende ormai anche l’agenzia dell’Onu parte del problema.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it